12 Dicembre 2019

“Non capisco quelli che si ostinano a spiegare la poesia”. Intervista a Philip Larkin, il poeta ineffabile

Philip Larkin è affascinante perché ha una personalità sulfurea quando parla di società e scrive lettere private è nocivo per la salute del buoncostume e del progresso. Invece nelle dichiarazioni pubbliche e, quel che importa di più, nelle poesie, è di una dolcezza e di una violenza arcane, superbe. Esempi. Nella Paris Review del 1983 chiude con questa forza di autocondanna: “Forse la mia nozione di poesia è assai semplice. Qualche tempo fa mi dissi d’accordo a fare il giudice in una gara di poesia, sai, quel genere di concorso con 35000 partecipanti dove cerchi il centinaio di poesie interessanti. Dopo un poco dissi ‘Dove sono le poesie d’amore? E quelle sulla natura?’ e mi dissero ‘Oh, quelle le abbiamo buttate vie’. Suppongo si sia trattato di quelle che mi sarebbero piaciute”.

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La storia dietro la lunga intervista a Larkin è stata raccontata dal giornalista, Robert Philipps, in un fascicolo, Courier, dell’università di Syracuse del 1983 (chissene, ma le fonti vanno esibite). Il giornalista ha spiegato che Larkin gli rispose nel settembre del 1982 dicendogli “siccome non ho agenti letterari glielo chiedo qui – si viene pagati a rilasciare l’intervista? E quanto?”. Solo Nabokov era arrivato a chiedere un compenso a quella rivista fighetta. Da vero blue, da conservatore antidiluviano, Larkin si sarà detto – questi polli di New York avranno le loro monetine, no? E per calcare la mano, Larkin si rivolse al giornalista usando tutti i suoi titoli: C.BE, C. Lit., M.A., D. Litt., FRSL, FLA. Da parte di uno che non si era laureato col massimo dei voti e che non era stato cooptato per nessun genere di carriera statale, era una solenne presa per il preterito.

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L’intervista si sviluppa in trenta pagine e Larkin rispose per iscritto (volle fare così, nulla di spontaneo) solo a 53 domande su 86 che gli erano state formulate. Del resto era scettico in partenza, riteneva che ogni intervista dopo quelle che aveva concesso sino allora sarebbe stata ripetitiva – alla fine ne fu soddisfatto, al punto che nel libro di testi non letterari incluse solo questo pezzo di Paris Review insieme a un’altra cosa sotto il capitolo “interviste”.

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All’epoca Larkin si dilungò a spiegare come aveva composto, nel 1973, il suo Oxford Book of English Verse dal 1914 ai suoi giorni. Per quanto sembri noiosa, non è una storia leggera. Oggi che si agitano questioni di valore poetico di là dai nomi, è utile rileggere la prefazione di Larkin all’antologia letteraria. Eccolo qui: “Nel prendere le mie decisioni mi sono sbilanciato senza perder l’equilibrio. I rischi erano quelli classici delle antologie. All’inizio volevo che fosse il secolo a scegliere i poeti mentre io selezionavo le poesie, ma eccetto due o tre decine di nomi la cosa non funzionava. Alla fine mi resi conto che il materiale era riconducibile a tre gruppi: poesie che indicano il talento dei poeti (poeti di talento a detta del loro tempo o a mio giudizio); poesie valide per essere incluse senza considerare i loro autori; infine poesie che portavano con sé qualcosa del secolo in cui erano state scritte. Non devo dire qui che i tre gruppi non sono dello stesso spessore e non si escludono a vicenda”. Conclusione salomonica: più di 200 autori messi in antologia, operazione eversiva che ha fatto scuola perché prima di allora i soloni di professione spremevano poco, le antologie erano smilzi volumetti solo sul Settecento o sull’Ottocento. Grazie a Larkin nacque nel 1999 Oxford English Book Verse di Ricks che snocciola poesie a centinaia dal Medioevo fino a noi. Più poesie che autori. Più opera che autorità.

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“Non ho agito né con senno di critico né tantomeno di storico, bensì come qualcuno che volesse metter insieme poesie che – si spera – daranno piacere ai lettori sia prese singolarmente che nell’insieme della collezione”. Genio.

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Ma aveva la coda del diavoletto. Quando gli americani gli misero alle calcagna la creme di sinistra, Larkin abbaiò. Gli volevano fare un contatto con Julian Barnes, quel rompimaroni che proprio nel 1982 stava finendo Before she met me (rilanciato da Einaudi per gli stalker rintronati). Ecco la lettera inferocita agli americani: “L’arrivo di Barnes in questi giorni significa che state ingarbugliando la matassa, o forse è stato il mio caro Philipps a metter male in chiaro le cose tra noi. Vorrei avere a che fare solo con lui. Poche illusioni per Barnes. Siamo chiari: mandatemi l’onorario che mi spetta, avete ormai ricevuto le prime bozze”.

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Domanda spontanea. Possibile che un tipo come lui scrivesse poesie fini? Nel 1974 Finestre alte vende seimila copie in venti giorni. Il giorno della sua morte, il 7 dicembre 1985, BBC disse “è morto a Hull l’uomo che si ritiene sia il miglior poeta laureato che UK non ha mai avuto” (lui chiamava quella competizione un’ordalia più che un onore). La prima raccolta completa di poesie uscita nel 1989 al momento della vendita aveva già 10000 copie prenotate.

Andrea Bianchi

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Paris Review intervista Philip Larkin

Perché scrivi? E per chi scrivi?

Hai certo letto Auden “Facile è fare la domanda difficile”. La risposta veloce è che scrivi perché devi farlo. Se lo razionalizzi sembra che tu abbia visto questo, sentito quello, avuto quell’altra visione, trovato un’altra combinazione di parole che sapranno conservare il senso per le altre persone che verranno. Abbiamo un dovere solo verso l’esperienza originaria. Nulla che riguardi l’autoespressione, benché le assomigli. Per chi scrivo? Be’, per tutti. O per chiunque starà a sentire.

Condividi i manoscritti con qualcuno prima di pubblicare? Ci sono amici del cui consiglio ti fidi?

Per regola non dovrei farlo. Ma quando ero giovane c’era Kingsley Amis e con lui ci scambiavamo tutto, in gran parte perché credevamo che non sarebbe mai andato a stampa. Mi incoraggiava, facevo lo stesso con lui. Una cosa estremamente necessaria per lo scrittore giovane. Però che qualcuno si meriti l’incoraggiamento, altro discorso. Non ci sono molti Amis in giro…

Da studente ti sei mai sentito un outsider? Ci sono alcune voci nelle tue poesie – Reasons for attendance, Self’s the Man – che  sono liete di esser rimaste single, tu sei come loro?

Difficile dire. Sono rimasto single per scelta e non credo mi sarebbe piaciuto che andasse diversamente, ma poi, certo, la maggior parte della gente si sposa, alcuni divorziano, quindi immagino di essere un outsider nel senso che hai detto. Certo la cosa mi preoccupa di tanto in tanto, ma prenderebbe troppo tempo se te la spiegassi. Samuel Butler diceva che la vita è un affare che consiste nel farsi rovinare – in un modo o nell’altro.

Senti che la felicità sia una cosa inverosimile per questo mondo?

In realtà credo che se sei in buona salute, hai abbastanza soldi e nulla che ti scoccia nel futuro prossimo, ci sia della speranza. Ma la felicità nel senso di un orgasmo emotivo e continuo no, non esiste. Soltanto se pensi che moriremo, che moriranno le persone che ami…

Ti sei mai cimentato con un poema d’amore di lunghe dimensioni?

Mai scritto. Diverrebbe un romanzo. Puoi prendere ad esempio il mio A girl in winter. Lo vedo come una poesia.

Puoi descriverci la genesi e lo sviluppo di una poesia fondata su un’immagine che per il passante comune è insignificante? Una strada pulita, un’ambulanza nel traffico…

Se sapessi rispondere a domande simili sarei un professore e non un bibliotecario. Ad ogni modo non voglio non rispondere. Non ci voglio pensare. Succede, mi è successo, è una cosa di cui rendere grazie, ti senti grato. Amo dire che non capisco quei tizi che girano per le università americane spiegando come scrivono le poesie. È lo stesso che se dicessero in che modo stanno a letto con le loro mogli. Qualcuno mi ha spiegato, una volta, che quei tizi parlerebbero anche delle mogli, se i loro agenti letterari gli mettessero a calendario il relativo impegno.

*traduzione di Andrea Bianchi

 

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