I quattro bambini ritrovati vivi dopo quaranta giorni nella giungla amazzonica, in seguito a un incidente aereo, riporta in auge, nella nostra mente fitta di foreste di specchi, le storie dei ‘bimbi selvaggi’. Le forze speciali dell’esercito colombiano hanno setacciato la foresta per un mese, tra diverse difficoltà; i nativi dicono che la foresta ha protetto i bimbi, concedendo loro una sorta di seconda nascita. Dei quattro fratelli, la più grande è una bimba di tredici anni, il più piccolo ha poco più di dodici mesi di vita. I pastorelli di Fatina tra le divinità amazzoniche.
L’epos dei bambini selvaggi ha il suo zenit tra Sette e Ottocento, mentre splende l’epoca dei lumi e si affaccia l’idea evoluzionista. Per certi versi, i bambini selvaggi sconfiggono i cliché neoborghesi del progresso, il concetto che l’uomo è un animale sociale, che tutto sia, in fondo, cultura. È la natura che si riappropria della sua creatura perduta, dicono alcuni, i bimbi selvaggi sono il resto dell’Eden, adami feriti: il progresso – se poi è tale – recide il cordone ombelicale con le origini – gli alberi non ci parlano più, nessuno più coglie il nettare delle stelle né sa rapportarsi alle fiere. L’osservazione scientifica, per così dire, scema nella leggenda; l’antropologia nel fiabesco. Spesso, questi bimbi selvaggi – abbandonati incidentalmente nel bosco perché diversamente dementi, lasciati in pasto alla foresta, e da essa rivomitati alla ‘civiltà – non riesco ad acclimatarsi alla vita civica. Né degli uomini, non più del bosco, crescono – se diventano adulti, ma accade di rado – frastornati da micidiali malinconie, mai salvi. Lo schema che li distingue, di solito, è il seguente: prima diventano oggetti di culto e di spettacolo, alla tregua di freaks, mostri umani da ostentare come esotici gioielli; poi attraggono l’attenzione degli scienziati, che li setacciano finché utili; infine, è la pietà a intervenire: ignorati da tutti, questi ‘bimbi selvaggi’, ormai barbarici adulti, sono stivati in monasteri, tra pie donne, oppure in case di cura, laidi ospizi.
Tra i più noti ‘bambini selvaggi’ della storia, va ricordato “Peter the Wild Boy”, scoperto nel 1725 nei boschi di Hamelin, in Germania, che incuriosì Giorgio I Hannover e Daniel Defoe, che intorno alla storia del ragazzo scrisse un pamphlet, Mere Nature Delineated (1726): gli pareva, forse, l’opposto di un Robinson Crusoe. Intorno alla vicenda di Victor de l’Aveyron, cresciuto tra i boschi del Massiccio centrale, in Francia, scovato nel 1788, si scatenarono dibattiti scientifici; nel 1970 François Truffaut gli dedicò un film, L’Enfant sauvage. Inappetenti al convivere civile, inadatti agli abiti di corte, inibiti ai sistemi ‘educativi’, Victor e Peter fanno la stessa fine: cestinati in ricoveri per deviati, dimenticati. Si parla, in ogni caso, per i casi passati alle cronache, di bambini che hanno vissuto per anni, da soli, nei boschi.
Uno dei casi più affascinanti di feral children (secondo lo studio di Michael Newton, Savage Girls and Wild Boys, Faber, 2003) è quello di Marie-Angélique-Memmie le Blanc. Ritrovata a Songy, nel dipartimento della Marna, nel 1721, a diciannove anni, ne aveva vissuti dieci vagando tra i boschi francesi. Il caso di Madame Le Blanc, la fille sauvage de Songy, è straordinario: si tratta dell’unica, corposa, testimonianza di una bambina selvaggia, in grado di acclimatarsi con ferina superbia al bosco e di imparare con rapidità la lingua francese. Un primo studio che tenta di ricostruire la storia della ragazza lo compone, nel 1755, Marie-Catherine Hecquet, dama di carità che si prende cura di lei a Parigi. Il libro, Histoire d’une jeune fille sauvage trouvée dans les bois à l’âge de dix ans (riproposto, in edizione critica, nel 2017 da Gallimard), scuote l’epoca. Nel 1768, a Edimburgo, esce una traduzione in inglese del testo, An Account of a Savage Girl, Caught Wild in the Woods of Champagne, sotto gli auspici James Burnett, eccentrico avvocato scozzese, deista, pioniere dell’evoluzionismo (di cui, in calce, traduciamo la prefazione, finora inedita in Italia). Studioso di linguaggi ‘selvaggi’ – degli indiani d’America, dei nativi sudamericani, delle popolazioni di Tahiti – Burnett credeva che il linguaggio avesse un’unica, ancestrale, origine, differenziandosi per ‘adattamento’ culturale e geografico. Riteneva il greco classico la lingua perfetta. Ad ogni modo, l’avvocato Burnett, che già si era occupato della storia di “Peter the Wild Boy”, va in Francia a conoscere Mademoiselle Le Blanc, ne è impressionato, “è tra le persone di maggiore intelligenza che abbia mai incontrato”, afferma. È lui che rintraccia le autentiche origini della ragazza: non eschimese – come credevano i primi studiosi francesi –, ma indiana, una nativa, cresciuta, probabilmente, tra gli Uroni (in realtà: i Mesquakies), al confine tra Stati Uniti e Canada. In seguito a una battaglia contro i francesi, la bimba viene venduta come schiava a una madama; la troviamo alle Antille, infine, rivenduta, imbarcata verso l’Europa, fa naufragio sulle coste francesi.
In realtà, secondo quanto scoperto di recente, grazie agli studi di Serge Aroles (Marie-Angélique: Survie et résurrection d’une enfant perdue dix années en forêt, 2004) e alla scoperta di documenti negli archivi vaticani, sembra che Marie-Angélique sia stata acquistata dai nativi nel 1718, da Madame de-Courtemanche, che alleva la bambina insieme alle due figlie, nel Labrador francese. In seguito a scontri con gli Inuit, la famiglia sceglie di fare ritorno in Francia. La nave approda a Marsiglia nel 1720, la peste impedisce all’equipaggio di sbarcare. A Marsiglia, Marie-Angélique incontra una giovane schiava palestinese, con cui sceglie di darsi alla macchia, in una Provenza spopolata e devastata dalla peste. Madame de-Courtemache fa ritorno nel Labrador, tre anni dopo, senza di lei. Marie-Angélique, pur sempre schiava – anche sotto il ricatto degli affetti di Madame – sceglie di percorrere il bosco, icona della propria infanzia, ritiene più sicura la vita nel bosco che quella tra gli uomini.
La bambina, ormai ragazza, viene scoperta, sola, l’8 settembre del 1731, nei pressi del cimitero di Songy: beveva a quattro zampe da un rigagnolo, tenendo stretta la preda, un uccello di piccola taglia, nella destra. Andava fiera del suo bastone, adornato di chiodi, eredità forse, del suo passato indiano. Non sapeva parlare; disse, però, di chiamarsi “Marie-Angélique des Olives”. Le suore che le diedero rifugio a Châlons, ricordano la sua destrezza nel camminare sui tetti e arrampicarsi sugli alberi; la ragazza, con orrore di chi la nutriva, sapeva uccidere, preferendo la carne cruda a quella cucinata.
Novizia presso l’abbazia di Sainte-Périne de Chaillot, Marie – forse tentando l’estrema fuga – cade da una finestra. È il 1751: la ragazza ha imparato la lingua e le ‘maniere’ del mondo, ma qualcosa, ancora, la divora. Data per morta, curata alla meglio, senza tutela di alcuno, la ragazza, nel 1752, è cacciata dall’ospedale e vive da mendicante, per le vie di Parigi. I giornali cominciano a scrivere di lei, la ‘bambina selvaggia’ selvaggiamente dimenticata da tutti; la sua storia commuove Maria Leszczyńska, Regina consorte di Francia, che obbligò il re a invitare la ragazza a Versailles, a darle una casa e una pensione annua. Da lì, per così dire, comincia la vita ‘pubblica’ di Marie-Angélique: i tratti fieri, indigeni, colpivano chi era ammesso al suo cospetto; di ferino, la donna, non conservava più nulla. Nel bosco, forse, sarebbe rimasta per sempre giovane; è l’unico caso di ‘bambino selvaggio’, come dicevano all’epoca, “che da uno stato di regressione comportamentale è completamente risorto intellettualmente”. Cosa significhino le parole regressione e resurrezione, dov’è posto il metro che distingue comportamento da intelletto, è materia su cui riflettere, nelle proprie stanze private, a picco sul bosco, magari.
Morì a Parigi, dieci giorni prima del Natale del 1775, Marie-Angélique. Ai piedi del suo appartamento, tra rue du Temple e rue Notre-Dame-de-Nazareth, si fece una piccola folla. La bambina sopravvissuta per dieci anni nelle foreste francesi, era diventata oggetto di chiacchiera e di ammirazione. Al rosario, preferiva il bastone di caccia, che accarezzava, di tanto in tanto. Non tornò mai più nella terra dei suoi avi. Alcuni, dissero che era stata avvelenata; ne sortì un’inchiesta della polizia. Pare che la donna abbia prestato dei soldi, ne abbia chiesti in prestito.
Morire per una sporca vicenda di soldi è troppo ‘civile’ per Marie-Angélique, la bambina a cui si inginocchiava la foresta, che riuscì a vivere tra le fiere. Meglio immaginarla come una sorta di Principessa Mononoke francese, di Pocahontas a cavallo dei lupi.
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An Account of a Savage Girl, Caught Wild in the Woods of Champagne (1768)
Prefazione di James Burnett, Lord Monboddo
Diverse persone, soprattutto la badessa del convento di Châlons, dove la ragazza ha vissuto per un periodo, accennarono a numerosi piccoli aneddoti di Le Blanc: la sorprendente agilità con cui si arrampicava sui muri o correva sui tetti delle case, le sue imitazioni del canto degli uccelli.
Mademoiselle Le Blanc si ricordava che il Paese da dove veniva era un Paese molto freddo, coperto di neve per la maggior parte dell’anno, che là i bambini sono abituati all’acqua da quando nascono e imparano a nuotare nello stesso momento in cui apprendono a camminare. Le viene insegnato molto presto ad arrampicarsi sugli alberi; le persone abitano in piccole capanne sull’acqua come i castori e vivono principalmente di pesca. Lei stessa era così abituata all’acqua, che quando arrivò in Francia non poteva vivere senza. Vi si immergeva a capofitto e continuava a nuotare e a tuffarsi come una lontra e quando le impedirono di proseguire con questa abitudine, dopo essere diventata un po’ più mansueta e civilizzata, pensò che la sua salute soffrisse a causa della sua mancanza.
Suppone di essere stata una bambina di sette o otto anni quando venne portata via dal suo Paese; eppure aveva già imparato a nuotare, pescare, tirare con arco e frecce, arrampicarsi e saltare da un albero all’altro come uno scoiattolo. Venne rapita in mezzo al mare, caricata a bordo di una grande nave e portata in un paese caldo dove fu venduta come schiava; la persona che l’aveva venduta l’aveva innanzi tutto dipinta di nero, indubbiamente allo scopo di spacciarla per una negra.
Nel paese caldo in cui venne portata, racconta di essere stata reimbarcata e di aver fatto un lungo viaggio: il padrone a cui l’avevano venduta voleva farla lavorare in una specie di attività tessile che la obbligava a piegarsi e a guardare in alto; quando non lavorava il padrone la picchiava, ma la padrona, che pare parlasse francese, era molto gentile con lei e la nascondeva quando il padrone la cercava per farla lavorare. Siccome la nave naufragò, l’equipaggio si diresse alla scialuppa, ma lei e una ragazza negra che si trovava a bordo furono lasciate a sé stesse. La ragazza nera – racconta – non sapeva nuotare bene come lei e Mademoiselle le Blanc dovette aiutarla; la ragazza nera si tenne a galla afferrando il piede della signorina Le Blanc e in questo modo arrivarono entrambe a riva.
Attraversarono una vasta distesa del Paese, camminando di notte e dormendo di giorno sulle cime degli alberi; sopravvivendo grazie alle radici che Mademoiselle Le Blanc estraeva dal terreno con le dita, soprattutto con il pollice, molto più largo e grande dei pollici delle altre persone. Inoltre, catturavano quanta più selvaggina potevano, che mangiavano cruda, come fa un falco o una bestia selvaggia; in particolare ricorda di quando uccisero una volpe, di cui però succhiarono solo il sangue trovando la carne disgustosa. Si ricorda anche della volta che catturarono una cerva. Aveva imparato a riconoscere diverse erbe e radici che facevano bene allo stomaco e guarivano le ferite. Aveva appreso a imitare il canto degli uccelli, l’unica musica conosciuta nel suo Paese.
Il cambiamento di vita che subì dopo essere stata catturata e addomesticata non le piaceva. Come descritto sopra, oltre a soffrire per l’impossibilità di stare a contatto con l’acqua, non digeriva le vivande preparate con il fuoco e si ridusse in uno stato di salute tanto grave che un medico, chiamato a visitarla, le iniettò sangue francese nelle vene. Vuoi per le conseguenze dei cambiamenti avvenuti nella sua vita, delle prescrizioni del dottore o per entrambi i motivi, ora è estremamente cagionevole di salute, o almeno è stato così fino al 1765. Ha perso tutte le sue straordinarie facoltà corporee e non conserva niente di selvaggio se non un certo che di selvatico negli occhi.
Ha dimenticato quasi completamente la lingua del suo Paese, ne ricorda soltanto il tono, la parlata e alcune grida selvagge con cui spaventava i francesi subito dopo essere stata catturata. Era grazie a queste grida, e ai gesti, che comunicava con la sua compagna negra, che non parlava né capiva la sua lingua. Ricorda alcune forme idiomatiche nella sua lingua; per esempio, invece di «ferire un uomo» si dice che lo si «faceva rosso» e invece di «ucciderlo» la frase che usava era «farlo dormire a lungo». Ricorda anche numerosi dettagli relativi alle cerimonie funebri del suo paese e in particolare che il defunto veniva messo in una specie di cassa simile a una poltrona e le persone e i suoi affetti più stretti tenevano un discorso, di cui Le Blanc ha tradotto in francese la sostanza. La cerimonia si concludeva con un urlo orribile che quando venne catturata usava in ogni occasione per esprimere angoscia o sorpresa, tra il terrore e lo stupore di coloro che la udivano.
Quando fu fatta prigioniera a Songy aveva con sé il randello, che portava in un taschino sul fianco, lo chiamava “boutou” e ha raccontato che aveva dei caratteri incisi sul manico. Oltre a questo oggetto, aveva un bastone più lungo con alle estremità tre pezzi di ferro: quello mediano era affilato e appuntito e gli altri due erano a forma di uncino; il ferro appuntito lo usava per sgozzare le bestie selvagge che la attaccavano, mentre grazie agli uncini si aiutava ad arrampicarsi sugli alberi facendo presa lungo i rami. Ha detto che il bastone le era particolarmente utile per difendersi dagli orsi che tentavano di seguirla fin sugli alberi.
Quest’arma – racconta – l’aveva portata con sé dal Paese caldo, l’altra, invece, dal suo paese nativo.
Dai particolari che appresi dalle sue parole penso di riuscire a dedurre con una certa sicurezza il suo Paese d’origine. L’autrice del presente resoconto afferma che si tratta di un’eschimese. Ma il suo aspetto è sufficiente a confutare questa tesi, perché è di carnagione chiara, ha la pelle liscia e lineamenti morbidi come quelli di un europeo. Ritengo probabile che abbia vissuto in Quebec.
Stando ai racconti da lei forniti sulla lingua del suo Paese, penso però anche che ci siano ottime ragioni per credere che abbia origini urone, o per lo meno di una nazione in cui si parlava la lingua urone, che sappiamo essere molto diffusa nell’intero continente nordamericano.
Per quanto riguarda il Paese in cui fu inizialmente portata, posso dedurlo con ancora maggior sicurezza dal nome che dava al suo randello, viz, Boutou e dai caratteri che raccontava esservi incisi. C’è infatti un racconto pubblicato da un tale Sieur la Beaud delle isole caribiche in cui narra che i caribi usano un’arma di questo tipo che chiamano boutou e in particolare osserva che essa presenta delle incisioni a mo’ di ornamento che i caribi riempiono di vernice. Mi sembra dunque certo che il Paese in cui la signorina Le Blanc fu inizialmente portata fosse una delle isole caribiche o antillane e che nonostante abbia portato con sé il randello dal suo paese nativo, ne ha sicuramente imparato il nome dai caribi. L’altra arma sopra descritta la chiamava Tribié, che penso sia molto probabilmente una parola della lingua caribica. Ed essendo arrivata dopo in quel Paese ed essendoci rimasta, come immagino, per un tempo considerevole, è logico supporre che si ricordi più parole in quella lingua che non nella sua.
In sintesi, sembra che la storia della signorina Le Blanc sia questa: è originaria di un popolo bianco che vive da qualche parte sulla costa della baia di Hudson. Quand’era bambina fu portata via con l’intenzione di fare di lei una schiava e spacciarla per una negra da una nave francese che commerciava in quella baia; fu per questo che venne dipinta tutta di nero. Dapprima venne portata su un’isola caraibica appartenente ai francesi da cui poi fu trasportata in Europa su una nave che probabilmente naufragò da qualche parte sulla costa francese.
Il lettore comune troverà questo racconto coinvolgente come leggere Robinson Crusoe, ma per il filosofo questo resoconto sarà un ambito di curiosa speculazione e da esso trarrà conseguenze non così ovvie. Osserverà con stupore il progresso della nostra specie da un animale così selvaggio all’essere umano come lo conosciamo oggi. Da questo esempio vedrà chiaramente che l’essere umano, nonostante abbia per sua natura un’inclinazione alla società, non è un essere sociale per contingenza naturale e non è obbligato a vivere di un capitale comune come le formiche o le api, ma come ogni altro animale possiede la capacità di provvedere alla propria sussistenza grazie ai propri poteri naturali e forse questa capacità è superiore rispetto ad altre specie perché l’umanità dispone di una maggior varietà di mezzi di sopravvivenza. Ripercorrendo il lungo cammino del progresso dell’umanità il filosofo scoprirà un altro stadio di natura oltre a quello in cui si trovava la ragazza, per quanto vicino possa essere a quello originario; con ciò intendo quello antecedente all’invenzione del linguaggio, vale a dire alla comunicazione delle idee attraverso l’articolazione della voce; quando l’essere umano, come lo descrive il poeta, era letteralmente «mutum et turpe pecus». Risulta dunque impossibile credere che il linguaggio, la più bella arte umana, sia nato con noi e sia stato praticato per puro istinto, a meno che non si possa supporre che altre arti siano venute al mondo con noi allo stesso modo; né si può pensare che il linguaggio sia stato inventato in precedenza da altre arti meno difficili e più ovvie.
Il filosofo scoprirà anche che la natura non si sottometterà a essere confinata alle nostre definizioni o opinioni. Se abbiamo una caratteristica che distingue la nostra natura, la più certa è che l’essere umano è stato capace più di ogni altro animale finora conosciuto, di migliorare le proprie facoltà mentali. È proprio grazie a questa capacità che l’antica scuola peripatetica definì la nostra natura, quando disse che l’essere umano era animale capace di comprensione e scienza.
Per concludere dico solo questo: ripercorrere il progresso della nostra specie attraverso tutte le sue varie fasi, per comprendere con quale ritmo e con quali gradi inconsapevoli siamo passati dall’animale al selvaggio e dal selvaggio all’umanità civilizzata, per capire se con il miglioramento delle nostre facoltà abbiamo risolto la nostra condizione e siamo diventati più felici oltre che più saggi, è l’opera magna della filosofia umana su cui sono un filosofo dei nostri tempi ha avuto un’idea che però finora nessuno ha messo in pratica.
James Burnett
*La traduzione del testo è di Francesca Pivotto