24 Ottobre 2020

Varcare la soglia dell’imperscrutabile. Che cos’è la malattia mentale? Storie dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari

C’è il profilo di un uomo con gli occhiali che urla, la bocca spalancata, la testa infilata dentro un sacchetto di plastica. Questa foto sbattuta in copertina è come uno schiaffo, ti vergogni quasi a tirare fuori questo libro che stai leggendo al parco, dove corrono i bambini. Allora questo libro te lo leggi quasi di nascosto, piegando la copertina. Mentre lo sfogli avidamente, dallo schiaffo passi al pugno in pancia, alla nausea, ti senti soffocare. Il libro si intitola Gli intravisti storie dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (prefazioni di Eugenio Borgna e Massimo Clerici, stampa Mimesis) ed è l’opera di Jacopo Santambrogio, psichiatra in formazione fenomenologica e psicoanalitica, che lavora nel settore della riabilitazione psichiatrica presso la fondazione Adele Bonolis e nell’ambito della disabilità intellettiva e dell’autismo presso il Presidio Corberi di Limbiate ed è dottorando presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

C’è una mano che sporge fuori da una cella dell’OPG di Reggio Emilia, è il 2014, c’è una foto che ritrae una lezione di ginnastica e un uomo, solo, che guarda fuori dalle sbarre: è la sua ora d’aria. Più che la potenza delle immagini in questo libro sconvolgono le parole di questi uomini che sono stati “intravisti”, che a loro volta hanno “intravisto” la propria esistenza attraverso le maglie di una rete dell’Ospedale Psichiatrico, dopo aver subito un Trattamento Sanitario Obbligatorio. “Sono intravisti perché sono attraversati dallo sguardo e dalla competenza del medico ma il loro disturbo vela sempre una piccola o grande area insondabile dove l’interpretazione formula ipotesi che tali rimangono. Il titolo prende le mosse da questa visione non del tutto piena e chiara del malato mentale, sia esso autore di reato oppure un ‘semplice’ malato mentale”.

Sono diciotto le storie raccontate in prima persona da pazienti internati negli OPG italiani prima della loro chiusura totale, che Santambrogio ha incontrato negli anni 2013/2014, prima del passaggio alle attuali Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS). Un viaggio senza scampo e senza sponde, che assomiglia per intensità ad un naufragio, quello di Santambrogio che ha incontrato i “folli-rei” prima della chiusura degli OPG ma che non conosceva, per sua ammissione, le misure di sicurezza, la loro pericolosità sociale. “Eppure la passione per la psichiatria e per la storia di questa disciplina – scrive nell’Introduzione Santambrogio – mi mossero a fare alcune domande, come se fossi un medico-giornalista, a Peppe Dell’Acqua e a entrare, in punta di piedi, in quella vicenda italiana. Era un momento delicato. Si stavano compiendo importanti cambiamenti, a oltre trent’anni dalla prima e fondamentale svolta scritta proprio dall’esperienza di Trieste e dalla caparbietà di Basaglia: l’approvazione il 13 maggio 1978 della legge 180/833 che decretava la chiusura degli istituti manicomiali”. All’inizio era un viaggio. “Quando intrapresi nel 2013 il viaggio all’interno degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, nel Paese era forte l’eco prodotto dalla denuncia della Commissione Marino. Per me e Caterina Clerici che fissava con i suoi scatti l’ultimo atto di una lunga stagione della psichiatria italiana si trattava di raccogliere documentazione al fine di fissare il momento di passaggio da un passato che sarebbe finito a breve alla nuova organizzazione di cura”.

Cosa significa entrarci, in un OPG, lo spiega subito: “Varcare, di volta in volta, la soglia di un OPG non è mai stato facile. Entravamo in una Struttura totale. Si aprivano i cancelli e si richiudevano alle nostre spalle. Attimi di fiato sospeso quando la guardia ci accoglieva e poi ci indicava la strada da percorrere da soli o in sua compagnia. La giornata cominciava carica di sorprese e di imprevisti: con chi avremmo parlato? Come avrebbe reagito? Dove ci avrebbe portato il racconto della sua storia? Si entrava in un ‘mondo altro’ carico di drammi, di sofferenza, di storie stravolte dalla violenza, di pellegrinaggi dal carcere agli Ospedali, di cure tentate e rifiutate, di contenzioni e di abbandoni, di visioni e di pensieri persecutori, di ricordi reali e di immaginazione folle. Attorno – dal giardino ai corridoi, dagli atrii alle singole stanze ricche di oggetti o svuotate di qualsiasi riferimento a un vissuto personale – tutto parlava di un luogo non comune, che a fatica avrebbe potuto diventare familiare. Ci sentivamo osservati: eravamo gli estranei. E noi incrociando gli sguardi degli internati ci affacciavamo a un dramma, ora percepibile dai tratti del volto, dalle espressioni e dagli occhi; ora imperscrutabile se non ci fosse stato descritto dai medici e dagli operatori al nostro fianco”.

I pazienti non hanno paura di dire la loro verità: l’ospedale psichiatrico è una struttura per rifiuti umani, è un raccoglitore non dissimile da dove si raccoglie l’immondizia. “Il malato mentale è vero che non guarisce, ma perché mi devo ammalare io che non sono malato? Ho superato la patologia degli altri facendo io da psichiatra agli altri. Una certa preparazione io ce l’ho. Come qua, io adesso mi trovo con ragazzi con patologie schizofreniche, deliranti. Non è il dialogo tra detenuto e detenuto: ‘non ti preoccupare che ho un amico che ha tante terre e ci andiamo lì a lavorare’. Questi discorsi non esistono proprio qua in OPG. Esiste l’odio, l’abbandono che c’è nei Manicomi, perché sono tornati ad essere dei Manicomi”. Tra le voci strazianti e potenti raccolte in questo volume c’è quella di Virginio, che sostiene che il Trattamento Sanitario Obbligatorio sia ingiusto. “Il Trattamento Sanitario Obbligatorio è una procedura sostanzialmente illegittima. Dovrebbe essere la più garantista perché c’è un medico proponente e un medico convalidante, poi ci vuole una motivazione seria per fare un TSO presso un reparto psichiatrico di un Ospedale per sette giorni rinnovabili. È invece illegittima perché questa procedura viene usata in modo molto estensivo. Basta un intervento di polizia, i sanitari firmano e il sindaco non si può rifiutare: così questa privazione della libertà personale e il trattamento psichiatrico vengono fatti in maniera molto diffusa”. Così si alimenta facilmente un circolo vizioso secondo Virginio: “L’OPG sostanzialmente è una procedura in cui basta che un giudice accampi un reato, produca come pretesto un reato, basta una querela, una relazione di polizia accompagnata da una relazione sanitaria inviata a un pm e il pm dispone l’internamento. Da qui si crea un circuito vizioso e non se ne esce mai. Un ragazzo che ha un problema in Comunità può essere sottoposto a un intervento di un giudice che lo manda in OPG. Lo manda qui senza tanti complimenti e qui deve aspettare chissà fino a quando”.

Virginio stava semplicemente andando al supermercato, all’una meno dieci, camminava in un viale isolato. Poi è passata una macchina con due persone che lo hanno minacciato. Ha cercato di schivarli. È entrato nel supermercato. Poi all’uscita, la polizia l’ha portato in commissariato. L’hanno accusato di aver rotto delle bottiglie di vetro e di aver minacciato ignoti. Dopo un TSO Virginio sostiene di essere tornato a casa con tremiti e con l’incapacità di alzarsi. Poi, dopo un altro trattamento sanitario, è finito in coma per alcuni giorni. “Per me l’OPG è un errore giuridico. Dico che è impossibile unificare l’aspetto penale e quello psichiatrico. Se uno ha commesso un reato allora certamente la sua destinazione è il carcere; se invece uno ha commesso un reato ma per qualche motivo si suppone che questo reato sia dovuto a una turba psichica è chiaro che non può essere sottoposto a una sanzione penale per quel periodo”. Virginio ritiene di non essere affetto da alcuna malattia mentale. E ancora. “Che vuol dire malattia mentale? Prima di tutto c’è il concetto di normalità. Innanzitutto uno non può essere giudicato in una gabbia, in cui ci sono altri che hanno problemi di ogni genere e che in una situazione detentiva vengono enfatizzati. È come una reazione a catena atomica. È impossibile giudicare una persona su queste basi”.

Poi c’è Dario. “Sono stato ricoverato per stalking. Mi hanno denunciato per stalking due ragazze. La mia ex ragazza che ha abortito mio figlio quando avevo ventun anni (…) e poi questa educatrice che sicuramente ha… l’ho scocciata… però, mi rendo conto di aver commesso una fesseria… però non merito un posto come questo, mi capisci? Ho delle potenzialità, anche motorie. Posso fare di tutto, capito? Io sono un tipo che faceva windsurf, surf, catamarano, laser, facevo regate. Mio padre lavorava in un club, ho fatto regate con campioni del mondo, capito? A me piace il mare, capito”. Alcune storie sono taglienti, strazianti, come quella di Mattia. “Non stavo bene perché odiavo le prostitute. Mia madre faceva la prostituta e mi trattava male. Mi voleva morto, mi diceva sempre: ‘Quand’è che muori?’. Suo padre mi paragonava sempre a mio padre e allora ho commesso degli omicidi. Ho ucciso prima un uomo, un mafioso e dopo successivamente ho ucciso tre prostitute, perché si comportavano come… (…) Le prostitute le ho uccise perché si comportavano come mia madre. Mi ricattavano, mi dicevano parolacce. Vedevo mia madre in loro, ma non in tutte. Tante erano brave prostitute. Me ne sono capitate tre cattive e le ho ammazzate. Con la pistola”.

I brandelli di vita che emergono in questa discesa agli Inferi spesso sfiorano i familiari, legami di sangue, o legami scelti, fidanzate, mogli. Anche se alcuni decidono di gettare la spugna e di abbandonare il folle reo al proprio destino spesso sono anche loro, i familiari, travolti da questa mareggiata, dal naufragio, dall’onta che travolge e disorienta. “La malattia mentale – scrive Santambrogio – quando esordisce, spesso coinvolge anche i familiari. È paragonabile a un terremoto e qualcosa comincia a vacillare nelle fondamenta della famiglia. I familiari iniziano a provare vissuti di angoscia, attivati, in primis, per la stranezza e l’imprevisto che tali segni costituiscono ai loro occhi. Ci sono familiari che vivono marcati sensi di colpa, altri che, toccati nel loro orgoglio, provano vergogna e, quindi, tendono a isolare e nascondere la persona colpita da disturbo mentale in quanto portatrice, in modo evidente, di un disagio familiare. Vi sono familiari, infine, che ricorrono alla negazione, al non vedere ciò che accade, al considerare tutto regolare, continuando a svolgere una vita in apparenza normale, ma in realtà disagiata, lasciando che il malessere della persona malata si alimenti, finché non scoppia, definitivamente”. È il destino ineluttabile del malato psichico come dell’uomo stesso, vittima per natura dell’imprevedibilità e dell’indeterminatezza. “Il malato psichico consegna questa situazione di indeterminatezza che da un lato esprime la natura della malattia, dall’altro l’imprevedibile risposta del soggetto alla cura”.

Linda Terziroli

*In copertina: Franz Xaver Messerschmidt, Der Spayer , 1777–81

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