26 Aprile 2022

“Quali campane per chi muore come una bestia?”. I poeti & la guerra

Nel 1929 Vallecchi esce con un libro straziante, dove la misericordia si mescola alla poetica. L’Antologia degli scrittori morti in guerra, curata da Cesare Padovani, alterna autori notissimi – Scipio Slataper, sottotenente di fanteria morto sul Podgora, in azione, il 3 dicembre del 1915, e Carlo Stuparich, fratello di Giani, morto sul Cengio, volontariamente, il 30 maggio del 1916, per non consegnarsi ai soldati di von Hötzendorf, che lo assediavano: apparteneva al Reggimento ‘Granatieri di Sardegna’ – ad altri, evidenti all’oblio (De Pava; Fauro; Borsi; Picardi; Costanzi; Castellini; Petraccone). Nino Oxilia, torinese, regista, crepuscolare, aveva una bellezza diafana, indifesa e sprezzante, cantava “è la vita una battaglia/ è il cammino irto d’inganni” e morì falciato da una granata, sul Monte Tomba, in Veneto, il 18 novembre del ’17.

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Mi sorprende, sempre, la morte di Renato Serra, micidiale intelligenza di Cesena, sul Podgora, era il 20 luglio del 1915. Qualche mese prima aveva scritto il suo testo più alto, chiaroveggente, l’Esame di coscienza di un letterato. “La letteratura non cambia. Potrà avere qualche interruzione, qualche pausa, nell’ordine temporale: ma come conquista spirituale, come esigenza e coscienza intima, essa resta al punto a cui l’aveva condotta il lavoro delle ultime generazioni; e, qualunque parte ne sopravviva, di lì soltanto riprenderà, continuerà di lì. È inutile aspettare delle trasformazioni o dei rinnovamenti dalla guerra, che è un’altra cosa: come è inutile sperare che i letterati ritornino cambiati, migliorati, ispirati dalla guerra”.

Muore freddato da un cecchino, in una specie di candore tra l’ora e il mai più. “Serra farà una fine anonima… cadrà fulminato dalla fucilata di un cecchino e cadrà senza un gemito” (Cino Pedrelli). L’anonimato di Serra è emblema della Grande Guerra: l’uniforme pareggia tutti, l’obbedienza tramuta la mente in braccio, ogni morte è egualmente inutile, sul massacro verranno sparse medaglie e coccarde, dopo; i sopravvissuti si generano nell’alloro. Bisogna vedere il corpo dello scrittore con il viso spappolato dal proiettile, bianco, in una ordalia di altri corpi, che corrono, che crollano, l’erba si avventa sul cadavere, gli uccelli snocciolano brani di carne, la luce, come sempre, fa la sua ronda, da iena.

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Così si conclude l’Esame di coscienza – che è poi uno scoscendere nella letteratura, nel modo in cui si avvita alla vita. “Tutto il mio essere è un fremito di speranze a cui mi abbandono senza più domandare; e so che non son solo… oggi è il tempo dell’angoscia e della speranza. E questa è tutta la certezza che mi bisognava. Non mi occorrono altre assicurazioni sopra un avvenire che non mi riguarda. Il presente mi basta; non voglio né vedere né vivere al di là di questa ora di passione. Comunque debba finire, essa è la mia; e non rinunzierò neanche a un minuto dell’attesa, che mi appartiene. Dirai che anche questa è letteratura? E va bene. Non sarò io a negarlo. Perché dovrei darti un dispiacere? Io sono contento, oggi”.

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La Grande Guerra fonda uno stile e istituisce la morte come un fatto letterario (si sfogli l’“Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale” curata da Andrea Cortellessa per Bompiani come Le notti chiare erano tutte un’alba, 2018). Non è il caffè ma la trincea ad autenticare – o dissolvere – le avanguardie: Giovanni Comisso, Carlo Emilio Gadda, Piero Jahier perfezionano una lingua al fronte; Clemente Rebora affila evangelico espressionismo, “Dicitura dell’àmen sul paese che fu… Al cielo spalancata ora la chiesa – breve inferno di santi; già dalla croce, crocefisso Gesù. Obelisco del caos, il campanile muto: rincorse il suo clangore nell’aria la campana, e l’ha perduto”. Giuseppe Ungaretti alla scrittura “che portava l’uomo a incontrarsi nel massacro”, tratta da resti verbali, da carte improvvisate, “cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute”, ha dato in dote l’assoluto, l’“esaltazione quasi selvaggia dello slancio vitale”: mentre tutto muore, il brillio di un’intuizione, come di bomba, sul foglio bianco.

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La guerra è una granata di martiri: ciascuno ha il proprio e il corpo del poeta, espropriato, diventa palinsesto per un patriottismo obliquo, il capro espiatorio, il leggio per dotare di estasi o di insensatezza la guerra. Charles Péguy muore alla Marna, nel settembre del ’14, aveva trentuno anni; Wilfred Owen cade a Jancourt il 4 novembre del 1918; arruolato nel Manchester Regiment, era sopravvissuto alla battaglia della Somme. “Morto il comandante, assunse il comando con spavalda brillantezza. Utilizzò personalmente una mitragliatrice sottratta ai nemici, infliggendo loro diverse perdite. Sempre si è comportato con marziale compostezza”, ricorda la didascalia alla Military Cross con cui è stato onorato e che, va da sé, non può sottilizzare troppo sui nemici (avranno avuto padre-madre-amore, e manieri di manoscritti nel cassetto?), impoetici. In Inghilterra Owen è un classico, il re di quella strana categoria, War Poet, come se anche dire di rose non comportasse una guerra, per il poeta, contro i plotoni verbali, i cardinali del vocabolario, la tradizione vescovile, energumena. Semplicemente, Wilfred Owen è un grande poeta: dimenticato dalla nostra editoria, avvezza a un paludato irenismo (le Poesie di guerra curate da Sergio Rufini per Einaudi nel 1985 sono fuori catalogo), è stato edito di recente da La Finestra Editrice (a cura di Luca Manini, 2020).

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Inno alla gioventù condannata

Che campanacci per chi muore come bestia all’ammasso?
Soltanto la rabbia mostruosa dei fucili
soltanto il rantolo rapace di mitraglie che tremano
possono sfogare un’orazione esagitata.
Nessuno li vezzeggia – nessuna preghiera o rimbombo
di campane – nessun mormorio santifica i cori –
stride, demente, il salmo di conchiglie che guaiscono;
trombe li radunano da contee su cui congiura il pianto.

Quali candele per cauterizzare la luce?
Non tra le mani ma negli occhi dei ragazzi
scintillano i sacri bagliori dell’addio.
Bianche ciglia di donna a drappeggiare il velo
i fiori saranno la tenerezza di anime pazienti
abbassano le tende: quello è il loro rimpianto crepuscolo.

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Non che il poeta muoia diversamente dai compagni di reggimento: è l’enormità della scommessa a raderlo; il verso fatto assalto; la latrina tra gli scavi, letamaio senza similitudini. La Grande Guerra prova e forma il poeta: congedatosi come tenente colonnello, plurimedagliato, Gabriele d’Annunzio trova nella lotta – vissuta come sfida, beffa, epica e teatro – la consacrazione; il futurismo è sigillato dalla morte di Umberto Boccioni nell’agosto del ’16 e di Antonio Sant’Elia, lo stesso anno, in ottobre, presso Monfalcone: una mitraglia gli fece esplodere il cranio.

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Che i morti siano numerosi, senza volto, resi equivalenti dall’uniforme è una necessità: la guerra non nobilita l’uomo, lo pianifica a carne che marcisce, roba iniqua, scomposta, che pare non avere mai avuto ricordi, amori, pensieri. La morte in sovrannumero fa sì che io non uccida un uomo ma uno stato, una istituzione, una idea: necessario sia così per vincere l’atavico anatema, non ammazzare il prossimo, il simile. Eppure: corpo ambiguo quello che muore in guerra, assassinato da gesto vile; ossessiona le notte strappandole, come pezzi di carta.

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Arruolato, a 23 anni, presso l’undicesimo Fucilieri del Lancashire, J.R.R. Tolkien passa per la Somme, è falciato dalla febbre da trincea, verrà medicato in Inghilterra; al fronte, perde molti amici, quelli che insieme a lui facevano parte del ‘Tea Club Barrovian Society’. Al figlio Christopher, che servirà nella RAF durante la Seconda guerra, scrive, il 29 novembre del 1943: “Le mie opinioni politiche inclinano sempre più verso l’anarchia (intesa filosoficamente come abolizione di ogni controllo, non come uomini barbuti che lanciano bombe), oppure verso una monarchia non costituzionale. Arresterei chiunque usi la parola Stato (intendendo qualsiasi cosa che non sia la terra inglese e i suoi abitanti, cioè qualcosa che non ha poteri né diritti né intelligenza); e dopo avergli dato la possibilità di ritrattare, lo giustizierei se rimanesse della sua idea! Se potessimo tornare ai nomi propri, sarebbe molto meglio. Governo è un sostantivo astratto che indica l’arte e il modo di governare e sarebbe offensivo scriverlo con una G maiuscola come per riferirsi al popolo… Lo studio adatto all’uomo è solo l’uomo, e l’occupazione più inadatta per qualsiasi uomo, anche per i santi, è governare altri uomini… Ebbene, auguri carissimo figlio. Siamo nati in un periodo buio. Ma c’è una consolazione: se fosse altrimenti non conosceremmo, e non ameremmo tanto, quello che amiamo”.

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Se nella Grande Guerra l’artista morto in battaglia fertilizza l’agiografia, un certo entusiasmo estetico postbellico, nella Seconda è milite ignoto come altri, carne che non decritta più Orfeo tra i bombardamenti: c’è il cinema a sancire lo spettacolo dell’agonia – oggi basta la rete, che vela le atrocità con aloni distopici, irreali, quasi che il sangue fosse gelatinoso, l’orrore, appunto, filmico.

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La Storia crede di suggestionare il poeta, ma è lui che con caratteri di cristallo la soggioga – proprio perché soccombe, vince. Levita, dunque, il corpo di Federico García Lorca, quello di Apollinaire, di Miklós Radnóti e di Bruno Schulz, il corpo dei poeti morti in solitudine, insepolti, decorati di proiettili, mutilati, dimenticati, che hanno nascosto i loro fogli tra le fessure di un muro, in prigione, nella nebulosa federa di un cuscino, nel cappotto durante l’esecuzione; corpi mistificati, esuli, assetati, in siderea barbarie; quei corpi ringiovaniti nell’olio degli anni, con pupille sui gomiti, sulle cosce, a crestare il cranio, che vengono, a mezzogiorno, nell’ora senza ombra, a reclamare giustizia all’omicidio impunito, scalano le nostre case, si assiepano nel sottotetto, ululano incubi. No, nulla cambia, ma è proprio quando la crudeltà trionfa che il poeta ribatte: la morte non esiste, è scialba mascherata, c’è chi con un verso spalanca i cassetti di un uomo, rovesciandoli.

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Incapace di prestare soccorso ai troppi falciati dopo la battaglia in Galizia, esperto in droghe e lenitivi, incorporando il dolore della guerra – vide frotte di ruteni impiccati – Georg Trakl, ricoverato a Cracovia si ammazza nel novembre del 1914, non prima di aver scritto:

“Con nuova devozione scopri il senso degli anni oscuri
algido autunno in stanze solitarie
in un azzurro sacro suonano passi luminosi”.

Lasciando questo mondo, ne ha creato un altro, innocente, per noi. Il gesto che pare di disfatta, allora, è una rinascita.

Gruppo MAGOG