Come lavora uno scrittore di best seller? Non così diversamente da un maestro d’orchestra. Ce lo racconta Murakami Haruki. Stavolta il libro lo scrive a quattro mani con Ozawa Seiji e si intitola Assolutamente musica (solo, si fa per dire, 300 pagine, traduzione di Antonietta Pastore, Einaudi). “Prima di tutto credo che il lavoro ci procuri la gioia più genuina. Malgrado le differenze che possono esistere tra la musica e la scrittura, siamo felici quando siamo immersi nei nostri rispettivi mestieri. Ed è proprio questa capacità di immergerci completamente nel lavoro che ci riempie di soddisfazione. Raggiungere un obiettivo è importante, certo, ma per noi la ricompensa migliore è la capacità di concentrarci profondamente, di dedicarci anima e corpo a quello che stiamo facendo al punto da non renderci conto del tempo che passa”. Alla radice di questo desiderio c’è una fame, il sentimento di non fare mai abbastanza.
“Osservando Ozawa al lavoro ho sentito la profondità e l’intensità del desiderio, un desiderio positivo, che lo anima”. Eppure. Eppure lo scrittore al tavolino non è propriamente un direttore d’orchestra, che non può certo permettersi il lusso di fare lo scorbutico. “Per quanto talentuoso, se fosse un uomo scorbutico, sempre di cattivo umore, non sarebbe accettato dai suoi musicisti. Le relazioni interpersonali sono estremamente importanti per lui. Il direttore deve essere sulla stessa lunghezza d’onda dell’orchestra, avere competenze relazionali e organizzative”. E lo scrittore, invece? Solitario, per definizione. Persino scorbutico, a volte. “Invece io, che sono uno scrittore, posso trascorrere giornate intere senza vedere anima viva, senza parlare con nessuno, senza mostrarmi al pubblico: ho questa libertà. Il lavoro di gruppo non fa parte del mio mestiere, e anche se sarebbe bene avere uno scambio con i colleghi, non ne sento particolarmente il bisogno. Tutto quello che devo fare è starmene a casa e scrivere. Mi dispiace ammettere che l’idea di guidare la nuova generazione non mi ha mai nemmeno sfiorato (né qualcuno mi ha mai domandato di farlo)”. Il libro è una conversazione tra i due artisti, ma non solo. È “la risonanza del cuore”, è quando, attraverso le parole di un altro, possiamo sentire risuonare “l’eco” del nostro cuore. “La vibrazione simpatetica che si produceva durante le nostre conversazioni non solo mi ha fatto conoscere Ozawa Seiji, ma, a poco a poco, mi ha anche rivelato Murakami Haruki”.
Ma nella realtà, insomma concretamente, com’è la vita di un artista? Che poi è sempre quello che vogliamo sapere: che cosa fa effettivamente il nostro scrittore? Come conduce le sue giornate? A che ora si sveglia? “Come Ozawa, anch’io mi sveglio alle quattro e mi concentro sul mio lavoro, da solo. D’inverno è ancora buio. Non c’è avvisaglia dell’aurora, nessun canto d’uccelli. Passo così cinque o sei ore seduto alla scrivania a scrivere, picchio sui tasti del computer e intanto bevo caffè caldo. È la mia routine da più di un quarto di secolo. Mentre Ozawa si immerge nella lettura dei suoi spartiti, io mi concentro nella scrittura. La natura delle nostre attività è diversa, ma immagino che il nostro livello di attenzione sia identico. Mi succede di pensare che non potrei vivere come faccio ora se non fossi capace di concentrarmi. Senza questa facoltà, la mia vita non sarebbe più la mia. Credo che valga lo stesso per Ozawa. Quando Ozawa ha parlato della lettura di uno spartito, ho capito concretamente cosa volesse dire, come se stesse parlando di me, non di sé”. Il libro è una miniera di informazioni musicali, ma la parte che mi interessa di più è il capitolo “Secondo interludio Rapporto tra la scrittura e la musica”, dove Murakami spiega come è diventato uno scrittore. Secondo lui, non servono scuole di scrittura, né tantomeno serve essere bravi a scuola, o molto intelligenti. La musica sembra la condizione sine qua non. Serve orecchio, in poche parole. “Ascolto musica da quando ero adolescente, ma negli ultimi anni mi sembra… di capirla meglio, direi. Riesco a percepire anche differenze piccolissime. Chissà se il fatto di scrivere ha reso più sensibile il mio orecchio… O forse è il contrario, forse se non si ha orecchio musicale, non si può diventare un bravo scrittore. Ne consegue che uno scrittore, più ascolta musica, più diventa bravo, e più diventa bravo, meglio capisce la musica. Un’influenza reciproca insomma”. Il testo di un romanzo deve avere un ritmo narrativo, questo è fondamentale. Come fare? “Nessuno mi ha mai insegnato a scrivere, non ho mai imparato tecniche di scrittura, e per dirla tutta non ho mai studiato molto. Allora come ho fatto a imparare a scrivere? Ascoltando la musica. Cosa conta di più nella scrittura? Il ritmo. Se in un testo non c’è ritmo, nessuno lo leggerà. Perché mancherà quel senso del movimento che è come una pressione dall’interno, e porta il lettore avanti, pagina dopo pagina… Prenda ad esempio i manuali d’istruzione degli elettrodomestici: se sono tanto ostici, è perché sono completamente privi di ritmo”.
Il ritmo può bastare? Leggendo queste pagine resto dubbiosa. Il ritmo non è la prima cosa che penso quando mi immergo in Murakami, tanto per cominciare. Oltretutto, in traduzione. Lui fa l’esempio dello scrittore esordiente, meteora o no: “di solito, dal fatto che i suoi libri abbiano ritmo o no, si può capire se resterà sulla scena letteraria o sparirà subito”. È una teoria, chiaro. “Ma ho l’impressione che la maggior parte dei critici letterari non tengano in alcun conto questo fattore”. Forse è il momento di prestare ascolto a questa idea. Se fosse vero? Bisogna, dunque, precipitarsi dentro un negozio di dischi, con questo libro in mano? Prendo appunti. Ci provo. Ma occhio a trasformarmi in una collezionista maniacale di dischi, anche se dubito che sia il caso mio. Mette in guardia Ozawa: “i collezionisti maniacali, non li ho mai potuti sopportare. Gente piena di soldi che ha impianti stereo fantastici e mette insieme una montagna di dischi. Un tempo, quando di soldi ne avevo pochi, mi succedeva di andare da persone di questo tipo. Arrivi e ti vedi davanti l’intera collezione di Furtwängler o di non so chi, ma i proprietari non li ascoltano mai perché hanno troppe cose da fare e non sono mai a casa”. Sarà. Ma per scrivere 1q84 -continuo a pensare – secondo me non basta il ritmo, ci vuole un universo narrativo da raccontare. O forse no. È soltanto una questione di ritmo.
Linda Terziroli