Alle Olimpiadi di Roma del 1960, sessant’anni fa, come si sa, nasce il mito di Cassius Clay, rinato Muhammad Ali nel 1964. L’ultimo combattimento accadde nel 1981. In carriera ha disputato 61 incontri, 56 vittorie di cui 37 per KO. Ha ottenuto per cinque volte il titolo dei massimi, è stato dichiarato da “The Ring” pugile dell’anno in sei annate. Ha combattuto alcuni dei match più importanti della storia – contro Joe Frazier, contro Foreman – ma è stato ben più di un pugile. Muore il 3 giugno del 2016 combattendo contro la malattia, estenuante. La settimana dopo, sul “New Yorker”, Allyson Hobbs firma questo articolo, “Muhammad Ali and His Audience”.
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Il funerale di Muhammad Ali è oggi, a Louisville, Kentucky: il figlio prediletto della città, la sua sepoltura. Molto è cambiato da quando Ali, nato Cassius Clay nel Sud segregato, nipote di uno schiavo, ha imparato a boxare, a dodici anni. Dopo aver vinto la medaglia d’oro olimpica, nel 1960, Ali tornò a Louisville, stretta dalle “Jim Crox Laws”: gli era ancora vietato l’accesso ai ristoranti per soli bianchi, lo chiamavano ancora boy, ragazzo, per strada. La parabola della sua vita tocca molti punti di svolti nella storia americana e afroamericana del XX secolo.
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Pare impensabile a posteriori, ma Ali ha cominciato da perdente. Nel febbraio del 1964 era Sonny Liston il favorito, per sette a uno. Ma Ali aveva predetto di battere Liston in sei round: e così fece. Il giorno successivo uscì con lo sbalorditivo annuncio di essere membro della Nation of Islam – si è sbarazzato del suo “nome da schiavo” e della religione cristiana e ha scelto di farsi chiamare Muhammad Ali. Ali era un nero, non se ne vergognava, al contrario, fu crudo, severo, deciso nelle sue lotte per i diritti civili. “Io sono l’America”, ha detto una volta. “Io sono ciò che non vuoi riconoscere. Ma devi abituarti. Sono nero, audace, presuntuoso; il mio nome, non il tuo; la mia religione, non la tua; i miei progetti, non i tuoi; devi abituarti”.
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Alcuni si sono abituati. Altri no. È impossibile misurare quanto Ali sia stato importante per gli afroamericani del paese. In un articolo, il romanziere Walter Mosley ha ricordato di quando, da bambino, ha visto un nero, in piedi, sulle strisce pedonali, che urlava, “Sono il più grande!”, con i pugni sopra la testa. Le sue parole gli fecero effetto. “Ho sentito l’orgoglio e il dolore, l’ambizione delusa, le schegge di speranza che ti trapassano”, ha scritto Mosley. Ma non tutti sono stati animati dallo spirito del “Black Power”. Molti afroamericani non erano d’accordo con le opinioni separatiste del nazionalismo nero. Diversi giornali, per diverso tempo, compreso il “Times”, hanno continuato a scrivere “Cassius Clay” e non “Muhammad Ali”.
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Nel 1967 Ali si è rifiutato di partire per il Vietnam. “Non ho problemi con i Vietcong. Non sarebbe giusto. Non mi hanno mai chiamato negro”, ha detto alla stampa. Jackie Robinson, per dirne uno, non era d’accordo con le posizioni di Ali. I fanatici della boxe lo hanno deriso, lo hanno detto traditore. Ma quando Martin Luther King ha preso posizione conto la guerra, nel 1967, si è ispirato al pugile: “Come dice Muhammad Ali, siamo tutti – neri, marroni, poveri – vittime dello stesso sistema di oppressione”. Attivisti bianchi e neri si sono uniti contro la guerra, seguendo l’esempio di pazienza e determinazione di Ali. Per aver sfidato il governo degli Stati Uniti d’America gli è stato strappato il titolo. La Suprema Corte gli ha concesso di riprendere a boxare nel 1971. Perdere gli anni migliori, senza sapere quanto grande avrebbe potuto essere “il più grande”: questa dinamica risuona profondamente nelle lotte afroamericane, in chi ha vissuto la speranza delusa, l’impossibilità di capire cosa sarebbe potuto succedere.
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Una notte del 1989, era novembre, mio padre era in un ristorante a Greenwich, Connecticut, a cena con alcuni ex colleghi della IBM, di cui era stato dirigente. Uscì dal bagno e intravide Ali, il suo eroe. Gli stava venendo incontro. Non poteva credere ai suoi occhi. Era un appassionato di boxe e adorava Ali in tutto: la sicurezza, lo stile, la poetica, l’aspetto. Mio padre aveva servito come ufficiale di riserva nell’esercito, era stato in Vietnam, ma rispettava il coraggio di Ali, la sua scelta e il suo sacrificio. “Muhammad?”, disse, incredulo. Ali non rispose: simulò colpi, ganci, pugni, all’aria, scherzosi, verso mio padre. Accettò di passare la serata con gli amici di mio padre. Mio padre lo coprì con un cappotto, per non farlo riconoscere. Interruppe la cena. Presentò Ali. Silenzio attonito. I suoi colleghi erano lì per una cena tranquilla e ora si trovavano al cospetto di una icona della storia americana. Ali li intrattenne eseguendo una serie di trucchi magici, con un tovagliolo. Amava le persone, amava intrattenere, anche a una cena di ex dipendenti della IBM, in un ristorante, a Greenwich.
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Non ci sarà un altro Muhammad Ali. Ali ci ha fatto scorgere ciò di migliore cova in noi stessi. Potrebbe subire un pugno che ti raggela, essere perfino abbattuto, ma infine si rialzerà, continuerà la lotta. Ci ha mostrato quanto sia dura questa lotta. A 65 anni scherzava sul suo destino di “scuotere il mondo”, voleva andare sul ring, tentando la gloria del ritorno. Ali ha combattuto anche fuori dal ring. Non ha vinto sempre. Il suo corpo lo ha mollato. Ma ha plasmato la storia americana. È stato molto più di un pugile, molto più di un volto; aveva coraggio e convinzioni insoliti, annunciò al mondo di essere “il più grande” molto prima di sapere che lo era davvero.
Allyson Hobbs