Un paio di mesi fa mi hanno portato sulla tomba di Franco Costabile, a Sambiase, Lamezia Terme. Una frase di Giuseppe Ungaretti lo commemora, Giorgio Caproni diceva che quel poeta, misconosciuto ai più, nato cento anni fa, nell’agosto del 1924, “nei limiti e forse oltre i limiti dell’umano, era un angelo”.
Finché alcuni uomini si radunano intorno alla tomba di un poeta, pensavo, la civiltà è salva.
L’opera immane di Nadežda Mandel’štam, in fondo, è la tomba che è stata negata al marito, Osip, morto di stenti, nel dicembre del 1938, in un campo di prigionia, presso Vladivostok. Da anni le sue poesie erano bandite; da anni lo trattavano come un paria; ripetutamente era stato arrestato, vessato, con il tipico accanimento che i burocrati della ferocia dedicano ai deboli. Anche per Nadežda uno dei caratteri primari del poeta è la generosità, un certo ingenuo candore, la certezza di essere esuli al proprio tempo, una sana indifferenza nei riguardi della fama.
“Chi possiede [la poesia] non ha bisogno di riconoscimenti né di investiture a cavaliere, perché la poesia per lui è qualcosa di semplice e domestico. Lavora per sé stesso, non impone nulla a nessuno e lascia agli altri l’ultima parola”.
Così scrive Nadežda.
È vero, ogni epoca ha i propri cantori, ogni potere – perfino oggi che la poesia è meno che un rifiuto – ha i propri poeti-cortigiani, eppure, nonostante i continui soprusi e i versi nascosti nella federa del cuscino, Osip Mandel’štam non ha mai virato dal compito:
“Non riesco nemmeno più a tenere il conto di tutte le grandezze immaginarie, gonfiate dall’opinione pubblica e dagli specialisti, che ho incontrato nel corso della mia vita. Di loro non resta che cenere e polvere”.
Così scrive Nadežda.
Benché straziato dai più, disprezzato dai pari, vilipeso dall’era cane lupo, il poeta non desiste e crea per noi, suoi sacrileghi lettori, uno spazio di purezza – di gioia, perfino.
L’opera di Nadežda Mandel’štam si articola in due libri, ora, finalmente, a disposizione del pubblico italiano. Il primo, Speranza contro speranza è uscito per Settecolori nel 2022 – riprende l’antica traduzione di Giorgio Kraiski, edita da Mondadori nel 1971 come L’epoca e i lupi –, il secondo, Speranza abbandonata (Settecolori, 2024) è un autentico evento editoriale. Valentina Parisi e Marta Zucchelli, infatti, hanno tradotto il libro integrale di Nadežda: l’edizione Garzanti del 1972 (Le mie memorie, a cura di Serena Vitale) uscì monca di diverse pagine. A lettura completa, si ha l’idea che l’opera di Nadežda Mandel’štam sia di gran lunga superiore ad Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn. Gli è superiore non tanto per doti documentarie e romanzesche, ma per la qualità emotiva, per la potenza ‘morale’ che rende questo libro un monito.
Frasi apodittiche, apolidi al ‘genere’ come “La poesia è preparazione alla morte”, oppure “Il legame tra il crollo totale della libertà interiore e della libertà di scelta e l’abbandono del cristianesimo è evidente, ma chi è cieco e rinuncia volontariamente alla vista non lo vede”, oppure “Nella poesia, così come in questo o quel poeta, non rimane che credere” e tante altre simili, salvifiche (ne ricalco un’altra, a dispetto dei pingui paladini del progresso: “Come è potuto accadere che la scienza si sia rivoltata contro gli uomini?”) non le troverete in Solženicyn, un romanziere di genio che ha fatto delle proprie idee degli idoli.
Ciò che differenzia l’opera di Nadežda Mandel’štam da quella di tanti, difformi ribelli sovietici, autentici briganti del verbo – che siano Solženicyn o Šalamov o Limonov – è la creazione di un personaggio indimenticabile, uno dei più grandi del Novecento. Intendo. Non che in Nadežda sia assente la denuncia degli orrori del sistema coercitivo sovietico. Tutt’altro. In una pagina piuttosto efferata, all’inizio del libro, Nadežda racconta le schifezze perpetrate dalla Čeka, i carri “pieni di cadaveri denudati”; gli omicidi nelle palazzine, dove “era stato scavato un piccolo canale di scolo per far defluire il sangue”; la “folla inferocita” che si accaniva contro “le donne con i capelli rossi per farle letteralmente a pezzi”; la “furia saccheggiatrice dei vincitori”; lo scempio della guerra civile, “l’ululato che riecheggiava ovunque per le vie ingombre di cadaveri”. Ma il punto, dicevo, non è questo.
Nadežda Mandel’štam, con atavica pazienza, come fossimo sotto le mura di Ilio e non tra i torrioni di Mosca, reclama il corpo del marito morto. L’assenza del corpo, del cadavere, dà avvio al corpus, al corpo scritto. Speranza contro speranza e ancor più Speranza abbandonata – il libro davvero ‘autoriale’ di Nadežda – posseggono la potenza del sudario, la protervia del riscatto, la forza del sepolcro vuoto. Sono il giorno nudo, bianco, prima della resurrezione – il sabato del silenzio, in cui tutto il mondo è ferito, sanguina, e Dio è morto per davvero e per sempre. Lo dice lei, per altro:
“Salvando i versi di Mandel’štam non osavamo sperare, eppure non smettevamo di credere che un giorno potessero risorgere. E ci aggrappavamo a questa fede. Dopotutto, era la fede nel valore eterno e nel carattere sacro della poesia”.
Non era una persona facile, Nadežda. Per decenni, fu il fulcro della resistenza intellettuale e spirituale contro un regime che pareggiava l’io alla melma, l’uomo a obbediente melassa. La si sfiorava, Nadežda, come fosse un simulacro, una icona. Aveva le fattezze di una strega. “Era una piccola donna, di esile corporatura, e col passare degli anni si rattrappì sempre più, come se cercasse di trasformarsi in un oggettino privo di peso che si potesse facilmente ficcare in tasca al momento della fuga”, scrisse di lei Iosif Brodskij. A lei Brodskij non piaceva: lo chiamava “il povero Brodskij”, lo diceva “un beniamino della sorte” (per il fatto di essere riuscito a lasciare l’Unione Sovietica), credeva fosse un poeta “sopravvalutato”. Forse, non le piaceva che a Brodskij piacesse suo marito, Osip Mandel’štam, che lo avesse eletto a proprio maestro. Nel 1978 le fece visita – come si fa visita a un rabdomante del destino – il viaggiatore inglese Bruce Chatwin.
Da ragazza, Nadežda sognava le calze – “le calze erano il sogno di tutte le donne, moglie e segretarie” –e le scarpe col tacco, le “amate, adorate, stupide décolleté”: un tocco di femminilità in un’era orrida, asessuata. Da adulta, sputava su chi intendeva obliare la morte, maculando il dolore con pallidi palliativi; quanto a lei, pregava di “rimanere umana anche nell’istante dell’estrema sofferenza”.
Nadežda morì nel 1980, a fine dicembre; come suo marito; come Rainer Maria Rilke, un poeta, per molti versi, opposto a Mandel’štam. Dai suoi libri, appare come una donna fiera ma al contempo capricciosa, che conosce i veleni della crudeltà: riguardo al “caso” che scaturì intorno al Dottor Živago, il romanzo di Pasternak (un poeta che, pur con riserve, venerava), scrisse che “l’editore italiano fu senza dubbio soddisfatto, perché lo scandalo fece un’ottima pubblicità al libro”.
Il capolavoro di Nadežda, dicevo, è Osip Mandel’štam. Il “personaggio” Osip Mandel’štam, quello che traluce dai suoi libri, tutt’altro che un’autobiografia e qualcosa di più di un memoir. Grazie alla moglie, Osip Mandel’štam è diventato uno dei poeti più grandi del secolo, uno dei tre o quattro o dieci poeti più importanti. Ed è diventato uno dei “personaggi” letterari più riusciti di sempre: al pari – e forse di più – di Živago, di Leopold Bloom, di Ferdinand Bardamu.
Non so se il suo sia un gesto di grazia o di tracotanza; non so se il sepolcro si sia tramutato, infine, in una prigione ulteriore. Nadežda alternava la tenebra, totale (a un certo punto scrive che “forse la gente disimparerà a leggere per sempre e i libri andranno in fumo. Forse gli esseri umani smetteranno di parlarsi e si scambieranno solo urla minacciose di sfida”) alla sopraffina estasi del sopravvissuto. Certo, l’immagine del poeta come una specie di jurodivyj, di folle di Dio, di tutto privo, da tutti rifiutato e che tutti sana, distante da tutto perché al centro di ogni cosa, dedito alla parola che salva e che sutura, è bellissima.
*In copertina: Osip e Nadežda nel 1931