19 Luglio 2023

Ormai compro solo libri usati. (Con un dialogo tra Giovanni Testori e Ottiero Ottieri)

Eccomi in un nuovo giorno! “Guardalo com’è più felice”, sento dire dall’altra parte del muro, nell’appartamento che confina col mio e da cui mi arrivano le parole rivolte a un bambino nato da pochi mesi.

“Chi
Sei tu
Che nasci
Nella stanza accanto
Alla mia con tanto clamore
Che io posso udire l’aprirsi
Del ventre e il buio trascorrere
Sopra lo spirito e il tonfo del figlio
Dentro il muro sottile come un osso di scricciolo?”.

Sono versi di Dylan Thomas, tratti dal primo libro che comprai da ragazzo e che conservo in primo piano su uno scaffale. “Le dà fastidio il suo pianto?”, mi chiedono i giovani coniugi, incontrati col neonato sul pianerottolo, davanti all’ascensore. “No – dico io –, nessun fastidio, anzi, mi fa piacere, mi tiene compagnia”. “Io lo volevo”, dice la donna stringendosi il bambino al petto.

Ormai compro solo libri usati. Libri introvabili. “Cos’è un figlio” di Arrigo Benedetti, pubblicato da Mondadori nel ’77. Un romanzo scintillante di luce, luce dappertutto, nonostante il pensiero della morte che incombe. Lo scrittore, grande giornalista degli anni Sessanta e Settanta, non smette, con la sua prosa e il suo animo ferito ma aperto, di cercare l’enigma della fine: la morte che piomba inaspettata sul suo primogenito, avvenuta in situazioni drammatiche imprevedibili. Dolore illuminato a giorno, per capire, interrogarsi, e interrogare la realtà. Scrivere serve a questo, non a raccontare storie per intrattenere, ma a cercare la verità, a viverla, fatto che può accadere solo se lo scrittore è animato da un assoluto spirito di ricerca, che insegue dappertutto, nella memoria e, insieme, nella vita attiva, in modo che esse diventino sua ragione, suo metodo, sua urgenza.

Ancora un altro titolo: “Se un Dio pietoso” di Giovanni D’Alessandro, uscito per Donzelli nel ’96. Il tema è lo stesso del libro precedente, sebbene trasposto nel passato antico. Anche qui sopraggiunge una perdita filiale prematura. Ma ecco l’incredibile, nel momento in cui viene commissionato al padre scultore una statua del Cristo morto, in raffigurazione della Pietà, l’artista quasi involontariamente realizza il volto del figlio perso. Straordinaria è la sorpresa giacché l’artista non si rende conto di ciò che sta facendo, bensì scopre la somiglianza del suo ragazzo in Cristo, come guidato da una potenza che lo afferra e lo dirige. Il romanzo è pieno di passi memorabili:

“Se esisti, se sei pietoso perché non ridai figli a chi li ha persi?”.

(pag.207)

“Lo so che sei morto. Lo dici subito, è col silenzio che esordisci. Capendo però che io non capirei, cerchi un oggetto – la tua immagine, questa statua – e le dai una voce udibile che penetri in me. È follia? Forse. Ma è coerente. Per continuare a seguirla che devo fare? Ipotizzare, supporre che esista una vita oltre la vita, dove si trova una fonte inviatrice di messaggi, che li dirama senza posa, per non rimanere inascoltata, e che si preoccupa di forare la nostra sordità, oltre al mutismo intorno a noi. Non vuole che ci chiudiamo in noi stessi. È una fonte inesauribile nel dare e instancabile nello sforzo di offrire; trascurata, non percepita dai più, ma vicina a chi la cerca, o almeno si pone in un atteggiamento di ascolto. Perché ci rivolge messaggi attraverso voci amate? Perché vuol raggiungerci?”.

(pagg. 216-217)

Sono romanzi in cui tutto ha senso, non c’è una sola parola, una sola sillaba che non dica l’abisso che c’è in noi, che non rimandi al significato vero del vivere. La realtà tutta è significativa, si presenta in quanto segno di qualcosa che interroga e ci interroga, che chiede risposte, chiede di essere vissuta nella pietà e nel mistero. Persino nell’evento più terribile della nostra vita: la morte di una persona cara. Con lei se ne va un pezzo di noi, e vorremmo seguirla. La scrittura diventa lo strumento per capire, per avvicinare lo strazio incandescente della notizia terribile. Perché in quello strazio c’è una scintilla, il dolore che riverbera nel momento assoluto della prova, e riempie il nostro cuore, la nostra anima, fino alla radice. C’è qualcosa, comunque, che continua a vivere, che si apre a una vastità immensa, nello stesso istante in cui è perso tutto ecco che si va conquistando una potenza nuova dell’essere. Doveva accadere questo?, pensiamo. E l’evento lo vediamo riprodursi dovunque, dalla cima di quella vetta verso il cielo, dove termina la terra, e inizia l’azzurro alla donna amata che ti guarda con quello stesso colore degli occhi.

Così come si vede in una strada che svolta, struggentemente finita dal momento che non mi apparirà più, per dirmi che strumento sono io, che cosa significo io in questa parte del mondo, in questo dire del mondo che è come prendere la mira al buio e centrare il bersaglio, in quanto colpire esso significa arrivare ad amare, a cogliere il possibile solo in proiezione che nulla ci appartiene, che siamo spezzati dentro, contro questa terra che finisce e dove si apre il cielo. Nonostante tutto si apre per noi, persino attraverso la casa dove abitiamo. Casa come corpo nostro più grande.

Corrispettivo visivo del contrasto luce-buio, a mio parere, è il magnifico quadro di van Gogh “Seminatore al tramonto”. La figura nera, curvata e protesa che spicca sulla pianura, è una sagoma buia sul grande giallo del sole, straripante di giallo anche nell’etere.

Che cosa terribile è vivere, che cosa profonda! Col perdono la vita è tollerabile, se no è il veleno, la vita si trasforma in veleno. Occorre uno spirito forte di carità, di partecipazione sentita, innestata nel corpo vivo della ragione, per lo scopo e il destino nostri, per il futuro che ha bisogno di essere vissuto. Ad esempio, a proposito di svolte, bisognerebbe scrivere una nuova storia della letteratura. Perché no, non siamo fatti per rinnovare, per vivere il nuovo impeto che ci ha fatto nascere, per dire il nuovo amore che ci ha fatto vivere e che portiamo impresso in noi? Una storia che non metta in Serie B libri come “Horcynus Orca”, o “Il quinto evangelio”, o “Il giorno del giudizio”, o “Libera nos a Malo”, o “Hilarotragoedia”, o “Il dio di Roserio”, o “Donnarumma all’assalto”, o “Corporale”, o “Ritratto in piedi”, o “Artemisia”, o “Fratelli”, o “Diario di un giudice”, insieme alla poesia e alla critica, la grande saggistica dimenticata. Insomma una storia dei libri, non degli autori. E tramite i libri capire meglio gli uomini. In questo modo, seguendo questo criterio, avremmo un nuovo quadro storico davanti, non più fatto di grandi e piccoli, ma dei più grandi libri che siano stati scritti, in modo da restituire onore alla verità, e cioè che i libri sopra citati valgono quanto i cosiddetti maggiori, che in genere ci fanno studiare: “Gli indifferenti”, “Le città invisibili”, “Ragazzi di vita”, “Il giardino dei Finzi Contini”, “La luna e i falò”, “Il giorno della civetta”, per fare degli esempi.

“Il cadavere di Nino Sciarra non è ancora stato trovato” (Wojtec Edizioni, 2019), di Davide Morganti, racconta la storia apparentemente noir, di un uomo che ha il compito di recuperare un morto nella sua casa, ma l’appartamento dove viveva il defunto è talmente pieno di roba accatastata che la salma non si trova. Assurdo! Emergono però decine e decine di volumi, che rappresentano tutti gli irregolari, tutti gli esclusi e i dimenticati della narrativa italiana, eppure straordinari (il proprietario doveva essere proprio un bel tipo di lettore!). Ecco l’elenco: Guido Cavani, Arturo Loria, Maria Messina, Luigi Compagnone, Stefano Terra, Amalia Guglielminetti, Gennaro Manna, Umberto Attardi, Antonio Melluschi, Alba de Cespedes, Lucio Mastronardi, Marino Moretti, Ada Negri, Mario La Cava, Michele Prisco, Maria Orsini Natale, Annie Vivanti, Renzo Biasion, Dolores Prato, Manlio Cancogni, Giuseppe Lo Presti, Guglielmo Petroni, Antonio Aniante, Dante Arfelli, Dante Troisi, Giuseppe Bonaviri, Raffaello Brignetti, Fausta Cialente, Luce D’Eramo, Giuseppe Dessì, Umberto Fracchia, Gian Carlo Fusco, Enrico Panunzio, Enrico Pea, Carmelo Samonà, Saverio Strati, Lorenzo Viani… E altri ancora a cui io aggiungo Vincenzo Pardini, Giulio Del Tredici, Rodolfo Wilcock, Roberto Vigevani, Giuseppe Grieco, Bonaventura Tecchi, Bino Sanminiatelli, Luca Canali, Giorgio Saviane, Antonio Pizzuto, Luigi Incoronato, Sergio Antonielli, Giuseppe Mazzaglia, Renzo Rosso, Angelo Fiore, Sebastiano Addamo, Libero Bigiaretti, Nicola Pugliese, Renato Ghiotto, Pier Antonio Quarantotti Gambini, Stelio Mattioni, Giovanni Pascutto, Marosia Castaldi, Rodolfo Doni, Alessandro Spina.

Tornando al libro di Morganti, leggo sul risvolto di copertina che si tratta di un’opera enigmatica, ma io suggerirei anche esemplare e unica nel suo genere. La salma (lo ripeto), doveva essere davvero un tipo di lettore particolare, straordinario per raffinatezza e tipo di scelte. Un modello per noi amanti della lettura. “Il cadavere di Nino Sciarra non è ancora stato trovato, perché la letteratura non è morta!”, penso io. E non veniteci a dire che si vuol affermare il demerito. Basta con l’idea che l’editoria è un’industria, vendete quanti libri vi pare, ma non veniteci a raccontare che sono dei capolavori solo perché hanno venduto. Non facciamo parte degli acchiappacitrulli! Non ci avrete, almeno non completamente. “Tutto si tinge di dominio, di commerciale imposizione”, scrive Maria Zambrano.

In una libreria dell’usato trovo un libro di Alberto Vigevani. Lo scrittore ci inchioda gli occhi alle pagine, la sua precisione di scrittura è millimetrica. Si vorrebbe sottolineare ogni descrizione, ogni passo, ogni ragionamento, per la musica che suscita la sua prosa limpida, cadenzata dalla poesia, impreziosita di termini originali, che spandono nella coscienza del lettore una geometria quotidiana del vivere, affinché far emergere le cose dove sono, ma direi più di quello che sono, per la dignità che presentano, caricate di sottili metafore, stile letterario alto. Troviamo personaggi veri nei loro incarnati dolenti, nelle loro angustie, delusioni, ma tutto prossimo alla vita, al suo bisogno di essere. Perciò spirituale, poetico, realistico in un modo sognante, di realtà detta appena si spezza, si rompe in quel suo equilibrio precario che la caratterizza, e precipita, va giù per una via milanese, incontra uno sguardo che spinge a dire, sfida il vento che corre e rapina tutto, ma invita a chiedersi da dove viene, dove va, dove ci conduce, dove spirano le cose, le cose dell’esistenza, che ancora chiedono di essere rivelate, di essere raccontate nel loro mistero, capace di farci vedere più in fondo. A pagina 102 de “L’invenzione” (riedito recentemente da Sellerio), al momento di approssimarsi a una casa della Riviera, circondata da una piazzetta con panchine e palme, lo scrittore dice: “La vedo con tanta nitidezza che potrei disegnarla”. Un romanzo davvero bello, come se, nello scriverlo, la percezione del lettore fosse toccata e ne formasse un altro di romanzo, volatile, di natura aerea, che da qualche parte, sopra, sotto il libro, al di sotto e al di sopra delle pagine stampate, della punteggiatura (persino di quella!) e svettante oltre, nell’aria, nell’infinito delle cose a cui si aspira, e che sono lì, trasposte, trascese; ebbene è come se si volesse indicare, suggerire, la grazia della lingua italiana, in quanto precisione impeccabile e stile, insieme al suo compimento di umanità discreta, sofferente, problematica.

Sellerio sta ripubblicando alcune delle opere di questo scrittore. Stavolta si ribalta la scena, qui è il figlio che ricorda. Marco Vigevani, noto agente letterario, cura la riedizione delle opere di Alberto Vigevani. E così si chiude un cerchio! Ma se ne apre un altro, riguardante un contesto più profondo, di ricchezza infinita. “Ho rispetto dei libri come di carne umana”, scrive Gianfranco Contini all’amico Cesare Angelini, e sempre allo stesso amico ricorda che “la carità e la critica letteraria non sono due cose diverse”. Conviene tenere conto di queste frasi, se non altro per arginare l’aridità che ci accerchia.

Chiedo alla libraia del grande Ottiero Ottieri. “Ottieri va a ruba – mi risponde lei, che gestisce una libreria dell’usato, nel centro di Milano –. Quattro suoi libri sono andati via in un giorno”. Ottiero Ottieri: il testimone. Possiamo definirlo così, o il testimone impassibile, sebbene inquieto. Questo Oblomov in carne e ossa della letteratura, si specchia in un altro Oblomov, più prossimo a lui, che desidera vivere. L’uomo che non ama uscire, che si lamenta ma scrive. Perché, se è segnato dallo sconforto? Da dove ha origine la sua fertilità, se non ha forze, se è deluso da tutto? Egli è stato scrittore prolifico, ha raccontato il boom economico, il lavoro di fabbrica, come pure la mondanità dei salotti fra Roma e Milano, e in seguito ha vissuto i giorni tristi della dipendenza, delle cure psichiatriche. Aveva un dono, che era la vocazione a scrivere. Da dove viene la scrittura se non da un dono? Giacché è una scrittura articolata, la sua, a tratti visionaria, in comunanza con Volponi, autore a cui viene sempre accostato. C’è una dimensione mentale in Ottieri, e perciò morale, ma anche fisica, riguardante fatti reali, che accadono, quotidiani, che provocano reazioni negli uomini. È un’umanità raccontata con attenzione, a margine delle nostre esistenze, dolorosa, ma proprio per questo partecipe, piena di interrogazioni sui nostri giorni. Che sono sempre giorni delusi.

Cosa voleva dirci Ottieri col suo pessimismo? Che la vita non vale la pena di essere vissuta? Non mi pare. Ottieri è in balia della scrittura, sempre al limite, che è come un flusso di coscienza che vuole essere versato sulla carta, liberato dalle strettoie della mente. Coscienza, la sua, aspramente conflittuale, che infligge dolore. L’editore Utopia adesso ripubblica un suo romanzo intitolato “Contessa”, e Interno Poesia ristampa “Il pensiero perverso”. In quanto Ottieri è anche stato un poeta, oltre a un grande narratore. La scrittura spegneva la sua febbre. Il mistero Ottieri è qui. Nell’assenza che si fa presente, e assume una forma, sebbene letteraria, comunque una centralità che rendeva vivo l’uomo a sé e agli altri. Scrivere incarnava tutta la sua vita. Ottieri rinasceva ogni giorno da lì. Lì ritrovava la sua ragione, ritornava a essere unità umana, sensibile, profonda nel descrivere il male che veniva oggettivandosi a lui e che combatteva scrivendo. Poteva dominare la scrittura attraverso le vicende, i personaggi che le attraversavano, i colpi di scena, gli amori, le disillusioni, le telefonate che non arrivano e da cui si dipende. L’insorgere della malattia che ci dilania, ci rende spettri di noi stessi.

“E Testori?”, chiedo sempre alla stessa libraia. Non faccio in tempo a dirlo che si genera in me una fantasia del tutto imprevista. Vedo Ottieri e Testori che s’incontrano, superando ogni barriera che li divideva da vivi; ormai liberati, prosciugati dall’aldilà dove risiedono. Cosa si dicono? Mi sembra di sentirli dire che la letteratura li ha segnati, che è stata implacabile con loro, e poi che hanno sempre sofferto e gioito per questo. Eppure, i libri che ci hanno lasciato sono una ricchezza per noi. Ma i loro autori hanno impiegato una vita per capirlo, ed è imprevedibile e grande il mistero!

(T sta per Testori, O sta per Ottieri).

T. Finalmente ci incontriamo, sono felice, un anarchico come me, e per giunta non competitivo. Amico mio, sono curioso: che cosa ti ha spinto a scrivere?

O. Il desiderio di essere amato.

T. Sai che per me è stata la stessa cosa?

O. Mi viene da piangere… Sono belle le lacrime, adesso le trovo belle!

T. In un certo senso realizzano un paradosso. Se non piangi, piangi ugualmente, il pianto è dentro e fuori, descrive una totalità. Non si dice: mi piange il cuore?

O. Tutto ciò che era vergogna e assillo della vergogna, mi torna in mente ma non sento l’ostinazione di allora.

T. Anche per me è così, però mi sono ricreduto. Ri-credere, che bella parola, non trovi?, credere due volte… è uno sconfinamento del credere, che conduce a una sequela: la prima volta per dire ciò che ci preme, e la seconda per ribadire.

O. Pensa se ci sentono laggiù, in quella che chiamano vita.

T. E chi se ne frega… Posso dirlo?

O. Puoi.

T. Non era quello che volevamo: essere liberi?

O. Certo, ma io parlavo di…

T. Qui è bello! Viviamo nel domani che non ci delude.

O. Ora nemmeno mi ricordo, ma ti giuro: che cosa ho sofferto! Almeno ho dimenticato certi giorni d’ansia, ed è un peso che si è liberato da me, non ce l’ho più.

T. Che cosa siamo!

O. Mi faceva paura di pronunciare persino certi nomi, certi luoghi, che sentivo ostili. Il fatto di dover raggiungere alcuni di quei luoghi mi deprimeva.

T. A chi lo dici!

O. L’incertezza mi ha sempre abitato.

T. Dicevano che l’inferno era più interessante!

O. Poveretti.

T. Qui è tutta luce. Posso vedere fino in fondo alla mia vita, fino all’origine della mia nascita.

O. Anch’io, e mi fa un effetto particolare vedermi nascere, e il grido che avevo in corpo, e com’ero piccolo, come mi tenevano in braccio, quanto mi amavano!… E poi vedo che studio ancora, e che mi lascio educare dai libri, dall’ascolto, dal sapere, dagli sguardi dei miei educatori. Ho un’impressione strana di questo, di vedermi così impegnato e motivato. Dopo forse non mi è successo più. È un dono potermi scoprire in quei momenti; noi dimentichiamo…

T. È il perdono che produce questo effetto, secondo me, è perché riusciamo ad essere perdonati, quindi tutto ritorna nella sua natura di bene, che è una sorpresa della conoscenza.

O. Eppure io non ti vedo, credo sia per la luce che è talmente forte… Però ti sento. Sembra un controsenso.

T. Intanto laggiù stanno ancora a parlare di elaborazione del lutto, di assassini che sembravano normali. Psicologia, l’uomo spiegato con la psicologia… Ne sai qualcosa?

O. Eccome!

T. Vorrei sapere come la mettono con questa pietà che provo, tanto da sentirmi tutto intero… C’è ancora spazio per altro?

O. Il dolore, direi, perché il dolore c’è ancora, non è scomparso, ma in un modo nuovo, non so…

T. Dolore che non annulla, bensì permette di comprendere.

O. Non è dolore definitivo insomma, perturbante, ma è motivo di approfondimento.

T. Si continua a conoscere, mi sembra, o meglio, ne sono sicuro.

O. Mi colpisce questo tipo di sofferenza, in quanto la sento esterna a me, mi viene da fuori, eppure mi attraversa, non mi lascia solo, per cui devo sempre capire da dove arriva, o chi soffre, o qual è il motivo. Lo facevo anche prima, ma adesso… Così non sono negato, il dolore mi appartiene, e al contempo mi apre, mi permette di arrivare fin lì dove si manifesta…

T. Diciamo che rivaluta l’esperienza.

O. Prima era solo assillo, buio, grido che non si spiega, grido che si strozza in gola. Tutto incomprensibile, assurdo. Ti vedevi soffrire e pativi ancora di più, senza strumenti per proseguire a vivere.

T. Perché lì sì e qui no?, ti chiedevi, o si chiede uno qualunque, qualunque uomo, intendo dire. Perché qui sì e lì no?

O. Certo, come a chiedersi in che punto si forma il dolore.

T. Se sei dappertutto perché lì manchi?

O. Che è una domanda che si riferisce anche a Dio.

T. Voglio dire: nella fame… nell’impazzare della guerra… nella violenza del terremoto… nel salto a precipizio del suicida… nel fallimento finanziario disastroso… nella mancanza di speranza… nell’amore non corrisposto…

O. Noi siamo dominati!… Ci hai mai fatto caso, amico mio, quando ti succedeva di abbracciare una persona e poi più niente…

T. Però restava la stretta di quell’abbraccio, dico io, eternamente impressa in noi…

O. Già, una specie di impronta, io l’avvertivo, anche scrivere è un po’ questo, no?

T. Giusto, un’impronta che noi riceviamo e lasciamo, e siamo noi, è il nostro piede quello, la nostra mano, il nostro cuore, dentro c’è il nostro cuore… Il battito che faceva quando si aveva paura, e quando lo sentivi dilatato nello spettacolo dell’infinito, o di fronte a quegli occhi che ti fissavano, che volevano dire finalmente, o sembravano che volessero dire: io sono quello che tu speri, io ti ho aspettato fino a questo momento, non ti allarmare più, io non ti dimentico.

O. Una stretta che si trasmetteva fin dentro il nostro animo, che ti costringeva a scriverne, tanto era grande il suo mistero, fermandosi in forma di scrittura, di romanzo, poesia, confessione, memoria.

T. Credo sia stata un’opportunità per approfondire il senso della vita. Ma poi avviene uno spreco, ecco tutto, una specie di spreco interiore.

O. Esatto, sebbene resti la funzione, la scrittura si fissa, quando si può dire, in quell’esatto momento del dire, e può essere rivissuta nei tempi successivi, dopo averla assorbita nel nostro animo.

T. Il guaio, o il bene, è paradossale che le due cose stiano insieme, è che non si assorbe mai, rimane sempre fresca, pittura fresca, o fuoco incandescente, che brucia davvero, e quindi rivive sempre nel cuore di nuovo straziato, di nuovo offeso…

O. Quando succede?

T. Quando quella vecchia nostalgia si ripresenta…

O. Ma non sarà ancora la solitudine che vuole questo?, che lo rivuole quell’abbraccio?

T. Diciamo che è nell’espandersi delle cose, ti pare? Ad un massimo di solitudine corrisponde un massimo di desiderio.

O. Ho capito, si serra in noi per dilatarsi fuori, per andare in giro…

T. Infatti, la prova è che tutti se ne accorgono… Gli altri si accorgono che tu stai vivendo sul serio, e ti scrutano…

O. Ti guardano, ti osservano…

T. Che ne sanno?

O. Io penso che non sanno niente, ed è proprio per questo, è perché non lo sanno…

T. Però si voltano a guardare il mistero che intuiscono in te, il tuo mistero che lavora li attira…

O. Diciamo che non possono capire, ma cercano.

T. Si tratta di un vivere moltiplicato, penso io.

O. Sì, moltiplicato, non voglio ridurlo al niente, no, non mi va più questo, è arido. Una volta ho scritto: “Esigo di sapere chi ha inventato l’uomo”.

T. Bene, era quello che volevo dire e l’hai detto tu meglio di me, in pienezza… Allora, consentimi, mettiamo che tu vai al mare, guardi le onde che si riversano sulla spiaggia, guardi l’immenso brulichio di bagliori argentati sull’acqua, che ti acceca… Ti viene di fare il confronto con le stelle in cielo, cielo caduto in mare, dunque, cielo notturno che non abbaglia, e non lo puoi dire, ti sembra patetico…

O. Esatto, non riesci a dire la potenza di suggestione che quell’immagine suggerisce, che è quel particolare sconfinato che ti sta davanti, che vive senza che tu lo voglia, senza la tua volontà. Più che patetico, è esaltante, ma sa di romantico…

T. Tutto è maggiore di quello che siamo.

O. Non poteva avvenire prima, senza la sofferenza che abbiamo patito, i nostri cari che sono morti, i nostri amori finiti?

T. Adesso so qualcosa in più, ti pare?

O. Almeno non è rassegnazione, sebbene la parola significa stare in un segno, che è sempre meglio del vuoto.

T. Che vale adesso?, siamo qui.

O. Perché?

T. Ah! Fine dei perché! Non ci si chiede più chi si è, qui. Si è e basta, Sei quello, oppure: adesso siamo questo. Né rassegnazione né scelta.

O. L’hai detto!, ma lo sai che quando scrivevo provavo qualcosa del genere?

T. Anch’io, ti senti abbracciato!

O. Non spieghi, sei spiegato. Non scrivi, sei scritto.

T. Che poi non toglie la fatica di quello che stai facendo, mentre l’impressione è di abbracciare, di agire, di condividere.

O. Ma là in fondo lo senti che…

T. Lo senti ma non riesci a dirlo, non riesci a dire la pienezza…

O. Parliamoci chiaro, è anche il contesto, si ha paura, un misto di pudore e paura, e ci censuriamo.

T. Il rischio è sempre quello di sentirti dire che straparli, tutto questo oltre e Dio e luce e buio, che significa?, che valore ha?…

O. Ora viviamo in pieno, però.

T. Non ancora, secondo me, oppure: continuiamo a crescere, siamo in questa situazione.

O. Vero, vince anche il mio pessimismo, che si sgretola, va in scadenza. Siamo sempre più proiettati fuori… come a dire… non trovo le parole…

T. Penso che è la parola più interiore che esista…

O. Un propulsore incredibile.

T. Finalmente possiamo fare qualcosa per il mondo. Era tutta qua la nostra disperazione, il nostro dolore: di non poter fare il bene. Finanche nel farlo pareva niente, nel senso che mentre lo facevi pensavi che non serviva a nessuno, giacché il male è troppo. E di seguito veniva il nostro azzeramento, mi spiego?

O. Certo.

T. Senti questa frase: “Nessuno potrà cancellare la mia nostalgia di un amore per un solo uomo o un solo Dio o una sola dea”.

O. È vero!

T. L’hai scritta tu.

O. No, me n’ero completamente dimenticato.

T. “Nel massimo pensiero di morte, ho massimo pensiero di vita”.

O. L’ho detto io?

T. Sì!

O. Ancora?

T. “La verità è in questo massimo”.

O. Sempre io?

T. Esatto!

O. Non mi riconosco, sono stato depresso per euforia, per eccedenza.

T. Hai coltivato il male per comprendere il bene. L’hai incarnato fino all’ultimo.

O. Come ho fatto non lo so! Ma certi versi miei me li ricordo. Senti: “Tu, statistico, programmatore del futuro, / non ami il domani, devi / amarlo. / Vivi per il progresso, / sei sicuro di esso, / perché non c’è altro. / Un progresso devo averlo anch’io, / quale semplice andare avanti”.

T. Qual è la pena più grande? Non so se chiederselo ora ha senso, ma voglio provocarti.

O. Vivere su un piano inclinato.

T. Cioè?

O. Appoggi le cose su un tavolo e quelle cadono. Cadendo per terra scorrono verso il muro o la porta, e si fermano solo se la porta è chiusa… Uno apre la porta e scivola insieme alle cose, inciampa persino, quell’uomo e le cose seguono l’inclinazione del piano, senza potersi fermare, perché non trovano un ostacolo o un appiglio a cui aggrapparsi. Diventi una cosa anche tu. Il guaio è quando è tutto ridotto a quello.

T. C’era un programma in televisione che era così.

O. Infatti la televisione è il male, esiste non per informare o per intrattenere, ma per umiliare la speranza.

T. Sulla terra ti direbbero che sei un moralista.

O. Invece?

T. Non lo sei.

O. Grazie.

T. Hai sofferto come me, hai detto non solo la tua ferita ma quella dell’intero mondo, di questo paese, dell’Italia, e nonostante tutto desideravi essere amato con tutta questa ferita addosso, che è difficile, impossibile, occorre un senso di carità grande, e intanto si spaccava il Paese a forza di dire: Roma ladrona, stiamo lavorando per voi, crediamo nelle riforme, bisogna imparare a vendersi… E poi da quale pulpito!

O. Quella ferita aveva di buono che in certi giorni era sopportabile, c’erano dei momenti di tregua, intendo dire, persino di gloria.

T. Eppure ci ha permesso di soffrire per un tramonto, per uno sguardo, per un gesto che arrivava fino a noi, vicinissimo. La bellezza noi l’abbiamo afferrata, non ci è sfuggito il suo segno di salvezza, di compagnia, quelle che provo adesso ascoltandoti.

O. Non so come ho fatto a sopportare il peso della mia solitudine.

T. Per me era quella cosa impossibile che ci fa…

O. Ti leggo un passo di un libro che ho qui: “Anche la notte è necessaria; annunciatrice dell’altra, in cui rincontreremo i volti dei fratelli, delle sorelle, la famiglia, i padri, le madri, i figli mai avuti, gli arcangeli mai dimenticati e quei visi che forse non ebbero neppure un nome e che pure ci fecero sussultare”.

T. Chi l’ha scritto?

O. Tu.

Vincenzo Gambardella

*In copertina: un’opera di Anselm Kiefer del ciclo Walhalla

Gruppo MAGOG