Una sfacciata sboccata di narcisismo. Dieci anni fa Bompiani pubblica Contronatura, un classico contemporaneo di Massimiliano Parente – l’incipit, così carnale, creaturale, “Così Naike Porcella non ha dormito, non ha digerito, grassa com’è continua a trangugiare tartine di maiale e mai che scoppi una volta per tutte o gliene rimanga una insaccata nel gargarozzo”, mi ricorda Joyce, il tono mi rimanda, rigurgitati, a Thomas Bernhard e a Witold Gombrowicz – e a pagina 306 ci sono io. “…il mio faustiano amico Davide Brullo, l’unico poeta che io conosca e riconosca; voglio dire, un profeta antico e biblico e moderno e brullo come lui, che non scrive nemmeno poesie, basta e avanza in una vita per rinunciare agli altri e fungere da contrappunto estetico alla mia mancanza di poesia, siccome io non scrivo in prosa, e tantomeno vivo, ma scrivo, soprattutto, per fare a meno di me”. Massimiliano racconta la mia disavventura in Rai, la nostra tragicomica gita “ai Parioli”, in un “appartamento ricco ma in disfacimento”, greve di intellettualoidi e poetanti, siamo a casa di “Gaby Ficca, una smandrappata quadrupedante cinquantenne buzzicona romana de Roma che insegna perfino letteratura”.
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Il Narciso che in me fiorì e sfiorì all’istante: finire in un romanzo è una grazia, grazie, ma è anche una prigionia. E… e… e… se perdessi me stesso? Lo scrittore, chi non lo sa?, è un demone, ingabbia i vivi nella sua forma finta. Il giorno dopo aver ricevuto il romanzo da Massimiliano, mi svegliai in una gabbia di vetro, faticai ad allungare le braccia – soffocavo.
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“A Davide, al di là di ogni parola, tuo…”. Il romanzo, con dedica. Ci siamo voluti così bene, con Massimiliano, che ora non ci sentiamo nemmeno più – da anni, ormai, tanti, tanti. D’altronde, ormai vivo nel suo romanzo, che senso ha far finta di essere vivo?
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Per un periodo, ho avuto un rapporto epistolare piuttosto intenso con Barbara Alberti. Fino al 2010. Con Baldini Castoldi Dalai, la Alberti pubblica Sonata a Tolstoj, che è il più bel romanzo su Tolstoj mai scritto in questo Occidente in cecità, uno dei più belli di Barbara. In quel libro sono tra i graziati nei ringraziamenti, a pagina 290: “lo scrittore Davide Brullo per avermi dato le Lettere di Lev Nikolaevic Tolstoj, Longanesi 1978, e alcuni suoi formidabili scritti su Tolstoj, perdonandomi l’invidia davanti alla perfezione della sua pagina”. Anche in questo caso, Narciso si costruì un deltaplano, veleggiando tra i polmoni e la caviglia destra. Da allora, però, recluso in quel ‘grazie’, con Barbara Alberti non ci siamo più sentiti. La letteratura fa così: uccide i rapporti tra i viventi, ne impone altri, più profondi?
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Non dimentico le poesie che Gianni Fucci, il poeta-sapiente di Santarcangelo di Romagna, amico di Guerra-Baldini-Pedretti, mi ha dedicato: omaggio tra anime affini, affilate in questa era di ferro, che vengono da generazioni scomposte e dispari.
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Questa estate sono andato a trovare Stefano Simoncelli, il poeta di Cesenatico, animatore, insieme a Ferruccio Benzoni, della rivista Sul porto. Non lo conoscevo. Si è confidato, come un uomo sulla riva scoscesa del tempo, come un uomo che ha perduto tutto e trovato altro. Questo smarrimento – sempre sornione, a tratti ironico, spesso cinico – mi ha sorpreso.
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Per Simoncelli, ora, la poesia è una disciplina quotidiana – come una corda, con cui trattieni e ti ferisci, gloria e sangue, geometria di tensioni, gesticolare ad ammutolire il mattino. Simoncelli ha da poco pubblicato Residence Cielo, per peQuod. “Cerco di invecchiare con passione/ e eleganza a beneficio degli assenti”, scrive il poeta in una poesia che fa da introduzione. Si resta in piedi per amore dei morti – è per loro che si vive con eleganza. L’assenza è l’assunzione di un compito.
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Di Simoncelli amo i golfi di tenerezza (“Vorrei chiudere gli occhi/ sognando una donna/ che mi vuole bene”) e la recinzione nella nostalgia. Il narcisismo virile – calciatore di qualità, poeta del tutto ‘fisico’, barbarico e baro alla vita – è stordito dai ricordi, dagli aghi del rimorso. Alieno a questo mondo – che continua a sedurre con un sorriso – Simoncelli ricorda Caproni e Sereni, i maestri, le gite verso René Char, poi Fortini, Pasolini, e Marino Moretti e Ferruccio Benzoni: solo ora gli è chiaro che ha vissuto nell’oro dell’uomo.
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Poi mi scrive, conoscendo il Narciso che fa ginnastica sulle mie costole, “ho scritto una poesia dove compare il tuo nome e cognome”. Dopo mi avvisa che una serie di poesie sue è letta, in questi giorni, su “Fahrenheit”, la trasmissione di Radio Rai 3. Gli chiedo di farmi leggere. Lui risponde. “Caro Davide, sapevo che ti avrei incuriosito. Ti invio alcune poesie (è una specie di poemetto) che ho scritto da agosto a novembre: uno dei periodi più tristi e dolorosi della mia vita in cui ho pensato davvero di farmi fuori”. Sono spudorato e schifoso a ricalcare le missive private, lo so, ma chi scrive sa che è privato di tutto, che non c’è lontananza tra sogno e realtà, tra verbo e vero.
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Ricalco quella frase perché dice, criticamente?, tutto di Simoncelli. Un poeta è uno che sa “farsi fuori” – è uno che parla coi morti, che gioca pesantemente con la morte, che accarezza il muso felino, ferale della morte, gli lucida le zanne, ed è lì, sui canini della morte, che incide le sue parole.
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La silloge che mi invia Simoncelli s’intitola, La poesia può salvarti la vita. Il poemetto procede per terzine che si dilatano e accorciano, come un elettrocardiogramma, come l’onda degli hertz che sbriciola il naso agli angeli. Dall’annientamento – perfino del nome: “Non so più chi sono/ e quale il mio nome vero”, sono i primi due versi, di allucinato dolore – perpetuato nel bronzo (“Non so se mi sono conosciuto davvero”; “Mi sono ridotto al modo/ di sentirmi sempre più solo”), fino alla quiete, nel magma di una salvezza parziale, potenziale, primordiale, povera. D’altronde, si è poveri di tutto nella landa cesenate, dove la nebbia non è altro che l’olio delle negazioni e dei desideri abortiti dei morti.
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Questa è la poesia in cui appare il mio “nome e cognome”. Diversamente da altre volte, non mi sento in prigionia – ma libero.
Non sono andato
quella notte alla stazione
e non ho camminato lungo i binari
determinato ad appoggiarvi sopra la fronte
come sul cuscino di piume dove faccio
a volte qualche sogno agghiacciante
come l’arrivo di un regionale
diretto ad Ancona,
a Bologna
o a casa del diavolo
sul quale non salgo
e che mi trascina via nel buio.
Sono rimasto sempre qui, a casa,
dove ho messo nero su bianco in un foglio
il pensiero “la poesia può salvarti la vita”
e, di seguito, ho ricopiato le parole
con le quali mi ha descritto
il poeta Davide Brullo
in una intervista: “un uomo
che addormenta a cazzotti
la tigre del dolore.”
Mi auguro sia vero
ma non sono un pugile.
non lo sono mai stato.
Intanto è mercoledì,
no, mi sbaglio, sabato
e se per caso non piove,
ma ormai piove sempre,
tra poco andrò al mercato.
(Via fratelli Rosselli, Cesena 2018)