Mister M. ha paura della morte. Mi chiama alle volte per rimettermene al corrente. “La sento imminente. Mi interromperà nelle mie cose sospese: i libri che non ho letto e non ho scritto, l’amore che ho perso e ritrovato e che non farò in tempo a perdere di nuovo o a portare a compimento”. Io gl’ho prestato pochi giorni fa Cartoline dei morti di Franco Arminio (nella fotografia di Mario Dondero), nell’edizione del 2010, prima che i morti gli mandassero altre cartoline, buone per una nuova edizione accresciuta.
Franco Arminio è ipocrondiaco, lo scrive lui, e ho conosciuto le sue cartoline dal mio barbiere, sotto forma di un libretto parecchio unto, pizzicato nella mischia delle riviste maschili, calcistiche e motoristiche, che è il solito trovare dal mio barbiere. Di chi fosse, perché fosse lì l’edizione dalla copertina gialla di Cartoline dei morti, non so e non ho chiesto, ho letto qualche pagina, provando grande simpatia per quei morti casuali, umili. Morti chi di tumore chi per uno strozzamento, come può accadere a qualunque di famiglia, nessuna morte riservata da blasone o da stelletta. Finito dal barbiere, mi sono procurato una copia delle cartoline di Arminio, le ho lette e a lettura conclusa le ho prestate a Mister M., con un gesto di sbarazzamento e forse di superstizione.
Franco Arminio lo incontro ogni volta per caso. La volta prima è successo in una libreria. Io ero nell’attesa tra due tappe di un viaggio e per ingannare il tempo, che tanto ci inganna sempre meglio lui, mi misi a curiosare su uno scaffale di poesia e lessi alcune poesie di Arminio, in una edizione Chiarelettere del 2017, e mi piacquero tantissimo, più delle poesie di Thomas Bernhard in una edizione Guanda del 2017, che pure mi erano piaciute molto. Io e le opere di Franco Arminio ci incontriamo come i morti delle sue cartoline incontrano la morte che gliele ha fatte scrivere: in un improvviso, senza pathos alcuno.
Ho prestato Cartoline dei morti a Mister M. anche per sdebitarmi del prestito recente che lui aveva fatto a me, di Pedro Páramo di Juan Rulfo, nella bianca edizione Einaudi del 2014. Un libro pieno di gente morta, leggermente meno avara nel raccontare di sé, ma niente a che vedere con la chiarezza dei morti che spediscono cartoline a Franco Arminio. I morti di Arminio l’hanno fatta veramente finita e lasciano due righe come assolvendo a un atto burocratico, un po’ dovuto, senza pretese. I morti italiani di Franco Arminio, sembra, non hanno mai ambito alla vita, in vita, e allo stesso modo non ambiscono alla morte, in morte.
I morti messicani di Juan Rulfo non hanno ancora rinunciato e infatti con le loro poche parole strappate, estorte come dietro la minaccia di una pugnale bagnato nell’acqua benedetta, sono una continua rifinitura di non detti, di accenni, di ricordi che avrebbero voluti fossero diversi. I morti in Pedro Páramo non hanno vissuto la vita come avrebbero voluto ma avrebbero voluto tanto viverne una, o rivivere la stessa, chiedendo l’occasione di dire sì quelle volte in cui hanno detto no e avrebbero voluto dire sì ma avevano troppo pudore per dirlo; l’occasione di dire no quelle volte che hanno detto sì perché avevano troppa paura per dire il no che avrebbero voluto urlare. I morti messicani non si sono mai rassegnati a morire, così come non si sono mai rassegnati a vivere.
Appena Mister M. mi farà avere sue nuove sulla lettura delle Cartoline dei morti – io ne ho lette una decina a sera, prima di coricarmi, e mi sono assicurato quasi tre settimane di incubi interessantissimi, tragici di lutti – vorrò proprio cavarmi la curiosità e chiedergli: “Tu ti senti più italiano o più messicano, in quanto morto?”.
Antonio Coda