16 Maggio 2019

“La poesia è chiassosamente praticata da troppi, pur essendo cosa per pochi”: dialogo con Nanni Cagnone (a partire dal suo Parmenide)

Il confronto che Nanni Cagnone – tra i rari ispirati, oggi, maestro d’ombre e di pietre, si direbbe, uno che andrebbe osannato nei luoghi pubblici per farci esplodere alla conversione, alla conversazione coi fondamentali – opera con Parmenide – che, scrive, “nell’avarizia e desolazione odierne, lo si fingerebbe fastidioso e astruso” – non è accademico, non è neppure filosofico, biecamente contemplativo. Cagnone sta nell’insidia del linguaggio, entra nelle parole delle origini – già è stato in Eschilo, ad esempio – trapiantando il proprio detto, ampliando verso il domani, verso ciò che non è circoscritto né è carcerato o ascrivibile alla didattica, quel parlare. Per questo, Parmenides Remastered (La Finestra Editrice, 2019), la traduzione di ciò che ci resta del libro Sulla natura ma soprattutto un’opera a parte, di Cagnone, d’indicativa altezza (“Si pensa assiduamente a durata ed estensione – spazio e tempo sono la trama del nostro inconcludente romanzo, del quale alfine non resterà che la prima, impubblicabile stesura”), di maestria indecente, cioè senza decoro, nell’abbaglio del primo, senza abbigliamento (“Come chiunque senza fissa dimora, dovrai cercare quel che inutilmente hai veduto, prima che ogni cosa ricada perdendo sua radice, prima che l’amuleto di tuo padre ceda alla sovranità della polvere, si affretti nella ruggine. Un estraneo s’è portato via quasi tutto”). Per lo più, mi siedo, mastico qualche parola (“Ogni degna lettura è un’estenuante trattativa”), ascolto questo maestro che sta sul chiodo di ogni cosa, nell’apice che ferisce. (d.b.)

Tornare a Elea, cioè alla questione dell’Essere. Che senso ha (o è questo il solo senso plausibile)?

Non pensavo a Parmenide dai tempi dell’università. Frequentavo Eschilo, Plotino, Empedocle. Poi, in un giorno d’autunno, mi ricordai d’una frase che avevo scritto un anno prima: “Sia pur esistendo, noi siamo”. Frase involontaria, non meditata. A quel punto, tolsi dalla biblioteca le edizioni di Parmenide e presi a tradurlo, cosa di cui avrei fatto volentieri a meno, se le traduzioni disponibili non fossero penose. Dopo aver affrontato Parmenide, posso dire di non condividerlo. Ho voluto un rapporto con lui perché il suo pensiero è ancora un ostacolo, un fondamentale assillo.

René Char entra in Eraclito, tu aderisci (o disubbidisci?) a Parmenide. Vorrei, però, farti parlare sui rapporti (interrotti o ininterrotti) tra poesia e filosofia.

Di recente, avendo letto il mio Parmenides Remastered, qualcuno ha osservato che non si capisce se si tratti di poesia o di filosofia – asserzione legittima, dato che la poesia è da molto tempo priva di pensiero, il che sembra autorizzare la distinzione. Ma: come si può distinguere quando si leggono Lucrezio, John Donne o G.M. Hopkins? Pensare non consiste nel mettere in versi pensieri precedenti, come fece Eliot nei Four Quartets: si deve trovare un pensiero ‘in poesia’. Naturalmente, un pensiero asistematico, intuitivo, che renda possibile evitare la metafora euforica, quello pseudoimprovviso di cui per sua fortuna si tacciono i legami, l’estrosa figura senza fondamento che fa ritorno all’esuberante, ibrido ornato della grottesca (avrai compreso che non sono un ammiratore di Celan e Char, benché ne riconosca il valore). In poesia, il senso appena avvenuto deve raggiungere la superficie, ossia dev’essere, piú che inteso, percepito. E l’attività percettiva è piú felice se non c’è nudità ma sensualità di senso, se l’esplicito cede all’implicito e il pensiero ombrosamente s’avventura fino a raggiungere uno strato inevidente della superficie, un suo commosso nascondiglio. Sia lucente, la superficie, e implicito il pensiero, recondita la sua complessità. Sotto quel ch’è nitido, linearità nessuna – non c’è pensiero adeguato che non sia sinuoso.

Entri in Parmenide ma non dici di Heidegger se non sfottendolo, “autore e mallevadore d’un tortuoso egocentrismo filosofico”: perché?

Ho letto quasi tutto Heidegger, ma invano. Anche il corso friburghese dedicato a Parmenide non m’è servito a nulla. Ha ragione Jean Bollack: “il faut de-heideggeriser Parménide”. Negli anni Ottanta, pubblicai Dialogo intorno a Eraclito, di Heidegger e Fink, ma ero maggiormente interessato a quel che diceva Fink. Heidegger costringe ad accettare la circolarità del suo lessico (o giochi a modo suo o devi sottrarti). Quel che osserva Rorty a proposito di Derrida, vale anche per lui: fa un uso argomentativo dell’enigma. Inoltre, è il capostipite della puerile propensione etimologica di non pochi filosofi contemporanei. I reduci dell’ontologischer Krieg prediligono estendere gli esiti dell’indagine etimologica, legittimando con la biografia dell’infanzia d’una parola le attuali pretese del pensiero. Il presunto senso iniziale lascia quello strato profondo del tempo, in cui agiva, per rivendicare il suo valore adesso. È il ritorno vittorioso dell’antefatto, l’imporsi della mitologia filosofica alla filosofia. In coloro che nell’ètimo cercano ‘il vero della parola’, si può intravedere una degenerazione stoica, una fallace obbedienza postuma o quella pretesa dell’intimità ch’è l’autentico. Da parte mia, non condivido neppure l’interpretazione heideggeriana di alétheia. D’altronde, i filologi dicono incerta persino l’etimologia di eteós, da cui étymos. La cosa che piú m’innervosisce? Heidegger induce Parmenide a testimoniare a suo favore, facendone un propizio antenato che dà il suo assenso da lontano: al leggerlo, preferisce il rileggersi. Ad ogni modo, non si tratta mai d’aver ragione, infatti non ho questa pretesa: ognuno deve trovare i pensieri di cui ha bisogno, ossia la propria necessità.

Nanni Cagnone secondo Eric Toccaceli

Cito alcune tue frasi (mai ‘interpretazioni’, forse suggestioni, torce sulla via) e ti chiedo di esplicitarle. Intanto: “La via negativa, la sola a noi familiare ma da non seguire, non solo è vuota d’essere: toglie esistenza”. Insomma, all’Essere abbiamo preferito il ‘non’, il ‘non siamo e non vogliamo’?

In quel caso, stavo soltanto ribadendo gli effetti della via negativa tratteggiata da Parmenide. Ciò che per lui è negativo, non è tale per me, che amo la superficie, l’apparenza e la molteplicità. Se fossi un credente, sarei beatamente politeista. Come ho scritto, “L’esistenza non è esilio, separazione, smorfia dell’Essere, il quale non è che l’inevitabile – e anche troppo accolta – allusività dell’esistere”.

“Dovrò allontanarmi dalle parole se non ci sono più dèi, è perché siamo uomini dalla lingua lunga”. Si può parlare, allontanandosi, verificando gli dèi al sole del silenzio?

La nostra lingua è profana, se n’è perduta la sacralità. Dunque converrebbe tacere, o almeno far del silenzio il soggetto del dire. Quanto a me, sono scarsamente contemporaneo: la mia lingua è diacronica, il mio atteggiamento è metastorico. In poesia non ci sono arcaismi, neologismi, parole usuali o desuete. La sua lingua non appartiene del tutto al presente d’una lingua. In poesia, ogni lingua particolare non è che un pratico sogno. Ed è, in certo modo, lingua morta.

Questa didattica estetica è ammaliante: “Per render degna la propria poesia, si deve trovare in sé un altro poeta”. Spiegaci questa spoliazione che forse l’intrepido Rimbaud diceva “Io è un Altro”.

L’affinità con Rimbaud mi sembra incerta. Dicendo, nelle lettere a Georges Izambard e a Paul Demeny, “Je est un autre”, Rimbaud si oppone anzitutto al repertorio pronominale, intimistico, del suo tempo. Non credo intuisca la crisi dell’identità e l’irruzione dell’alterità, poi teorizzate da Nietzsche, Sartre, Lacan, Lévinas… Diversamente, non vagheggerebbe “d’arriver à l’inconnu par le dérèglement de tous les sens”. La mia asserzione completa è: “Nel Canone Pali, la piú ardua richiesta: distruggere la teoria di sé stessi. Dunque, per render degna la propria poesia, si deve trovare in sé un altro poeta”. Non ho mai fatto pellegrinaggi in India, ma le culture orientali si possono in certo modo ‘praticare’, mentre la differenza ontologica o lo schematismo trascendentale in pratica non servono a niente. L’altro poeta di cui dicevo – poeta possibile, poeta avvenire –, non è un dono dell’acido lisergico o dell’inconscio, ma l’esito d’una rigenerazione interiore. La persona del poeta deve sempre attendere una decisione sulla propria sorte, se non vuole la povertà d’assumere uno stile – la maschera d’uno stile.

La poesia, ora, che cos’è?

Sociologicamente, una malattia che resiste alle terapie d’urto dei mass media e dei social networks. Una delicata attività asintotica, che richiederebbe solitudine, e invece è chiassosamente praticata da troppi, pur essendo cosa per pochi. Sarò un reazionario, insensibile al mito della democrazia, ma condivido quel che si dice negl’Inni orfici: “Il numero degli eletti è chiuso”.

*In copertina: Nanni Cagnone secondo Dino Ignani

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