14 Aprile 2020

Nuovo Vocabolario del Virus: “corpo”. Il corpo è diventato “corpo del reato”. Sottraendoci i defunti ci hanno rubato la vita. Dietro le mascherine, le creature, effettivamente, intrigano

“Corpo”: Il nostro corpo è defraudato in “corpo del reato”. Le forze dell’ordine – corpo armato – inseguono un corpo umano, sulla spiaggia: è reato il fatto che sia corpo. Il corpo, infatti, non è più corpo, ma contagio. Il sospetto del contagio è corretto – un corpo esiste per contattare, toccare e contagiare un altro. Ma il corpo non è il carcere dell’anima – piuttosto, le nostre case, gli appartamenti, le ville, i monolocali, sono la prigione della vita, da ricoveri rischiano di tramutarsi in trappole.

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Sottrarci al corpo defunto vuol dire rubarci la vita. I malati, è detto, muoiono senza deporre le parole ultime – ma sono quelle parole, le ultime, che seminano la vita. Senza il corpo del morto quello del sopravvissuto non è un corpo, ma uno scarto. Toccare il corpo del morente è una giusta pretesa; non toccherò alcun vivo, non contagerò nessuno, ma fatemi abbracciare il corpo del morente. Ne sarai contagiato: ma non attendo altro, non mi importa! Voglio abbracciare il morente, a rischio di morire. L’uomo è la creatura dei gesti irragionevoli. Ma non pensi agli altri… non c’è altro altro senza la prossimità del morire.

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Il capitolo 13 di Levitico assembla i precetti per curare la lebbra. “Il sacerdote esaminerà la piaga sulla pelle del corpo: se il pelo della piaga è diventato bianco… dichiarerà quell’uomo impuro” (Lv 13, 3). L’uomo piagato è visto dal sacerdote dopo sette giorni di isolamento. La piaga piega sempre il corpo: “Questa è la piaga con cui il Potente colpisce i popoli che fanno guerra e Sion: carni marciranno, pur essendo sani; occhi inariditi nelle orbite, lingua si dissecca nella bocca” (Zc 14, 12). Eppure, penso all’episodio di Tommaso raccontato nel Vangelo di Giovanni (20, 24-29) e penso che bisogna passare per il corpo e per le piaghe del corpo, e ficcare una tenda nella ferita, oltre ogni ragione.

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Inabissandosi tra le etimologie setacciate dal Pianigiani, l’avventura. Corpo viene da corpus, latino, termine tanto vago, inevitabile. Alcuni filologi lo fanno derivare dall’armeno kerp, che significa forma, e dalla radice indogermanica kar, che vuol dire fare. Il corpo è forma – per farsi deve esserci un altro corpo. Il corpo è frutto della mia immaginazione: lo deve toccare uno sconosciuto per dargli esistenza. Il pensiero – prodotto del corpo – divora la carne. Dio accade, misteriosamente, come carne, in corpo. (Su questo punto, e sul corpo-come-rito, vale la pena guardare questa conferenza di Giorgio Bonaccorso, che mi ha generosamente indicato Andrea Ponso).

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L’‘estasi’ non è uscita dal corpo ma immersione in esso. Dietro le mascherine, le creature intrigano, sono tutto corpo, tutto gambe, braccia, moto. L’abolizione del viso – i tratti somatici ispirano il platonismo, l’ideale – mantiene in ebollizione i movimenti del corpo: non ti riconosco più dalle labbra, dal taglio del volto, ma dalla camminata. C’è una diffusa bestialità anche nella forma sospettosa con cui ci scrutiamo – che questa inimicizia dia spazio all’assalto?

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Sempre sconcertante leggere l’episodio di Luca che racconta l’apparizione del Risorto verso Emmaus, a due discepoli. Gesù non è riconosciuto in vita né da morto – “Speravamo fosse lui quello che avrebbe liberato Israele”, Lc 24, 21; in effetti, Gesù ‘libera’ ben altro che Israele. Eppure, il Risorto mangia. Divide il pane con i due discepoli (Lc 24, 30) e mangia il pesce con gli altri (Lc 24, 43). C’è un atto più potente di quel corpo risorto che mangia? Il mangiare è il riconoscimento. “L’avevano riconosciuto nello spezzare il pane” (Lc 24, 35). Quel rumore del pane che si spezza mi spiazza, ancora, dopo due millenni. Il Risorto mangia, mastica, ingurgita. Un corpo morto non è morto.

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Secondo il grande storico persiano Tabari, il primo gesto che fa Adamo, “Quando l’anima arrivò alla sua testa” fu starnutire. Dalle lacrime di Adamo, cacciato dal Paradiso e “gettato in India”, crescono “diverse specie di alberi, ognuno dei quali ha una virtù, oggi usata per i medicamenti, per questo quegli alberi vengono fatti venire dalle montagne dell’India”. Attraverso starnuti e lacrime, l’uomo trova il proprio stile, la statura: il corpo si struttura su ciò che è sottratto. Racconta Tabari: “Davide era obbediente servo di Dio, e fra gli uomini un giusto. Aveva novantanove mogli, oltre le concubine. Il suo tempo era diviso in tre parti: un giorno si occupava delle questioni di questo mondo; il secondo giorno si consacrava al servizio di Dio e alle questioni dell’altro mondo; il terzo giorno si riposava con le sue donne, dandosi ai piaceri leciti” (cito da: Tabari, I profeti e i re, Guanda 1993, nella traduzione di Sergio Atzeni). La scansione è facile: questo mondo, l’altro, il corpo. Le mogli di Davide sono 99 come i nomi di Dio nel Corano: amare, dunque – toccare, toccare, toccare – è un esercizio teologico.

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La piaga delle bare accatastate, dei morenti abbandonati, del criterio della salute rispetto al desiderio di salvezza. Questa è la ferita inferta, infetta, senza cucitura. Il contagio? Credere che possiamo vivere così, separati dal morente, che sia vita quella che non mi permette di risorgere nel morto.

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I libri decisivi, semplicemente, accadono, senza ragione. Per me è stato decisivo un libro di Norman O. Brown, Corpo d’amore, un tempo edito da il Saggiatore, poi ripreso da SE, ora introvabile. Alcune frasi importanti dal capitolo Resurrezione: “Lo spirito creatore sta nella tomba, nel mucchio di letame, nel letamaio della cultura (come in Finnegans Wake); e rompe il sigillo della familiarità; rompe la crosta delle abitudini; fa rotolare la pietra del sepolcro; dà alla morta metafora nuova vita”; “Anziché dallo spirito vivente, essere posseduti dai morti. I protestanti sostituirono alla ripetizione rituale (magica) del passato (la passione di Cristo), un’invocazione puramente spirituale; una commemorazione storica. Invece di una drammatica ripetizione una rianimazione nel solo spirito, la ricerca del Gesù storico. Ma il Gesù della commemorazione storica può essere soltanto il fantasma di Gesù… Il Gesù della cerimonia commemorativa e della ricostruzione storica è il Gesù passivo, non il Gesù attivo. Il Gesù attivo può essere ricreato soltanto attivamente”; “La vita è simile alla Fenice, che sempre rinasce dalla propria morte. La vera natura della vita è la resurrezione; tutta la vita è vita dopo la morte, una seconda vita, reincarnazione”.

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E questa: “Dobbiamo sollevarci dalla storia al mistero… Sollevarsi dalla storia al mistero significa sperimentare ora, qui, la resurrezione del corpo, come realtà eterna”.

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Corrado Augias, al tiggì, ben vestito, nel suo appartamento ben decorato, sopra i frutti – marci, presumo – dell’esistenza occidentale, dice che siamo in troppi, sette miliardi e passa, e il virus è il modo con cui Mamma Natura fa fuori un po’ di umani, che l’hanno vilmente oltraggiata. Lo dice godendo l’Eden occidentale, certo, forse, che basti la raccolta differenziata ed essere giustificati. Chi muore, d’altronde, è sempre il più debole e io, a priori, non augurerei la morte ad alcuno – almeno, vi sia un duello. Ieri mi sono accorto della bellezza degli ontani: sulla corteccia gli scavi sembrano una scrittura geroglifica e cerco di penetrarne il mistero. Eppure, le case degli umani sono illuminate, le lampade sembrano fiamme e la vita è fervida. Guardo nelle stanze degli altri, con orfica curiosità: vorrei i segreti più remoti di chi le abita. Tutto mi sembra così pieno rispetto alla mia miseria. (d.b.)

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