14 Luglio 2022

Nei bassifondi della carne. “La Gana”, il romanzo incarcerato

La Gana di Jean Douassot venne pubblicato nel 1958 in Francia, mentre in Italia uscirà per i tipi di Lerici solo nel 1964. La magistratura, dopo aver disposto il sequestro di un migliaio di copie del volume, nel 1967 rinvia a giudizio lo scrittore, l’editore italiano, il traduttore e l’impaginatore per pubblicazione oscena e offensiva per il comune senso del pudore. Gli imputati verranno assolti con formula piena, e, al contrario, il romanzo resterà condannato sparendo repentinamente dalla circolazione.

In Italia come in Francia, La Gana avrà infatti vita breve, passando dalla telegrafica notorietà tribunalizia all’abisso. Come se fosse scivolato, inghiottito nello stesso chiusino posto al centro della casa del protagonista, che spurga acqua e topi della Senna e che tutto inghiotte negli incubi notturni. Come se l’osceno della vita che vi si narra avesse preso il sopravvento, rivendicando un diritto all’oblio per una miseria mostrata con una tale sfacciataggine da rendersi inaccettabile.

D’altronde sarà lo stesso Maurice Nadeau, direttore di collana per Éditions Julliard, nella premessa al testo, o meglio avvertenza, a mettere le mani avanti dichiarando di aver censurato parte del libro perché alcune parti erano davvero impubblicabili. Preferendo quindi lasciare al loro posto dei puntini di suggestione, più che di sospensione. Cosa avrà mai sacrificato di tutta la volgarità strabordante del testo? Quali ulteriori oscenità sono state omesse? Come se la descrizione delle nudità molli, pelose, di Perny, non fossero già abbastanza.

La Gana è la storia di un’iniziazione a una vita già consunta. Il protagonista, un bambino di dieci anni, (“forse, coi miei dieci anni, è come se ne avessi cento”) ci confessa la sua balorda esistenza in uno scantinato parigino dalle mura grondanti umidità, le cui gocce fanno imbestialire il padre alcolista e uscire di senno la madre malata, mentre una nonna incontinente cerca di fare un po’ di ordine, tra un bucato e l’altro, al contrario dello zio, erotomane disoccupato, ma amorevole maestro di vita.

La Gana è la storia di un buco, quello dell’ombelico, come suggerisce lo zio al nipote: «guardati sempre l’ombelico», e infatti tutto per il ragazzino diventa un ombelico, dall’arredamento alla vita. L’ombelico è il centro della narrazione che parte e segue i buchi e le fughe del corpo, da quel buco che, come un filo, collega il protagonista alla madre e da lì alla nonna e così via. Tutto è viscerale, tutto è un riempire e svuotare buchi, che siano la pancia, la vescica, il sesso, il buco del sedere o il buco delle fogne. L’ombelico è il vero terzo occhio, un occhio fisico, non mentale, perché la vita la si assapora nel tatto, nel gusto, nel dolore, nell’odore percepito dalle narici che son fessure anch’esse. Non la si può contemplare questa vita, non ci si può staccare da essa, ci tiene legati con un filo costringendoci a subirne la sua insostenibilità. La vita è crudele, ti obbliga a viverla.

Ecco allora che questo orrore, visto da un piccino, appare ancor più squallido e senza pudore ma al tempo stesso suona farsescamente divertente nella resa grottesca della sua messa in scena. Ci troviamo di fronte a gente con una salute di ferro pur senza averne, tutti malati e malandati per eccesso di vita, perché la cosa più difficile è far ridere un cane, non il resto.

Jean Douassot ovviamente non esiste, è lo pseudonimo di Fred Deux, forse più pittore che scrittore, tant’è che lui stesso giustificherà l’utilizzo dello pseudonimo dichiarando che all’epoca il mondo dell’editoria non voleva commistioni tra quello delle lettere e quello della grafica. Ad ogni modo, Fred Deux, rientrato dalla guerra, lavorerà in una libreria a Marsiglia dove prenderà confidenza con la meraviglia dell’osceno di Henry Miller e gli autori del surrealismo, evidenti fonti di ispirazione per questo testo autobiografico, la cui lingua batte dove duole e in cui rimbombano echi di Céline. Il misterioso titolo, invece, benché suoni e ricordi la gogna, deriva da un modo di dire più sudamericano che spagnolo e che tende a esprimere un desiderio di vivere più inconscio che meditato, una grande volontà, come quella di Sant’Agostino.

Luca Buoncristiano

*

La carta d’Armenia

«Guardati sempre l’ombelico e dimmi che te ne pare», mi diceva lo zio.

Fratello del babbo, egli apparteneva al gran lignaggio della famiglia. Come i principi, stava a capo coperto e si lasciava sempre dietro un forte profumo.

Nato sotto una luce che un giorno sarebbe stata anche la mia, i suoi unici amici eravamo suo fratello, mia madre ed io.

Scapolo, assai poco benvoluto dalla gente, tirava avanti cercando di cavar dalla vita quel che potesse.

Ma questo non gl’impediva di girare a vuoto e di trovarsi sempre sull’orlo della disperazione. Non sempre si rendeva conto d’esser vivo, e toccava a mio padre ricordarglielo con discrezione. È curioso vedere come le persone taciturne possano mostrarsi discrete verso certi esseri. Così accadeva ai due fratelli. Uno di essi, mio padre, per reggere un po’ più doveva sventare tutte le insidie per vivere, anche miseramente.

Soprattutto miseramente.

Il passatempo preferito dello zio era guardarsi l’ombelico.

Ciò avrebbe potuto disgustare mio padre, che non aveva mai un momento per questo tipo di meditazione. Avrebbe potuto allontanare quel contemplatore da una famiglia che già aveva troppe gatte da pelare per rimediare qualcosa da ficcarsi in pancia. Avrebbe potuto allontanarlo anche da me. Sarebbe bastato il pretesto dell’esempio. Invece mi pareva che questo, invece di allontanarlo, contribuisse a unirlo a noi, e mai per un senso di pietà.

Lo zio, col quale non s’erano mai lasciati dall’infanzia, era una parte della dote che il babbo aveva portato con sé sposandosi, come quei mobili di famiglia da cui non ci si separa mai. E gli era necessario, come a certuni lo sono i musi dei loro parenti appesi ai muri di camera.

Ma dato che da un quadro simile non c’era da cavarci nulla, bisognava vederci un grande attaccamento e un sentimento che nessuno dei due avrebbe potuto spiegare.

Lo zio restò con la mia famiglia quasi quindici anni, intrigandosi in tutte le storie che vengono fuori, specie nelle famiglie povere.

Passò quei quindici anni a scocciarsi e a scocciarci.

A rallegrarci e a farci sempre sperare, ogni volta che lo sentivamo scendere le scale che portavano nella nostra stanza.

Ogni tanto spariva, lasciandoci soli, e noi ci mettevamo a tavola soddisfatti, senza di lui. Il babbo si sedeva, molto tranquillo, guardando sua moglie e suo figlio. Sua suocera cucinava su una minuscola stufetta a legna, e quando veniva scodellata la minestra lui ci scrutava con sguardo assente. La mamma lo serviva, poi riempiva la mia scodella, poi quella di sua madre e la sua. Allora, in quell’istante, dovevamo provare la stessa sensazione: lui non c’era.

E si sentiva tanto più, in quanto non avevamo nulla da dirci. Raschiavamo ben bene le scodelle, schioccavamo con la lingua e il babbo girava gli occhi da tutte le parti.

Si vedevano scivolare pian pianino lungo i muri le gocce che si formavano ogni volta che si cucinava. La vernice a olio dei muri si metteva a brillare e a far colare migliaia di goccioline; noi cominciavamo ad asciugarci.

Parlavamo spesso di quella pioggia che ci faceva scoppiare.

Io mi asciugavo col primo straccio che mi veniva sottomano.

Il babbo cominciava in sordina, su un tono molto basso, una litania che progressivamente saliva fino a scatenarsi in uragano.

Quell’acqua gli dava ai nervi; ne aveva piene le scatole, gli pareva di essere in una tomba. Come per un bisogno di equilibrio la mamma compensava il suo ardore con un mormorio di parole che per me non volevano dir nulla. Ogni tanto il babbo lasciava andare un sonoro Sì o un No, e poi ricominciava, con lo sguardo fisso sulle goccioline.

Se c’era lo zio, le goccioline diventavano rugiada. O non ne parlava o ci scherzava sopra. Gli piaceva fare sul muro dei disegnini col dito: quasi sempre lo stesso, che io mi sforzavo di ricopiare: un cane che fumava la pipa.

Quand’era con noi, in quel bagno turco, ci conduceva in uno dei suoi misteri: i sogni. Lo zio, che era un sognatore, fantasticava a voce alta, in grande. Davanti a noi lasciava sfogare liberamente la sua fantasia che era per me la fonte d’ogni gioia, d’ogni stupore e soprattutto d’ogni ammirazione. Così coperti di quel sozzo sudore appiccicaticcio al quale s’aggiungevano il nostro sudore, la minestra e l’aria densa, lo zio ci trascinava verso incredibili paesi; fuorché in due casi: quando gli uditori erano suonati come lui, o quando si fregavano tranquillamente di quel che diceva e seguitavano per la propria strada.

Ce n’erano sempre di tutt’e due le razze. Specialmente la mamma, che fingendo di stare a sentire si metteva a seguire un filo e risaliva fino alla matassa, tutta intrigata e per nulla allegra. Accadeva, tanto spesso da non stupircene più, che il sognatore parlasse e ci portasse fuori del nostro diluvio. Eravamo così felici con lui di quella bella passeggiata e già il babbo spiaccicava ben bene il culo sulla seggiola, fumava con voluttà la sigaretta torcendo le labbra come per assaporare il riso che sarebbe venuto, quand’ecco che la mamma, la quale seguiva la sua strada personale, cominciava a urlare e scoppiava in singhiozzi.

Ci troncava il respiro. Con un gesto lo zio ci faceva capire che eravamo tornati nella camera e si alzava, guardando la mamma. Il babbo restava fermo, con le labbra già atteggiate al sorriso, e io, deluso, supplicavo lo zio di raccontarmi come andava a finire.

Ma tutti avevamo potuto sentire il gran sudore scorrerci di nuovo addosso, e con lo stesso gesto ci asciugavamo, poi andavamo dalla mamma a chiederle che mai le avesse preso. E lei singhiozzava sempre più forte, noi la consolavamo senza convinzione e il sognatore se ne andava.

Con leggerezza – lo zio era molto leggero – saliva le scale e andava in camera sua, sotto il tetto.

Lo ritrovavo, la mattina dopo, quando gli portavo il caffè. La sua camera mi attirava per gli odori. Fumava molto, si lavava molto. Aveva una cipria per i piedi, alcool per i capelli, profumi da bruciare, e carta d’Armenia, dentro i cassetti, dove mi lasciava frugare. Trovavo che ogni oggetto aveva un suo odore particolare; perfino i giornali. Con un po’ più di discernimento avrei potuto sentire anche odore di morto.

Quell’odore era disgustoso; ma mi attirava, c’erano tanti segreti, tanta polvere, tanta stranezza. In nessun altro luogo potevo sentire tanti profumi nello stesso tempo. Invece di vedere la sua camera come un insieme, essa era un gioco e anche un mistero. Quei profumi interessanti, quella morte che stava sospesa nell’aria e che sentivo senza mai precisarla, mi stavano addosso, mi attiravano, mi stregavano.

Con lo zio, passavo da una scoperta all’altra.

L’ombelico fu una delle prime. Non avevo mai pensato a guardarmi quel buchino di carne, né mai mi ero chiesto nulla in proposito.

Un giorno mi disse di farglielo vedere.

Piuttosto impacciato mi slacciai i calzoni e mi scopersi la pancia.

Lui sbottonò i suoi e a sua volta si scoprì.

Molto più grosso del mio, ecco quel che pensai.

Ma non ci vedevo nulla di straordinario; lo zio mi guardò e disse:

«Di lì eri attaccato a tua madre».

Mi riabbottonai e scesi di sotto. Che cosa veniva a raccontarmi! Che di lì ero attaccato a mia madre! Passavo tutta la giornata a guardarmi l’ombelico. Mi mettevo davanti all’armadio a specchio e mi osservavo la pancia. Proprio non ci capivo nulla. Avrei dovuto parlarne coi miei compagni. Ma era il genere di cose delle quali non si ritiene di dover parlare con altri.

Passavo il resto della giornata a palpare e strizzare, tra pollice e indice, quel pezzetto di carne avvizzita.

La sera lo zio scendeva a mangiare.

A tavola spiavo il suo sguardo, gli cercavo il piede. Non trovavo nulla e il suo sguardo restava inchiodato sul piatto, però non la smettevo.

Il babbo posava la forchetta sulle righe della tela incerata, il cucchiaio accanto, parallelo e il coltello reclame di traverso.

Anche lui cercava di dire qualcosa. Ma siccome solo lo zio aveva qualcosa da dire, se non parlava lui gli altri si scervellavano per introdurre e avviare la discussione.

Finito di mangiare lo zio si alzava e io lo accompagnavo ai piedi della scala. Avrei voluto dirgli qualcosa, ma non mi riusciva più di ricordarmene. Si chinava, mi baciava e mi chiedeva: L’hai visto? Che cosa? chiedevo io. L’ombelico, che diamine! Sì, rispondevo. Allora, a domani, e portami il caffè caldo, coi cornetti.

Lo zio saliva su. Io tornavo in camera pensando all’ombelico. È per questo che non ha detto nulla? mi chiedevo. Non c’è altro motivo, è per l’ombelico. Ritrovavo la famiglia seduta intorno al suo ombelico fumante. La zuppiera era vuota, la mamma dormiva in piedi e il babbo se la fumava. Sotto la cintola, cercavo di veder spuntare anche il suo ombelico. Di lì sua madre lo ha fatto, e mia madre di lì è stata fatta. Tutto ombelico. Il cassetto col suo pomo in mezzo, l’armadio e la sua maniglia, la porta, il letto. Mi mettevano a Ietto e io mi posavo la palma sulla pancia, sorridendo nel sentire il mio calore.

Jean Douassot

*Si ripropone per gentile concessione dell’editore Gog, l’introduzione e parte del primo capitolo de “La Gana” di Jean Douassot

Gruppo MAGOG