Quando Filippo Tommaso Marinetti atterrò in Russia, nel 1914, era già troppo tardi. Il Futurismo, in effetti, aveva rivoluzionato le arti: Igor Severjanin – più Oscar Wilde che FTM, a dire il vero – aveva fondato gli Egofuturisti, legione lirica che rapidamente svanì; Davyd Burljuk, energumeno dal talento stentoreo, fu l’anima dei Cubofuturisti, che nel 1913 uscirono con un manifesto dal ritmo ‘marinettiano’: “Solo noi siamo il volto del nostro Tempo. Il corno del Tempo risuona nella nostra arte verbale”. Alla novità estetica – “aumentare il volume del vocabolario con parole arbitrarie e neologismi” – volevano accompagnare quella etica, perfino politica. Il campione di Burljuk, autentico Achille dei Cubofuturisti, era Vladimir Majakovskij, il quale, nel ’14, diede a Marinetti del traditore staccando così, per sempre, il futurismo russo dal cordone ombelicale italico. Nato autarchico, con spirito scapigliato e internazionale – il Manifesto originario è pubblico a Parigi, ombelico del mondo artistico dell’epoca – il Futurismo attecchisce bene ovunque ma produce ottimi frutti in Russia: si guardi all’opera di Kazimir Malevič.
Il punto comune tra Marinetti e Majakovskij, comunque, è politico. Con l’arte entrambi volevano mutare la Storia; si fecero carico del fervore dell’epoca. Così, nello stesso anno, il 1918, mentre FTM fonda il Partito Politico Futurista, Majakovskij forgia il Kom-Fut, un gruppo di combattivi “comunisti-futuristi”. A Marinetti andò meglio, per così dire: il PPF converge nei Fasci italiani di combattimento e alle elezioni politiche del 1919 – le prime con la legge proporzionale –, nel gruppo del Partito dei combattenti, ottiene un rappresentante alla Camera. Il Kom-Fut non riuscì neppure a entrare nelle aule politiche: “Il nuovo potere considerava i futuristi con molta diffidenza… nel gennaio del 1919 viene impedito al Collettivo comunista-futurista di organizzarti in partito” (Wiktor Woroszylski). Due anni dopo, intimidito dall’audacia e dal successo di Majakovskij, Lenin si rivolge alla Gosizdat, la casa editrice di Stato (l’unica, dopo l’annientamento delle editrici private), con un ordine perentorio: “Mettiamoci d’accordo perché questi futuristi non possano pubblicare più di due volte l’anno e in non più di 1500 copie”.
Letto oggi, Democrazia futurista, il programma politico del PPF, è un toccasana, tonico corroborante che eleva dal grigiore politico, dal plumbeo elettorale. È perfino profetico: chiunque si appelli “ad una concezione di politica assolutamente sgombra di retorica, violentemente italiana e violentemente rivoluzionaria, libera, dinamica e armata di metodi assolutamente pratici”, è futurista di fatto. Emersi dalle macerie della Prima guerra, i futuristi, anti-intellettuali (“Filosofi e storici avendo fatto della filosofia e della storia dei mestieri lucrativi, tengono assolutamente alla immobilità della loro lampada serale sul tavolo ingombro di documenti e temono gli scossoni fragorosi e tetri della piazza rivoluzionaria”), vogliono detronizzare i potentati, ribaltare la prassi politica, abbattere le convenzioni, di ogni sorta. Attraverso la politica, il PPF vuole sovvertire la morale: abolire il matrimonio (“La famiglia come è costituita oggi dal matrimonio senza divorzio è assurda, nociva e preistorica. Quasi sempre un carcere”; “Il matrimonio è una forma di barbarie che non avrebbe potuto reggere senza la grande valvola dell’adulterio”), liberare “l’uomo e la donna” dalla crescita dei figli mediante l’istituzione di appositi “Istituti Governativi di allevamento e di educazione della prole”, “favorire il libero amplesso”, emancipare la donna e le sue ambizioni. Il PPL è anticlericale, patriottico, “contro la burocrazia… per il decentramento”; vuole disintegrare il Parlamento in favore di un “Eccitatorio… composto di cittadini di età non superiore ai 30 anni”, e sostituire “l’attuale sistema d’ordine… reazionario, inefficace, balordo e spesso criminale” con “le scuole di coraggio” dacché “ogni cittadino deve sapere difendersi”. In qualche modo, l’individualismo sovrano si compenetra con lo Stato-re, regista di imprese e regolatore in economia. Letto oggi, appunto, Democrazia futurista è un testo provocatorio, sprezzante – ma la politica, oltre a essere l’arte del compromesso non è anzi tutto il genio della provocazione, il baricentro dell’audacia?
Il tema centrale, tuttavia, il più provocante, è quello che riguarda i rapporti tra politica e poesia, tra arte e potere. Il PPL, d’altronde, “unico nella storia… è stato concepito, voluto e attuato da un gruppo di artisti poeti, pittori, musicisti ecc.”. Che c’entra la politica con la poesia? Nulla, dice il puro di cuore. Tutto, in verità. La poesia di Dante è ‘politica’; Alessandro Manzoni è eletto Senatore nel 1860; Giosue Carducci nel 1890; Giovanni Verga nel 1920. Gabriele d’Annunzio, “candidato della Bellezza”, fu deputato dal 1897 per l’estrema destra, giusto in tempo per fare il “salto della siepe” verso il seggio dell’estrema sinistra, all’urlo di “Come uomo d’intelletto, vado verso la vita”. Fu D’Annunzio, appunto, a costituire il prototipo di Marinetti, che ne seguì la campagna elettorale intuendo il nodo focale: “trasformare la fama letteraria in influenza politica, la celebrità in potere” (Lucy Hughes-Hallett).
Come si risolve, allora, la contraddizione miliare tra arte e potere? André Malraux, plenipotenziario della cultura francese per un ventennio, sotto De Gaulle, è l’emblema dello scrittore che con rapacità narrativa (le sue Antimemorie sono un capolavoro di stile) esercita il potere culturale, informa un’epoca. Al contrario, Iosif Brodskij, raccogliendo il Nobel per la letteratura nel 1987, disse che “Se l’arte insegna qualcosa è proprio la dimensione privata della condizione umana”, sintetizzando il suo credo nella formula “l’estetica è la madre dell’etica”. Saint-John Perse – poeta e Nobel per la letteratura nel 1960 – ebbe alti incarichi politici al fianco di Aristide Briand. Alla Conferenza di Monaco del 1938, il poeta, accompagnava il primo ministro Édouard Daladier, fu l’unico a opporsi a Hitler, fino a venire quasi alle mani. Gli altri – Arthur Chamberlain, Mussolini, Galeazzo Ciano – pensavano di aver piegato, accontentandolo, il Führer. Durante gli anni del suo impegno politico, Saint-John Perse – che si chiamava Alexis Léger – impedì che fossero pubblicate, almeno in Francia, le sue opere. Riteneva inconciliabile l’esercizio politico con quello poetico. Eppure, curando per la ‘Bibliothèque de la Pléiade’ Gallimard le proprie Œuvres complètes, sceglie di destinare una porzione del tomo alle “Témoignages politiques”, dove spicca il Mémorandum sur l’organisation d’un régime d’Union Fédérale Européenne. Già: all’origine dell’Europa moderna è la riflessione di un poeta. Anche Saint-John Perse, infine, cede all’arcana utopia dell’aedo che fonda le civiltà, del druido che regala le leggi; coltiva il sogno del poeta sovrano, del poeta mago, del puro ispirato al governo.