Il punto: discendere nei penetrali del linguaggio di Dio.
Discernere, cioè: fare scempio.
Come ci si rivolge a Dio? Rivolta del linguaggio.
Come parla Dio?
Dio ha i denti? Quanto misura il suo cranio? Dio ha un petto? Le costole di Dio sono grandi come capodogli? Sono un porto o un cacciabombardiere?
Nel Salmo 19 è scritto che il creato rivolge al Creatore un inno di lode “Senza linguaggio, senza parole,/ senza che si oda voce”. Non sunt loquelae neque sermones,/ quorum non intellegantur voces traduce Girolamo. Né loquela né sermone: chiacchiera non ama Dio, adulazione lo irrita.
Il creato loda incessantemente Dio e noi non ne udiamo la voce. Siamo esclusi da questo vocalizzo – in esilio dalla lode.
Eppure, il Salmo 19 suona – canta. Il giorno “racconta”; la notte “trasmette notizia”; la terra “diffonde il loro annuncio”. Armonia alfabetica è stretta tra creato e Creatore – l’uomo necessita, per non dire ciò che ha da dire, del linguaggio.
Linguaggio: malcerta corda. Col linguaggio procedi in rampicata; il linguaggio ha nodi pari a trappola.
“Ti siano gradite le parole della mia bocca”, implora il salmista. Che è come dire: insegnami a parlarTi come fa il resto del creato. Come ti onorano il sole e le stelle, come urla a te il capriolo e il lupo, la cincia e il pesce, il leccio e l’erba.
Nella Lettera a Proba, Agostino insegna a distillare le parole della preghiera, a ricavare da ogni parola l’olio necessario. “Lungi dalla preghiera ogni verbosità”, scrive, dacché “Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime che con i discorsi”.
Salmeggiare a singulti. Lingua pre-umana. Lingua-selce. Lingua-accetta, malaccetta.
E poi: “Sappiamo che gli eremiti d’Egitto fanno preghiere frequenti, ma tutte brevissime. Esse sono come rapidi messaggi che partono all’indirizzo di Dio”. La cosiddetta “preghiera del cuore” – brevissimo nastro di lemmi, incessantemente ripetuto – permette all’eremita perpetua vigilanza. Sentinella sulla lama del linguaggio. E diventare, al cospetto di Dio, sole e stella, notte e giorno, cervo e cincia, pietra e ramarro.
Non conta il significato – corazza per esegeti, vezzo inerte, il carapace del dire – ma sostare nel suono. Salpare entro un salmo.
Leggo qualcosa di simile in un testo di Isabelle Baladine Howald intitolato L’animal inspire, pubblicato nel 2009 sulla Revue de philosophie et de sciences humaines “le portiQue”.
Il punto ipotetico è questo. La poesia ci porta al principio e alla fine del linguaggio; altrimenti, è blaterio inerte, latrina per letterati. La parola poetica, cioè, pari al latrato della bestia, pari all’ungulato, allo scalpiccio della pietra, al fischio della cometa, al luccichio del sole.
Poesia: veglia perenne. Impavida dedizione. Le lingue degli angeli: un pigolio.
Così attacca Isabelle:
“Entro nella notte. La nera notte che ha bisogno di tempo e solerte pazienza, una sorta di impaziente pazienza prima di poter distinguere qualcosa. Scrivere, cioè: accettare la notte, penetrare questa notte. Scrivere poesia, cioè: cercare di distinguere qualcosa, vedere nella notte. Accettare dunque di non vedere nulla, per un attimo che può essere molto lungo”.
Il testo di Isabelle passa per presenze amiche, immagino: Heidegger, Georg Trakl, Rilke, Beckett, Pierre Michon, Agamben. Non c’è coltre di sacro né di muscoso liturgico nel suo vagare. Ma forse il punto è proprio sancire che non c’è distinzione, rompere i sigilli del linguaggio, erompere.
“Per scrivere bisogna strisciare”, scrive Isabelle. E poi: “Non scrivere soltanto sottoterra, ma installarsi in una oscurità. Alcuni, Omero, Borges, scrivono alla cieca, ciechi”.
A un certo punto, mi sembra di capire, Isabelle dice che “ispirazione” significa che un’animale, “l’animale del poeta, o l’anima-poeta, prende il sopravvento, nel respiro, nello spirito, nella visione”. Insomma: ispirazione è imbestiarsi.
Ispirazione: sfamare la bestia non addestrata.
Isabelle ha a cuore la bestia, io l’angelo, ma è lo stesso perché entrambi parlano la lingua di Dio.
Questa poetessa pensatrice conclude il suo discorso parlando di Kafka, in particolare cita il racconto estremo, cita Josefine la cantante. Lì, dice, il canto si disfa in fischio: in quel misero residuo di suono, in quel resto appena cantabile, in quel “quasi niente se non proprio niente”, a una soglia dal silenzio, è la poesia. La preghiera, potrei dire, se ho capito ciò che dice Agostino.
Si pensi a Olivier Messiaen, al poeta che si orienta al fischio degli uccelli e a quello di topi.
“La poesia è stupefatta – come lo è la bestia”, scrive Isabelle. E poi, in picchiata:
“Come l’animale, la poesia è al contempo aperta e chiusa, si rivela all’altro velandosi. Questa opacità della poesia nel poeta è una violenza che forza il poeta a essere occhio aperto dall’interno verso l’esterno.
Questa visione nell’oscurità, questo gesto di serrare le mani intorno agli occhi al finestrino del treno, per vedere qualcosa nella notte.
Non vedo nulla se non accetto di vedere qualcosa; accettare sempre il vedere.
Più dietro: prima della notte, ancora distinte le indistinte cime, quasi nere, confuse col cielo quasi nero, masse scure nell’oscuro, lunghi tronchi scheletrici che serbano uno scintillio ancora blu.
Vedere è questo.
Sforzo, forzare la percezione, addestrarsi.
Fissare lo sguardo ovunque, dentro la notte e vedere le divisioni in atto, che nulla è assemblato, che nulla è mescolato, che tutto è taglio, separazione, messa a parte. La notte non è inerte.
Attraverso i campi con passo cadenzato, quasi di danza, con zampe che sfiorano appena la neve, le altre che si piegano, leggermente.
Toccare la neve tra rari tronchi scheletrici.
Ho dimenticato dove si trova la tana, la sua forma.
Non so dove vado.
Eppure, senza esitazione, attraverso i campi a passo di danza.
Nella bocca, denti aguzzi.
Se qualcuno mi seguisse, vedrebbe tracce di sangue a terra.
Altri denti mi si conficcano nel pellame.
Vorrei sbranarmi il collo.
Ma l’ho lasciato sulla carreggiata, sono sgattaiolata lungo la porta finestra, ho attraversato il vasto giardino, inoltrandomi nel sottobosco.
Attraverso i campi con passo cadenzato, non mi fermo, sfioro i rari tronchi sottili, neri, il muso è teso, non guardo il cielo, so che è bianco, evito istintivamente i rami, so che sono privi di foglie.
Non c’è tempo per annusare, sono in fuga.
Nessuna traccia, nessuna sagoma, la velocità e la corsa mescolano alla saliva il sapore del sangue.
Il Nord mi chiama, fuggo verso il polo.
Evito le trappole, che intuisco da quell’odore metallico, trovo un sentiero.
Al limitare della foresta, mi fermo: odore del vento, vado veloce, seguo la sera che traccia una profonda fenditura nel cielo, salto oltre il fiume.
Entro nella notte”.
Da ciò che leggo, Isabelle Baladine Howald, nata nel 1957, vive a Strasburgo. Pubblica, per lo più, per le “éditions isabelle sauvage”: l’ultimo libro, uscito all’inizio del 2024, s’intitola M, ne diamo qualche traccia in calce, insieme a barlumi da altri testi, Fragments du discontinu (2020) e Hantômes (2016). Per le Éditions Jacques Brémond ha diretto la rivista “Anima”, ha pubblicato diverse placche, tra cui Les états de la démolition (2002). Poesia dura, frugale, furtiva, la sua, intesa, forse, a rintracciare l’infanzia del linguaggio – la sua andatura ferina.
Conosco Isabelle perché è stata citata da Denise Desautels, poetessa di Montreal, che leggo nella bella traduzione di Maura Baldini. Di questo lascito di tracce sul poco più che neve che è la poesia – fanghiglia su cui è ormeggiata la massa fossile, la torcia –, forse, conviene vivere. Il resto è caracollare tra carcasse.
***
Isabelle Baladine Howald
Breve discorso sul furtivo: una poetica
Amo ciò che è spezzato nel profondo
forma – nel profondo – esclusa – dall’effusione della poesia
al punto che – ora – credo stop – cesura – disarticolazione in ciò che scassa la lingua a (stretta) condizione che non si usi artificio nessuna facile faciloneria nessun falso silenzio o falso vuoto
fantomatica questa parte lasciata a gocciare senza che alcuna parola sia detta con o senza interruzione (bagliori, a balbettio)
“Resti del canto” che assumono con perfezione il compito
impossibile da svolgere
in una sorta di vagolante distrazione con un preciso punto di osservazione (sotto le fronde, rado scintillio di acque etc.)
in superficie: minuti eventi, sorprendenti distanti fuggiaschi
il resto mi serve: scintille di vetro concavo, lo scintillio di una fessura, lo sciabordio della menzogna in tutto ciò che diciamo (questo tenue luccichio d’acque) limo cocci scintillanti nella tua iride
questo è il residuo dello sguardo o il residuo del dettaglio
(Fascino per l’indeciso, per l’indistinto, per l’impreciso, la cosa che si mostra a intermittenza in questo breve spazio così grande lo sforzo e la fatica)
Tutto ciò a cui dedico il mio tempo al posto di scrivere mi aiuterà a condensare il materiale quando verrà il momento e provocare una sorta di mareggiata
Ti leva il fiato, diffonde sentenza affusolata perché l’implacabile passi (l’ombra il dono il sogno) finché i muscoli non si contraggono
Ciò che vidi – l’esteso esistente – ha toccato talvolta il pensiero
Rude sfida dove la distrazione non promette certezza d’incontro
Così spendo il mio poco tempo a scrivere ma immobile, vedo, sento, cado paura tremore
fisso i pochi libri le poche poesie con distacco
di tutto ciò che ho visto resteranno due o tre immagini
sulla mia retina – anni di immagini scintillanti
Questi ultimi anni dalla morte di mio fratello ad attendere che la bestia passi è possibile, insieme vedremo calare la notte, osservare ciò che non saremo mai certi di aver visto – questa è stata senza dubbio la mia principale preoccupazione
la stessa cosa come cesura bordo margine l’aiuola su cui mi chino
rapida presa della furtiva (momento di sospensione) immagine che passa!
veloce come magra belva o lenta come pingue bestia con i piccoli
questa forma è sempre stata per me (osserva) la forma dello sguardo o la sua assenza
meravigliata dal moto vedo solo sfaccettature e gradazioni (nessun ingresso) altrimenti devi mutare poeta (e bagliore)
dalla Dickinson a Mallarmé, da Trakl alla Achmatova e Mandel’štam da Celan a Sebald o miei amori e ancora
vicolo cieco – scatto notato tra la neve nella neve cesura e fluidità Ed è tutto ed è così poco, ora.
*
Io – corro alla morte
(avanza senza fine la scena d’addio, io – corro presso – mani e braccia tese aperte pro/contra)
Non voglio che inizi il giorno non voglio che il giorno sfiorisca con la morte penso no, nessun pensiero ma mettere alla prova l’alba con la sera
Rivelare, rivelare Non rivelarti. Eppure, rilevare: sopravviviamo come / i due estremi –
vai – chiudi questi occhi dolci / – non so nulla – io / comando – continuo / e tu vivrai – domandandoti come si vive con chi lavora nella foresta – lui che decapita gli alberi e raccoglie la loro saliva – con il mietitore d’erba e il fotografo o il pittore, con quello che ascolta e con quello che parla, con quello che ride fino a lacrimare nella foto o con quello che si tiene la testa tra le mani – quello delle figurine. Con il piccolo morto. Il santino morto. Ricorda quelli con cui hai vissuto, con cui mai hai dormito
e divenni il cavallo ferito
*
Serbo chiara la pelle il mio mantello d’ermellino la mia cotta di maglia per tessere ali a tuo fratello aggrappato ai miei capelli che cadono dalla torre e partiamo insieme le nostre sorelle ci attendono nell’altro castello il terreno sarà il più trasparente al mondo per i nostri cuori danzatori che volano via presso gli alpeggi per le bestie dalle belle corna e la vetta dell’eco il muro rovinato dai rovi precisamente spalancato ai nostri passi
*
Non crederai a ciò che ha detto
che l’inganno è alla base di tutto del primo amore prima abortire poi maritarsi prima il bambino non nato poi quattro sola realtà blocco d’amore
non sapremo mai esattamente il numero dei bambini come mai sapremo il numero delle femmine nelle braccia del marito per proteggerle dalla madre morta presso l’infanzia
m che non voleva vedere m mai
mangialo sì lui e tutti noi
*
Paura di non piangere quando m perirà paura di quando morirà paura di soffocare per il troppo ridere gole tagliate ci dicemmo balleremo a quel ritmo sulle tombe il fratello è morto – viveva tuttavia come una copia di m – e tre sorelle nel giardino stanno
paura di odiare i vecchi muri gli scuri blu e il tiglio
cerca di non dimenticare i cembali di ferro per l’acqua cerca di dimenticare i tiepidi delicati dolciumi
mia bocca beghina balbetta
m è m
*Le immagini in copertina e nell’articolo sono tratte da: Carlo Ruini, Dell’anatomia et dell’infirmità del cavallo, 1598