20 Aprile 2020

Essere umani è essere folli? “Mi sono ferito con tutta la vita che potevo”. Sull’ultimo romanzo di Daniele Mencarelli

Tutto chiede salvezza (Mondadori, 2020) ha la voce di chi è lontano. Non fatevi ingannare da questo narratore che vi racconta tutto in prima persona, dove le cose sembrano accadere momento per momento. C’è una distanza, la distanza che impone il tempo e la ragione. Tutto questo è accaduto a me, che ero un altro, mi è accaduto e per questo nel ricordo mi riporto dentro a quel tempo e a quel luogo. Avviene esattamente così quando subisci un trauma. Quando ti ricoverano, quando sei obbligato a sette giorni nel reparto di psichiatria. Dal trauma con dolore se ne esce, ma resta un eco nel cervello che risale a volte in superficie. Come un relitto fermo in acque profonde, ogni tanto un raggio lo intercetta. Siamo un mare, ospitiamo relitti. Tutto chiede salvezza è il racconto di un trattamento sanitario obbligatorio: Daniele Mencarelli dà il suo stesso nome al protagonista, lui è se stesso. La finzione è una questione che qui salta completamente.

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Tutto è molto calibrato, i capitoli organizzati secondo la scansione dei giorni del ricovero. Mencarelli ci racconta in presa diretta chi gli fa compagnia, ci riporta le voci. Pare di sentirli i matti veri. Ma un uomo che nasce poeta, come primo istinto di comunicazione, non può scordarsi del verso. Non può che continuamente ritornare a quella prima voce, anche se scrive in prosa. La poesia è qualcosa che ossessiona, non ti lascia facilmente, tu non la lasci così facilmente, è un lusso che non ti puoi permettere: “Interrompere la scrittura mi fa nascere pensieri storti”. Ma qual è la forma del male che porta un ragazzo appena ventenne dentro un reparto psichiatrico, al trattamento obbligato. La colpa è semplice: sentire le cose, “mi sembra tutto gigantesco, però gli altri non la vedono così. Per me è una specie de ritardo mentale”. Appropriarsi delle gioie e del dolore altrui non si chiama empatia? Siamo al punto in cui sentire l’altro è una cosa strana, inappropriata. Ma non sappiamo che forse vedere tutto grande ci permette di vivere il doppio degli altri. Ho vent’anni ma me ne sento duecento.

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Mencarelli ci riporta allo stadio in cui la pazzia è in realtà la condizione primaria dell’uomo, ci siamo dimenticati tutto.Sì, perché le altre persone crescono, fanno la conoscenza della morte, dell’amore, di come è fatta la vita in generale, e se ne fanno una ragione, convivono tranquillamente co’ tutto. Io no. Non riesca a facce l’abitudine. Ogni giorno rinasco e rifaccio i conti da capo, di notte è come se morissi, pe’ rinasce la mattina dopo”. Abbiamo imparato a dimenticare per sopravvivere. Mencarelli ci ricorda da dove veniamo, che sia un luogo che sfiora la follia è possibile perché rinascere ogni mattina è un atto di dolore. Ci si abbandona alla vita al risveglio, ci si lascia nudi alla possibilità feroce del giorno. Mencarelli con Tutto chiede salvezza chiede al lettore di salvarsi, di ritornare a essere umano: “è incredibile come l’essere umano sia capace di assuefarsi alle cose, anche le più bizzarre, inverosimili”. Questo libro non vi farà domande dirette, non vi porrà di fronte a una scelta, vi striscerà come una serpe nel letto, sentirete le domande posarsi come squame sulla pelle. Dovrete porvi delle domande, trovare la zona del limite. Essere umani è essere folli? Chi siamo davvero e quale confine abbiamo scelto, chi abbiamo scelto di essere.

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Che i matti siano invece coloro che non hanno avuto scelta? Coloro la cui natura, il cui sentire è stato più forte della regola. In cui la natura si riprende la sua antica origine. A me il Mencarelli del romanzo non sembra pazzo. Non gli avrei dato un TSO. Ma oggi non si cura più solamente la malattia mentale, oggi è l’enormità della vita a dare fastidio, il miracolo dell’unicità dell’individuo, mentre la scienza vorrebbe contenere, catalogare. Ormai è tutto malattia, ma vi siete chiesti perché? Perché un uomo che s’interroga sulla vita non è più un uomo produttivo”.

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Mi sono ferito con tutta la vita che potevo” credo sia la frase simbolo di questo libro. Mencarelli ha avuto il coraggio di ferirsi con la vita. Sfondare il limite del normale? Possibile. Ma ferirsi con la vita è l’unica cosa che abbiamo, l’unico mezzo per sentire ancora, forse estremo. I poeti, anche se scrivono prosa, non si liberano mai di quella voce: “Oggi so che non sono io a vedere grandi le cose, ma sono loro a esserlo (…) La dimensione reale delle cose è gigantesca”. Chi scrive ha il dovere di riportare le cose alla loro dimensione, di restituirci la vista.

Clery Celeste

*In copertina: Antonio Donghi, “Il giocoliere”, 1936

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