18 Ottobre 2019

“Il principe delle maree” non è soltanto un grande film: soprattutto, è un bellissimo romanzo. Elogio di Pat Conroy

C’è un film che si apre con le acque di una palude insanguinata dall’esplosione di un sole rosso di tramonto, e i bagliori gialli denunciano lievi increspature. Tre bambini corrono sul pontile in fuga temporanea da un carcere i cui secondini sono genitori nei quali l’introversione e un’oscura e ancestrale angoscia può diventare violenza, fisica o morale. Tutto scorre sotto il pallore di un senso di colpa affilato come la lama della sempre incombente spada di Damocle. Una voce fuori campo benedice il tuffo di quei tre bambini, due maschi e una femmina, e nella loro immersione gioiosa ne celebra l’unione in un girotondo di carne, sangue ed acqua. La loro successiva emersione sigla l’inizio del film Il Principe delle Maree, uscito nel 1991.

Un intenso Nick Nolte dà volto e corpo al tormento che l’infanzia ha depositato nel cuore di un uomo, tanto chiuso in sé quanto pieno di vita da vivere e trasmettere. È uno di quei tre bambini, qualche decennio dopo. Un’appassionata Barbra Streisand, scavando nel passato di quell’uomo, ne riporterà alla luce la memoria, sepolta un giorno con la speranza di arginare il dolore, e di tutto questo innamorarsi sarà la causa nonché l’esito finale. Alla fine un uomo tornerà, o forse giungerà per la prima volta a comprendere il mistero della vita: gli affetti dati e ricevuti, l’orgoglio di fare qualcosa in cui si crede e la stima, di pochi o molti non importa, che inevitabilmente ne segue, i legami vicini e lontani. I ricordi ne sono il nutrimento. E ciò «è più che sufficiente», perché il resto è da mettere nel conto di una permanenza tra tutta la nostra «imperfetta, vergognosa umanità».

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Un film di tale potenza emotiva, perfettamente calibrata tra parole, immagini, sguardi di attori in stato di grazia, non poteva, e non può a chi oggi lo vedesse per la prima volta, non portare a chiedersi chi ne abbia scritto la sceneggiatura. Così scoprii quasi trent’anni fa Pat Conroy, autore dell’omonimo romanzo nonché dello stesso adattamento per il grande schermo (assieme a Becky Johnston). Un romanzo, The Prince of Tides, che nel 1986 vendette cinque milioni di copie e restò per circa un anno nei primi posti delle classifiche dei libri più venduti negli Stati Uniti.

Pertanto, incuriosito dal precedente e un po’ intimorito dalla mole, accolsi con piacere l’uscita nell’ormai lontano 1996 della traduzione italiana di un nuovo romanzo di Conroy, intitolato Beach Music. Davvero straordinario. Se il Principe delle Maree è in sostanza una storia d’amore, sia pure inserita in un contesto più ampio, Beach Music è un affresco corale di più generazioni che si scontrano, si incontrano, segnano la vita di una cittadina del Sud degli Stati Uniti, Waterford, e quella dei loro figli che la storia, sia quella con la minuscola sia quella con la maiuscola, finisce col disperdere per il mondo.

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Siamo di fronte ad un romanzo epico, una sorta di Odissea moderna compiuta anche stavolta in nome del ritorno, che è sempre occasione di travagli, bilanci e, infine, riconciliazioni con la vita. Con questo romanzo Conroy mi si rivelò un maestro nell’arte dell’affabulazione e, descrivendo con acume e pietas anche il dolore, la meschinità, la turpitudine e l’alienazione in cui possono sprofondare gli esseri umani, ne confermò ai miei occhi la grande capacità di avvincere il lettore e di farlo sentire partecipe di una vicenda di donne e uomini portandoti fino in fondo alla commozione.

Grazie a quest’indubbia dote, la pagina di Conroy, se sappiamo abbassare il volume della ragione, comincia a pulsare e dice qualcosa che, alla fine, riguarda anche la vita odierna di ogni singolo lettore, così che si conferma quanto la storia risenta sempre della Storia. Ci si sente infine coinvolti, talora persino travolti, dalla storia del secolo appena trascorso, e questo è quanto è in grado di compiere la parola quand’è sapientemente architettata sotto forma di narrazione. Come i racconti delle nonne che hanno avvolto di magia le infanzie di alcuni bambini.

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Cosa troverete nel libro? Tutto ciò che uomini e donne, vecchi e bambini possono costruire negli anni, prendendosi, lasciandosi, ritrovandosi, forse, un giorno. Forse. E anche tutto ciò che possono distruggere, letteralmente annientare nell’odio di guerre che massacrano popoli. Apro il libro e m’imbatto in una pagina che mi riporta alla mente la grande mareggiata che suggella un’amicizia, una generazione, un’epoca. Scorrono così le immagini esaltanti e malinconiche di Un mercoledì da leoni (1978) di John Milius, forse il solo regista che potrebbe cimentarsi nell’impresa quasi impossibile di trasformare degnamente questo romanzo in un film. Sarebbe il modo migliore per rendere omaggio alla memoria di Pat Conroy, che ci ha lasciato anzitempo nel marzo del 2016 per un tumore al pancreas. Di sé aveva detto una ventina di giorni prima di morire: «Ho scoperto di aver passato gran parte della mia vita da scrittore cercando di capire chi sono e penso di non esserci nemmeno arrivato vicino».

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Apro allora un altro libro, di piccole dimensioni, poche pagine ma preziose. È stato tradotto in italiano nel 2017, il suo autore è francese, Frédéric Schiffter. Il titolo è accattivante: Filosofia del surf (editore: il melangolo). Lo scrittore francese è filosofo e surfista, e vive a Biarritz, la capitale europea del surf. Leggo il paragrafo XXXVI del suo aureo libretto e ne sottolineo un paio di brani: «Il surfista non è solo un uomo d’azione, ma un corpo mobile inserito in un movimento di cui non è origine né causa. […] le figure, che il surfista lega a un’onda mossa da una forza cieca, danno a vedere una volontà viva che si pone e s’impone su un meccanismo della natura».

Torno pagine e pagine addietro, ed estrapolo un altro brano, stavolta dal paragrafo VIII, dove si parla di Robinson Crusoe: «Affrontando la natura, però, il naufrago torna a ciò che è essenziale, autentico, puro. Si è perso, ma ritrova in sé l’umanità edenica. Ulisse cristiano, Robinson è condannato, per la propria redenzione, a un’odissea interiore». Ho così meglio compreso Pat Conroy, la sua poetica, il suo rovello e il senso lasciato dal suo passaggio su questa terra.

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Torno al suo romanzo, Beach Music, avendo in mente le pagine di Schiffter e i protagonisti del film di Milius. Ed ecco che posso vederli come fossero lì, proprio davanti a me, in carne, ossa, pelle ramata e sangue che pulsa in crescendo: quattro adolescenti con la loro tavola da surf che si stagliano contro un cielo di burrasca, più o meno pronti a sfidare l’oceano. E nella testa ti ronzano alcune frasi di Beach Music appena rilette a mo’ di rituale omaggio e trattenuto congedo:

«E allora quale è il motivo per cui fai surf? Vorrei conoscerlo».

«Perché mi fa sentire come in presenza di Dio. L’oceano. Il sole. Le onde. La spiaggia. Il cielo. Non riesco a spiegarglielo, Doc. È come pregare senza parole».

Danilo Breschi

*In copertina: Nick Nolte e Barbra Streisand ne “Il principe delle maree” (1991). Il film, diretto dalla Streisand, ottenne sette nomination agli Oscar

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