Houellebecq: un’erezione lunga 750 pagine
Libri
Fabrizia Sabbatini
Scrittore, avventuriero, viaggiatore antimoderno, esteta del selvaggio. Come vi pare. Sylvain Tesson, classe 1972, parigino, ha cominciato ragazzo attraversando in bicicletta l’Islanda, poi partecipando a una spedizione speleologica in Borneo. Sono seguite diverse esplorazioni, dall’Himalaya al Kazakistan, con una predilezione per gli spazi dell’ex Unione Sovietica. Ha dato, negli anni, una nuova, estrema definizione al ‘racconto in viaggio’: il primo libro esce nel 1996 (“On a roulé sur la terre”), con “Nelle foreste siberiane” (2011) ottiene il Prix Médicis; l’anno scorso pubblica con Gallimard “La pantera delle nevi”, da poco tradotto da Sellerio, il suo editore in Italia (dopo Guanda e Excelsior 1881). È esigente nella sua scontrosa ribellione al tempo, Tesson, calcando la scrittura come lotta, tipica di certa letteratura francese, che tempera agire e indagine. Su “L’Union” Tesson ha dato a Philippe Minard una intervista, di cui traduciamo alcuni brani. Ineluttabile è il rapporto dello scrittore con lo sterminato, con l’animale.
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Parla spesso di Rimbaud: la affascina di più il poeta o l’avventuriero?
Mi interessa il poeta, lo dico in modo categorico. L’avventuriero Rimbaud non è simpatico né entusiasmante. La sua avventura è un volo futile, il suo viaggio l’epos del dolore. La sua fuga è polvere negli occhi, una illusione permanente.
Condivide la sua esigenza di “esilio interiore”?
Certo. Verlaine lo chiamava “l’uomo dalle suole di vento”, ma potremmo dirlo l’uomo dalle suole che bruciano. Era infiammato dalla strada, dalla corsa. Le ragioni dell’esilio interiore sono spiegate dalla fuga. Voleva fuggire, Rimbaud: dalla madre, dalla società, e probabilmente dal proprio genio.
Lei è spesso in viaggio: non potremmo definire questa inquietudine una fuga, nel senso nobile del termine?
Nel senso nobile del termine… I viaggiatori sono riluttanti ad ammetterlo, perché non è nobile dire che stai fuggendo. Sono molto netto riguardo alle mie intenzioni: ogni viaggio è una fuga. Scappo dalla noia, fuggo dall’obbligo di dovermi sottomettere ai dettami del nuovo ordine, della nuova società. Fuggo dal diktat della macchina, dell’amministrazione, di tutto ciò che ci imprigiona.
Insomma, lei non appartiene a questo mondo…
Non sono fatto per questo mondo. Sono totalmente inadatto a un mondo governato dall’ordine cibernetico, mercantile, sanitario, tecnico, ‘di sicurezza’. Non mi interessa starci per cui per me è necessario fuggire.
Questa fuga è dolore, tripudio, incapacità di fare altro…
Sono banale: cerco di sterzare la sofferenza, il dolore, la nostalgia, la malinconia con la fame di vita. Ho ancora un notevole appetito verso la vita e questo maschera il mio dolore. Sono più famelico rispetto alla pressione del pianto.
Una delle conseguenze della pandemia è quella di limitare i viaggi a lunga distanza.
La pandemia non ha cambiato il mio modo di essere, perché ho costruito la mia vita sul silenzio e la solitudine. Chi è ben fornito economicamente vive meglio la pandemia, è ovvio. Eppure, l’asse della diseguaglianza non passa soltanto attraverso le condizioni socio-economiche, ma attraverso il nostro rapporto con il tempo e la vita interiore.
Possiamo vivere soltanto di mente, di testa?
Non credo. Sono un essere profondamente organico. Credo nel beneficio dello sforzo fisico, nell’ispirazione data dalla strada. Rimbaud, poeta di immensa sensibilità, era un uomo del cammino, del sentiero, della foresta e del bivacco. È morto spingendo il suo scheletro fino alla fine. Tutto questo per dire che non puoi mangiare le astrazioni. A meno che tu non sia malato e non sia Proust… ma di simili geni dell’interiorità un secolo offre uno o due esemplari!
Scrive viaggiando?
Certo. Ho bisogno di un contatto profondo con la natura e con il cammino: solo facendo uno sforzo nascono le idee. Sono un essere condannato al reale. Sono guidato dalla percezione dei miei sensi perché l’avventura è anzi tutto una proposta sensoriale. Successivamente, sta a noi trasformare queste sensazioni in un’esperienza dello spirito. Per scrivere, comincio con ciò che sento. Non sono un romanziere, non sono un uomo di concetto né un ideologo. So cosa provo – ma spesso non so cosa penso. Preferisco vedere che credere, sentire che pensare. In questo, sì, sono molto superficiale.
Dopo il Prix Renaudot la sua notorietà è cresciuta considerevolmente. Cosa è cambiato?
Nulla. L’obbiettivo della mia vita, al momento, è l’arrampicata su roccia. Il modo migliore per voltare le spalle al mondo. Ovviamente, la ricompensa è molto piacevole, ma sono immune alla vanità: passo la vita a leggere e a rendermi conto, quindi, che sono assai lontano dal meritare il premio che mi è stato concesso. Questo favore editoriale si basa sull’equivoco che ordina di sacrificarsi alla sua piccola scenografia, al carnevale della rappresentazione. Lo so bene, e sono da un’altra parte.
Lei non è un attivista…
Per carità: preferisco la poesia ai manifesti. Non mi piacciono le ideologie, le lezioni, i giudici e mi insospettiscono i sacerdoti. Non sono un misantropo e rifiuto l’idea che l’umanità sia un concetto astratto. Non ho mai incontrato l’Umanità o l’Uomo con la U maiuscola. Amo profondamente alcuni volti, diffido delle generalizzazioni. Sono più interessato alle parti che agli insiemi, all’atomo che alle masse.
In molti dicono che dovrebbe accedere all’Académie française.
Non ho mai indossato lo smoking, adoro le pistole, i coltelli, e so che esiste un magnifico edificio del XVII secolo che vorrei scalare con una corda doppia. Alle aziende preferisco le fratellanze, alle istituzioni una bevuta tra amici.