Francesca
Seduta, in piedi, di spalle, sdraiata, raggomitolata, inginocchiata, carponi su uno specchio, dietro uno specchio nascosta, o dietro un camino, quasi sempre nuda, o semisvestita, il suo corpo intrappolato in una stanza chiusa su un angolo cieco, contro una parete scalcinata, muri decrepiti, o con carte da parati a brandelli, pezzi di calcinacci sul pavimento, porte chiuse, o semiaperte, raramente qualche finestra. A volte il suo corpo, coperto da vesti lunghe e leggere, spesso con decori floreali, accenna a passi di danza, ma appare diafano per la luce e il movimento impressi sulla pellicola, quasi un ectoplasma. Chi è la ragazza, la ninfa, che si offre al nostro sguardo da queste immagini in bianco e nero? Quale mistero custodisce?
Francesca Woodman ha fatto con la fotografia ciò che Arthur Rimbaud fece con la poesia: vi è entrata giovanissima (a tredici anni il suo primo scatto, un sorprendente autoritratto già compiutamente artistico, con la Yashica 635 regalatale dal padre) e ne uscì dieci anni dopo, cambiando per sempre la storia di quell’arte, la sua stessa grammatica. La rinuncia agli scatti per lei non fu come il «Merde pour la poesie!» di Rimbaud seguito alla partenza per l’Africa, ma un salto dalla finestra dal quarto piano di un edificio di Manhattan. Era il 19 gennaio 1981, aveva solo 23 anni e un talento straordinario che quasi nessuno ancora aveva compreso. Quel giorno – in uno dei più gelidi inverni newyorchesi, lo stesso inverno in cui, poco più di un mese prima era stato ucciso John Lennon – le avevano rubato la bicicletta. Woodman era reduce da una relazione finita male e dalla notizia che la borsa di studio del prestigioso National Endowment for the Arts le era stata rifiutata (l’ennesimo rifiuto ricevuto da quando si era trasferita nella Grande Mela). Già l’anno prima aveva tentato di uccidersi, fallendo. Ma questa volta riuscì nel suo intento. Volò dalla finestra, ma privata di quelle ali che appaiono in una stampa intenzionalmente sovraesposta, un autoritratto di qualche anno prima intitolato On Being an Angel, dove l’artista appare di spalle, bagnata di luce, le braccia aperte e i piedi sollevati dal suolo.
Pochi anni dopo la sua morte fu riconosciuta come tra le più originali fotografe del Novecento.
L’atto rivoluzionario di Woodman, la natura radicale della sua fotografia, era nel rovesciamento di un’idea fino ad allora accettata da tutti, perfino dall’avanguardia: l’idea, cioè, che l’immagine possa rivelare qualcosa. Al contrario, le fotografie di Woodman affermano che mostrare, mostrarsi, vuol dire celare, opacizzare il reale. La fotografia, dunque, non è un atto di apparizione ma di sparizione. Non c’è punctum, dettaglio rivelatorio, epifania. I nudi di Francesca, in questo senso, non sono un’esibizione, ma un nascondimento. L’autoritratto è un auto-occultamento. La stanza chiusa è il mondo indecifrabile da cui l’individuo, l’essere umano cerca di fuggire, scomparendo, mimetizzandosi in esso. Un corpo nudo intrappolato su un nudo palcoscenico: non è altro, la vita. Eppure resta il mistero, la vaghezza, ciò che l’immagine non può cogliere ma le cui tracce sono visibili nelle sfocature, nelle improvvide fusioni tra quel corpo e quella scena, ottenute con le esposizioni lunghe, le sovraesposizioni o la doppia esposizione, tracce mnestiche, spettrali che, ancora una volta, nascondono più che rivelare.
Nonostante il suo dialogo costante con l’arte classica, dalla dagherrotipia fino al surrealismo di Man Ray e André Breton (Nadja è uno dei suoi libri preferiti), elabora una concezione dell’arte fotografica del tutto originale, dove, attraverso l’ossessiva, maniacale rappresentazione del proprio corpo, arriva alla constatazione che nulla può essere rappresentato, nulla può essere raccontato, nulla può davvero accadere, se non all’interno di quel piccolo rettangolo bidimensionale che è la stampa fotografica. Quelle stanze chiuse, per quanto abitate da anguille, gabbie, specchi, conchiglie, cigni, non sono una Wunderkammer, ma piuttosto il luogo della solitudine e del silenzio, senza tempo e fuori dal mondo, dove la fotografia stessa si nega tutte le sue possibilità – paesaggio, natura morta, ritratto, nudo, street art – e non può far altro che esplorare i limiti del nulla.
Scrisse una volta, Woodman, sul suo diario: «Non puoi vedermi da dove io mi vedo». E non è questa un’ammissione di sconfitta, di impotenza per una fotografa che mette in scena il proprio sguardo? O meglio, non è, forse, una dichiarazione di poetica che allude all’impossibilità di decifrare l’immagine dell’Altro?
L’unico gesto da compiere è, allora, l’uscita dalla cornice, l’uscita di scena.
Fabrizio Coscia
*In copertina: Stephan Brigidi, Woman with Large Plate (Francesca Woodman), Roma, 1978