Il 17 ottobre del 1910 un giovane si toglie la vita con due colpi di pistola: ha completato da poco un’ambiziosa tesi in filosofia, La Persuasione e la Rettorica, che sarebbe diventato uno dei capolavori meno letti del pensiero del XX secolo. Il giovane si chiamava Carlo Michelstaedter. Al momento della morte, aveva 23 anni.
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In ambiti linguistici come quello inglese, Michelstaedter è pressoché uno sconosciuto, a un secolo dalla morte. Il suicidio incombe sulla sua opera, invitando a speculare sul fatto che quel gesto sia la risposta alla disperazione del suo sistema filosofico. Il nuovo libro di Mimmo Cangiano, The Wreckage of Philosophy: Carlo Michelstaedter and the Limits of Bourgeois Thought, è un resoconto conciso e sofisticato dell’originalità e dell’importanza di quel pensatore.
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Uno dei punti di forza del libro è quello di riconoscere in Michelstaedter non tanto un pensatore ‘da clausura’, estraneo al mondo, ma un lucido testimone del tempo. Le questioni affrontate nelle sue tesi, in effetti, non sono semplicemente cerebrali; avevano una immediata presa socio-storica. Il giovane pensatore ha diagnosticato nella cultura borghese che lo circondava – e alla quale apparteneva – una inautenticità originaria e pervasiva, dalle forme di dominio sistematiche al gergo quotidiano. Ne La Persuasione e la Rettorica, dunque, Michelstaedter mette in scena il confronto del pensiero borghese con se stesso. Dopo aver affrontato la sua incapacità nel salvaguardare le fonti trascendenti del dominio – Dio, Essere, il senso – si volge al nichilismo, una “astrazione” del suo fallimento, l’ennesimo “ideale” benché a contrario. I lettori prendono certezza del fallimento del pensiero non come mera negazione ma come forma di controllo. La sfida del libro non sta nel risultato intellettuale: la sua pretesa è dirci come si deve vivere. Ma la risposta è in una crudele consapevolezza, esemplificata dal suicidio del pensatore.
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Nella tragedia greca Michelstaedter osservava una “uniformità tra pensiero e vita” che presto si sarebbe dissolta, deteriorata. Nella tragedia di Euripide e di Sofocle si avvertono i germi di questa disaggregazione, significata nella figura di eroi consapevoli della disunione del mondo in cui vivono. Questo mondo – il “mondo sociale” che ha voce nel coro – è una specie di schermo che rispecchia i valori dell’eroe in qualcosa che pare organizzato (la società) ma che è solo l’aggregato di proiezioni individuali, in fondo un ordine illusorio. Questa idea porta Michelstaedter a concepire la volontà individuale come espressione di un potere distinto. La volontà non esprime un potere, nel senso di mettere in atto, di ‘determinare’ una cosa, ma è, piuttosto, il metodo per occultare la coscienza che compie. La coscienza nasconde il proprio bisogno di affermazione, la propria esistenza con una sorta di bisogno o di mancanza – nasconde a se stessa il fatto che proietta nel mondo il valore che pretende di trovarvi, giustificando così le proprie proiezioni. Questo atto di possesso del mondo è una attività integrale per la coscienza, qualcosa che confonde un bisogno soggettivo con una caratteristica oggettiva della realtà. Il mondo è una ricompensa, ogni atto di volontà rinforza l’idea che il mondo non sia soltanto da possedere ma che sia fatto per il nostro possesso.
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Come scrive Cangiano, “gli individui sono preda dei bisogni che riconoscono come valore”. Uno dei veicoli per strumentalizzare la volontà degli altri – il più imponente e pervasivo – è il linguaggio. Per Michelstaedter, le strutture del linguaggio e l’apparente autonomia dei segni sono l’ennesimo riflesso speculare di una realtà concepita come giustificazione di un piacere cercato in essa. Il linguaggio è una mistificazione tanto quanto la realtà che descrive, ed è usato per stabilizzare i nostri bisogni. I limiti del linguaggio non sono i limiti del mondo ma della società. La “vita sociale”, in effetti, per il pensatore, non è altro che “una forma di lotta contro la società”. La persuasione, sopra e contro la retorica, rappresenta la negazione della realtà che la struttura, e del rapporto strumentale che noi costruiamo nel comprendere la realtà soltanto come appagamento ai nostri bisogni. La persuasione rivela l’assenza di verità, o, come scrive Cangiano, è “l’attività infinita che preserva la verità come ‘assenza’”.
Dylan J. Montanari
*Queste “Notes on Carlo Michelstaedter’s Philosophy” sono state pubblicate in origine e integralmente su “Los Angeles Review of Books”