18 Marzo 2018

“Benedico il proporzionale puro, sorrido al reddito di cittadinanza e il debito pubblico non è un problema”: tre domande a Domenico Cortese, filosofo controcorrente

L’abbiamo promesso. Quando non capiamo bene quello che nasiano in giro – tivù, giornali e intelletti vari, in avaria, parlano per slogan senza sprofondare oltre il mignolo dell’ovvio – domandiamo a lui. Giovane, preparato, colto. Domenico Cortese, che si è inventato il concetto ‘Filosofia del Debito’, con relativa pagina digitale di approfondimento, fonde la precisione dell’analista allo sguardo del teoreta. Diciamo che ci fa vedere le cose dall’altro lato. Se tutti berciano di economia dentro una automobile che schizza lungo una strada che non sappiamo dove conduca, Cortese ci porta sul cavalcavia. Ci fa vedere il panorama. E dove porta la strada. I temi fondamentali a cui l’ho obbligato sono tre. Reddito di cittadinanza (una malia, una follia?), sistema di governo italiano (perché ci fanno una capa così dicendo che il proporzionale è garanzia di ingovernabilità?), l’Europa che ci tiene le palle con le tenaglie del debito pubblico (ma… è davvero una catastrofe l’aumento del debito pubblico?).

Reddito di cittadinanza. Per alcuni una manna. Per altri il bisbiglio del demonio. Roba elettorale, impraticabile. Come la pensa?

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Domenico Cortese lo leggete sul sito www.filosofiadeldebito.it

Le critiche al reddito di cittadinanza sono di due tipi: “morale” e contabile. Dal punto di vista morale i critici partono sempre dal concetto di moneta come merce pari alle altre, che deve essere solo “scambiata” o “prestata”. Ma a rigor di logica la moneta appare essere una manifestazione di un potere negoziale che la comunità conferisce ad un individuo. I motivi possono essere svariati: può manifestare un obbligo della comunità nei confronti di tale individuo, ma anche la volontà da parte della comunità di incrementare il potere di negoziazione e di scambio di alcuni individui nei confronti di altri, al fine di stimolare le aspettative di questi ultimi o minimizzare il ricatto sociale di questi ultimi dei confronti dei primi. Non è un problema da poco: se concepiamo la società come una rete di identità che si realizzano grazie al grado di potere negoziale reciproco (e non come una semplice somma di punti isolati che producono a prescindere dal contesto e si scambiano beni ex post, come sembra assumere l’economia liberista quando propone come unico incentivo all’aumento della produttività l’alleggerimento fiscale) questo “bilanciamento di poteri” è cruciale per massimizzare la ricerca del lavoro più consono alle proprie qualità, da parte di tutti. Se consideriamo i vincoli alla ricezione del reddito e i tipi di coperture da cui esso sarebbe tratto (per la maggior parte, appunto, abolizioni di alleggerimenti fiscali inutili su redditi più alti) non possiamo che accoglierlo positivamente.

Lei, un po’ controcorrente, ha scritto benedicendo il ‘proporzionale puro’. Le aquile del ‘governo sicuro’ le urlano contro. Ci spieghi meglio il suo pensiero.

Io credo che ci sia una involontaria mistificazione mediatica sul tema. L’Italia ha avuto il proporzionale classico per 45 anni, lungo tutta la Prima Repubblica. Si è avuto in media un esecutivo all’anno. Eppure il numero di leggi prodotte da quei parlamenti non fu mai al di sotto della media Europea e, nelle prime 4 legislature repubblicane fu approvata in media una legge al giorno. La differenza, perciò, non è da ricercarsi nell’“efficienza” degli esecutivi, quanto nel metodo utilizzato per negoziare la loro formazione. Un proporzionale costringe le forze politiche a produrre negoziazioni sui contenuti discutendo come in un’agorà: le proposte peculiari vengono presentate all’elettorato nella loro diversità e molteplicità e vengono votate per quello che sono. Solo dopo esse sono negoziate. In un maggioritario lo strapotere di due o tre partiti o coalizioni costringe i “piccoli” ad appiattire maggiormente le loro posizioni preliminari allo scopo di fondersi o allearsi con questi prima delle elezioni, unico modo per sopravvivere ed essere presenti alle negoziazioni successive. O peggio: costringe l’elettore minoritario a votare ciò che reputa “il meno dannoso dei grandi”, unico modo perché le sue idee possano in minima parte essere considerate nelle consultazioni. Ammesso che queste negoziazioni ci siano, visto che lo scopo del maggioritario è spesso far governare in maniera assoluta la maggioranza relativa. Tutto questo è un tradimento dello spirito originario della democrazia, che dovrebbe essere frutto della discussione aperta e sempre instabile nelle sue conclusioni, non una scelta commerciale tra i pochi prodotti più convenienti anche se non sempre migliori. Se, infine, osserviamo la performance dell’Italia dall’esordio dei maggioritari ad oggi e la confrontiamo con l’epoca del proporzionale gli effetti di ciò che dico sull’appiattimento delle posizioni in politica economica sono palesi.

L’Europa ci fiata sul collo. Dobbiamo stare entro determinati parametri economici. Trump impone i dazi. L’Italia cosa deve fare?

Per smentire le pretese “numeriche” di Bruxelles non occorre neanche il pensiero riflettente. Basterebbe quello calcolante: tra le ultime ricerche sul tema quella di M. Ash, D. Basu e A. Dube (2017) dell’Università del Massachusetts, secondo i quali «dal 1970 ad oggi non c’è alcuna prova di una correlazione negativa fra debito pubblico e crescita futura di un paese», «l’aumento di debito è negativamente correlato con la crescita dei paesi nei 5 anni precedenti ma non con la crescita dei 5 anni successivi» (il che significa che è la mancata crescita che causa il maggiore debito e non viceversa) e, soprattutto, «non c’è un limite individuabile oltre il quale il debito freni la crescita». Dal punto di vista sociale vale ciò che ho detto riguardo al reddito di cittadinanza: la spesa pubblica coincide in parte con l’incrementare il potere di scambio di individui meno privilegiati (o che erano meno inseriti nel tessuto produttivo) nei confronti di altri, al fine di stimolare le aspettative di questi ultimi. E, quindi, di tutti. Riguardo il tema dei dazi, riporto una frase molto usata di frequente: togliamo i confini e otterremo i muri. Dal secondo dopoguerra in poi il livello globale dei dazi è via via calato in tutte le regioni del mondo eccetto l’Asia. Ma questo ha lasciato il campo alla così detta “libertà della volpe nel pollaio” dove i poli più forti a livello commerciale la fanno da padroni, e a misure più subdole di competizione: sussidi inappropriati, il dumping salariale, la guerra fiscale e la guerra valutaria (iniziata soprattutto dalla Germania utilizzando l’Euro, una moneta sottovalutata per la sua economia). La conseguenza prevedibile è una reazione “scomposta” e improvvisa di un paese che è in deficit commerciale da circa 40 anni come gli Usa. In economia i progressisti ormai confondono la polarizzazione dei poteri dovuta a mancanza di barriere e tutele con ecumenismo. La soluzione? Una coordinazione internazionale di ciò che può e non può essere fatto a livello tariffario che sia più coraggiosa nel mettere al primo posto la protezione delle potenzialità dei diversi paesi. La teoria dei vantaggi comparati Ricardiana è la cosa più ingannevole che ci sia: spesso viene citata allo scopo di sopprimere con la competizione insostenibile lo sviluppo di qualità in fieri che renderebbero le abilità reciproche molto diverse da quelle dello status quo. È una posizione che contraddice se stessa.

 

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