22 Marzo 2020

“Compresi immediatamente che lei era buona e mite. Le persone buone e miti non resistono a lungo”. Il libro indimenticabile, “La mite” di Dostoevskij

L’inizio parte dalla fine, tutto è già accaduto. Abbiamo un uomo che guarda sua moglie distesa sul tavolo della sala, sua moglie morta suicida qualche ora prima. Non sta accadendo niente, quel che doveva compiersi si è lanciato in aria, si è compiuto all’arrivo del corpo sul suolo. Dostoevskij apre così questo racconto: “…Ecco, finché lei è qui, tutto va ancora bene: mi avvicino e la guardo ogni minuto; ma domani la porteranno via e come farò quando rimarrò solo?”.  Ma l’uomo è già solo, lo è sempre stato. Finché quel corpo morto sta disteso sul tavolo ci si può ancora aggrappare, si può ancora usare l’ultimo residuo di calore. Questo inizio è terrificante, l’uomo pensa soltanto a lenire la propria solitudine, non importa che sia morta la donna che ama, finché il corpo è in casa, tutto ancora va bene. Se un altro corpo c’è continua a occupare uno spazio, continua a simulare una presenza.

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Ma è in questo punto estremo del limite tra la morte (chi se ne va) e la vita (chi resta) che si apre la narrazione. La parola quindi come ricerca della verità, come atto ultimo di conquista, uno spazio, un’ultima parola. La sola verità che abbiamo però è quella di chi resta. Il lettore può solo affidarsi a questo uomo che guarda sua moglie morta. Al lettore si chiede un atto di fiducia completamente folle, un salto nel buio più totale, deve precipitare nella testa di questo uomo che guarda al corpo morto e pensa a non sentirsi solo. La donna ha solo un piccolo rivolo di sangue che esce dalla bocca, da questo sentiero nel sangue risale la narrazione. Il racconto dei fatti tenta di procedere in modo lineare, secondo una linea del tempo che parte dall’incontro dei due. In realtà questo tempo sarà poi spesso sbalzato, i ricordi e le rivelazioni si inseriranno un poco alla volta. Da un corpo abitato dal silenzio abbiamo la tentazione del racconto, raccontare per espropriarsi di una colpa, trovare una qualche vaga forma di pace. Sul silenzio del morto parlano i vivi.

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Dostoevskij non ci mette molto a dirci il perché del titolo. Chi sono le persone miti: “Compresi immediatamente che lei era buona e mite. Le persone buone e miti non resistono a lungo e, pur non aprendosi mai del tutto, è come se non fossero in grado si sottrarsi alla conversazione: rispondono quasi a monosillabi, ma rispondono, e più si va avanti, più parlano; l’unica è che non siate voi a desistere, se vi preme parlare con loro”. La mite (qui uso la traduzione di Patrizia Parnisari per l’edizione Feltrinelli) è una donna buona, che non sa resistere a lungo. Buona e quindi se si insiste, se non si rinuncia, si può rendere debole. Tutto sommato ci appare una donna vinta, priva di volontà vera, ha degli slanci dettati dalla giovane età e nient’altro. L’uomo con apparente innocenza ci racconta l’incontro con questa ragazza: nel momento in cui capisce che lei è una mite si instaura un pensiero di forza in lui “io in quel momento guardavo ormai a lei come fosse mia e non nutrivo dubbio alcuno sulla mia forza”. La possibilità di un varco di debolezza, di bontà e di ingenuità spalanca le porte alla possessione, all’imperativo. Inizia quindi un rapporto fatto di due tempi diversi, di due moti differenti. Se per lei che è più giovane gli slanci sono atti di generosità, tentativi sinceri di affetto, per lui queste concessioni non sono altro che “la generosità a buon mercato è sempre facile, ma non vale un soldo”. Questo perché chi è giovane prova tutto in modo assoluto, tutto è una prima volta, e resta così finché lo slancio non si smorza, finché la fionda non perde potenza e il laccio si usura, si spezza.

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Se è vero che una persona mite è quella che non resiste a lungo, come è possibile che chi è per natura tentato dal cedimento si volti verso il suicidio? Cosa abbiamo in questo racconto se non un uomo solo, che non si sente solo finché un corpo morto occupa uno spazio su un tavolo. La mite ha fatto una scelta tutt’altro che di cedimento. Non abbiamo alcuna parola da lei, lei è già nel niente. Non sappiamo veramente perché ha scelto di lanciarsi. Possiamo cercare solo nelle parole di quest’uomo. Ma per una donna che dovrebbe cedere a tutto il suicidio parrebbe invece un atto di rinuncia che richiede una forza che non ci aspettiamo. La mite parla pochissime volte, una delle ultime è un enigma: “Ma io pensavo che voi mi avreste lasciata così”. Dopo un lungo periodo difficile, fatto di silenzi, di un odio coltivato, il marito scatta a quel punto in un ultimo tentativo di disperato amore. Cerca di trattenerla dalla terra di indifferenza che lei era già andata ad abitare. E qui lei pronuncia quell’ultima frase. Alla mite si può chiedere di cedere, si può chiedere una condizione passiva, il silenzio, ma non chiedete a una mite di amare qualcuno che non ama. Allora questa mite rinuncia alla vita se vivere vorrebbe dire rinunciare alla fedeltà a sé stessa. Siamo così sicuri ora che una persona mite sia qualcuno che non è capace di resistere a lungo?

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Quest’uomo rientra dal sangue nella sua verità, tenta di fare chiarezza, di giustificarsi. Agli interrogativi che si pone c’è solo il freddo, mille risposte possibili e nessuna voce a dare l’addio. Ma nemmeno questo tentativo di onestà lo sposta dal suo centro: “No, davvero, quando domani la porteranno via, io che cosa farò?” L’uomo anche davanti alla morte, anche dopo la narrazione come forma di espiazione, non fa altro che rivelare sé stesso, tradisce l’ultima possibilità.

Clery Celeste

*In copertina: Karil Brjullov, “Gli ultimi giorni di Pompei”, part., 1827-1833

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