21 Maggio 2024

“Hemingway è uno scrittore omerico”. Dialogo con Matteo Nucci

Sognava i leoni – L’eroismo fragile di Ernest Hemingway (HarperCollins, 2024) di Matteo Nucci è un libro memorabile, un vero “corpo a corpo” con la scrittura dell’autore di capolavori come Per chi suona la campana o Il vecchio e il mare: è una ricognizione che rimette nella giusta luce un Classico del Novecento che oggi rischia di essere opacizzato dal suo stesso mito. Tra i tanti temi toccati nel saggio, “l’ossessione” di Hemingway per lo stile, le sue “regole” per scrivere bene secondo “grazia sotto pressione”, il suo debito con Omero, la sua ossessione per lo spettro della morte come il suo bisogno d’amore.

Tra le opere più recenti di Matteo Nucci (Roma, 1970), i saggi letterari Achille e Odisseo (Einaudi 2020) e Il grido di Pan (Einaudi 2023) e il romanzo Sono difficili le cose belle (HarperCollins 2022).

Come nasce la tua passione per Hemingway?

Hemingway è uno scrittore vitalista, uno che scrive per vivere e vive per scrivere. Difficile per me resistere a questo fascino, da ragazzino. Lì tutto è cominciato. Con la smania di vivere e scrivere. Ma vedi, come ogni vero vitalista, Hemingway e i suoi eroi, portano avanti una costante lotta contro la morte. È l’eternità la dimensione in cui vogliono affacciarsi. Per questo la passione è cambiata nel tempo e ha preso non solo il ragazzino, ma anche l’adolescente, eppoi, con salite e discese, anche l’adulto.

Tu sei romanziere, cosa ti ha insegnato la scrittura di Hemingway? Quali sono i suoi più importanti consigli di scrittura?

Hemingway è molto generoso con gli aspiranti scrittori. Dispensa consigli tecnici e pratici. Dall’idea di non scrivere mai, in una giornata, fino all’esaurimento degli argomenti, pur di tenersi qualcosa con cui ricominciare il giorno seguente. Fino alle teorie più solide come la famosa teoria dell’iceberg, ovvero l’omissione del cuore della vicenda. Il punto però è che spesso sono consigli molto fraintesi. Si deve approfondire parecchio la parola apparentemente semplice dello scrittore per coglierne la complessità. Allora anche i consigli più banali si riempiono di luce.

Oggi Hemingway rischia di essere ridotto alla stereotipata immagine del “macho” e come tu scrivi forse è vittima del suo stesso “mito”. Secondo te perché non può essere dimenticato? Quali sono a tuo parere le caratteristiche che rendono unica la sua scrittura?

Il mito che lo oscura è insussistente e falso. Il macho, per esempio, nei racconti e nei romanzi, è del tutto assente. Bisogna leggerlo, Hemingway. Allora la sua scrittura si rivela – come diceva Francis Scott Fitzgerald – “infettiva”. Le caratteristiche sono note: brevità, concisione, paratassi, miniatura, minuziosa descrizione del gesto, ripetizione, passaggio dall’universale al particolare, presenza prepotente del dialogo breve e stellante. In realtà, a me pare che le caratteristiche principali siano assolutamente omeriche. Hemingway è uno scrittore omerico – ne sono abbastanza convinto.

Qual è il tuo romanzo preferito e perché?

Io credo che Hemingway raggiunga altezze sublimi nella forma racconto. Quanto ai romanzi, il primo, Fiesta o Il sole sorge ancora, resta un esordio folgorante e inarrivato per molti versi. Mentre Per chi suona la campana fa un passo fondamentale verso il culmine narrativo dell’amore assoluto che io ritengo il tema decisivo della poetica hemingwayana. Il capolavoro, dunque, è Il vecchio e il mare. Racconto lungo? Romanzo breve? Non so dirlo e non m’interessa. È un libro sublime. Sul sublime. Sul silenzio che si prende la scena quando l’amore assoluto conquista gli esseri destinati alla morte incarnandosi nella pietà. Intendo la pietà nel senso antico della parola. La pietas.

Ci sono due romanzi “minori” come Morte nel pomeriggio e Verdi colline d’Africa che in realtà dicono molto sulla sua scrittura, vuoi parlarne?

Si tratta di due libri ibridi, di fiction e non fiction, come usa dire ora visto che il genere va di moda. Il primo tratta l’argomento tauromachico. Il secondo è dedicato alla caccia. In effetti però, tauromachia e caccia servono a raccontare l’arte di chi combatte la morte e dunque l’arte dello scrittore. Sono entrambi preziosi manuali di scrittura. Il primo esalta la grazia e il secondo la dilatazione del tempo, lo scardinamento delle categorie spaziali. Il primo approfondisce soprattutto l’omissione. Il secondo invece la trasformazione del reale per creare verità letteraria.

Mi piacerebbe una tua riflessione sulla scrittura come “cura” visto che Hemingway la viveva così. Magari anche due parole sulla sua “dedizione” e sulla sua “disciplina” nella scrittura.

Quello dello scrittore è un mestiere monacale. Hemingway lo sapeva bene e lo ripeteva. Altro che le fesserie sullo scrittore ubriacone. Certo che beveva, Hemingway, ma scriveva al mattino, dall’alba al mezzogiorno e ovviamente non scriveva ubriaco. Scrivere richiede pazienza infinita e costanza assoluta. Quando pazienza, costanza e dedizione mancarono a Hemingway, egli non scrisse nulla e non riuscì a far quello che aveva fatto fin dai primi anni: curarsi per mezzo del suo lavoro. Come cura la scrittura? Mettendo in contatto con l’inconscio e quindi spingendo a trasformare la realtà per riplasmarla su un altro livello, quello della verità letteraria. Non è un caso che nel decennio in cui Hemingway non scrisse quasi nulla, fra il 1940 e il 1950, si prese la scena invece l’uomo che inventava storie e che faceva di sé un personaggio. Il bisogno di trasformare la realtà si esprimeva in balle indigeribili per gli amici. Ma fu lì che il mito crebbe a dismisura. Ecco il paradosso che ho cercato di sciogliere.

Matteo Nucci a Cuba

Tra le pagine più intense del tuo libro c’è la riflessione dell’ispirazione come “grazia sotto pressione” vuoi raccontarmi qualcosa in merito?

La grazia di cui parla Hemingway non deve essere scambiata né con il carattere vago e fatiscente dell’eleganza da Galateo, né con la dimensione sfuggente del religioso. Bisogna andare indietro nel tempo e risalire alla charis greca. Lì, la grazia è chiaramente la bellezza che si mostra nel gesto, nel tocco della persona viva. E in effetti è quello di cui facciamo esperienza durante la nostra vita. Perché noi vediamo grazia nel gesto da cui tracima vitalità. Dunque nel gesto che è inestricabile dalla persona presente, un gesto che con la morte scompare. Ecco l’espressione “grazia sotto pressione”. La grazia diventa decisiva nei momenti di difficoltà, momenti dominati invece dall’incipiente pericolo di morte. È allora che la vitalità del gesto diventa sublime. Perché è minacciata dalla morte.

Secondo Hemingway, ma come hai ricordato anche tu, è una regola d’ingaggio che vale fin dai tempi di Omero, lo scrittore deve unire “verità e menzogna”; puoi darmi qualche dettaglio in merito?

La realtà, raccontata così com’è, appare falsa, e nel caso della letteratura fallisce come storia inventata. Facciamo l’esempio dell’intervista. Se io registro e sbobino un’intervista, il lettore troverà duri e irreali i passaggi di chi parla. Se invece li modifico con arte essi appariranno vivi e veri. È una prova evidente di quel che capita quando si scrive. Il narratore, come l’aedo Odisseo, deve mentire pur di dare verità alla realtà, pur di creare verità letteraria. Allora chi legge crede alla storia. Riplasmare il vero è ciò che impara a fare il grande narratore.

Nel nostro immaginario Il vecchio e il mare rischia di passare quasi come un racconto per ragazzi invece è un libro dai mille rimandi, in particolare sono tanti i legami con Omero.

Si tratta di un complesso libro filosofico. Semplice e quindi complesso. Di facile lettura come facile è Omero. Il che può indurre al fraintendimento. Certo, è vero che Hemingway lo scrisse in fretta e con facilità, ma fu come se lo avesse lavorato da sempre: la storia l’aveva in mano da oltre quindici anni e gli strumenti per scolpirla li raffinava da quarant’anni. Stando invece dalla parte di chi legge, è chiaro che nella stratificazione di sensi e di simboli deve immergersi chi vuole vivere la storia. Perché se è vero che Hemingway non aveva lavorato su una scrittura simbolica è altrettanto vero che i simboli poi si generano, come accade sempre con la grande letteratura.

Quale libro consiglieresti a un ragazzo per affacciarsi sull’universo Hemingway?

Dipende dal ragazzo, dalla ragazza, dall’età, la propensione. Altrimenti i consigli sono vani. In ogni modo direi di cominciare con un racconto. I primi dei celebri Quarantanove sono perfetti. “Macomber” per qualcuno, “Kilimangiaro” per qualcun altro, “La capitale del mondo” per altri ancora. E semmai una miniatura. Quei racconti brevissimi che già ti mettono di fronte un mondo. E iniziano a sollevare il velo sull’universo della grazia e dell’amore.

Alessandro Rivali

*L’intervista di Alessandro Rivali a Matteo Nucci, qui pubblicata in anteprima, uscirà sul prossimo numero di “Studi Cattolici”

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