Firma irriverente del “Giornale”, tra le più audaci e indisciplinate del nostro giornalismo, Luigi Mascheroni in un panorama ossequioso e ampolloso, fatto di conformismi e di ortodossie appare come una fortunata eccezione; una sorta di Clint Eastwood nella Hollywood liberal del giornalismo italiano. Tagliente e lucido, acuto e spigoloso, Mascheroni è tra coloro che hanno saputo coniugare meglio all’attenzione concreta per la realtà, il gusto letterario per il racconto, incarnando uno stile capace tanto di commentare, in maniera aguzza e lucida, quanto di narrare, con intelligenza e fantasia (in uno scenario giornalistico che di rado è in grado anche solo si comunicare). Delineando un’immagine un po’ corsara, da “Diabolik” dei libri (lui, che di volumi ne ha oltre 20mila), un po’ cinica, per la sua irrefrenabile passione per la demagificazione e l’affondo verso i luoghi comuni del mondo culturale (e cinematografico) e i suoi “insopportabili” (dal nome di una sua prussica rubrica) ierofanti. Una vocazione controcorrente, senza retorica o ambiguità, che è la cifra anche del suo ultimo testo, una summa degli scritti e delle testimonianze dell’avventura di Montanelli al “Giornale”, di cui è curatore e “presentatore”, in cui mostra non tanto il Maestro o il mito, quanto il Direttore e il giornalista. Operazione difficile in un contesto tanto incline a facili adorazioni e rapide condanne, come quello italiano.
In quei vent’anni al “Giornale” Indro Montanelli si è rivelato una figura chiave dell’opinione pubblica di ispirazione conservatrice, fondando un giornale che dava voce a chi non l’aveva – l’area liberale, conservatrice, borghese, che non si riconosceva più in un “Corriere della sera” che aveva virato troppo a sinistra – mettendo insieme una redazione d’eccellenza, con grandi firme, grandi inviati e una redazione Cultura di straordinario livello, e scrivendo articoli polemici e anticonformisti che hanno inciso profondamente nel panorama giornalistico italiano. Portando avanti un’idea di giornalismo senza bandiere, ma sempre schierato, libero per istinto, controverso, conservatore, “contro” per intima natura, in qualche misura anarchico, piratesco, corsaro. Un’esperienza cruciale che in occasione dei 50 anni dalla fondazione del “Giornale” l’editore Rizzoli ha deciso di riscoprire e commemorare pubblicando un’antologia dei migliori testi di Montanelli di quegli anni: editoriali, elzeviri, pezzi di colore, la celebre rubrica “Controcorrente”… A me hanno chiesto di scrivere un testo introduttivo per inquadrare e raccontare l’avventura di Montanelli al “Giornale”. Montanelli, infatti, nonostante alcune sue posizioni controverse resta uno dei grandi nomi del giornalismo, e del giornalismo di destra in Italia, oltre che una figura centrale della cultura liberal-conservatrice italiana.
Che legame aveva con Montanelli e che ricordi ha di lui?
Non l’ho mai conosciuto, mai lavorato con lui e mai avuto il mito di Montanelli. Sono arrivato al “Giornale” nel 2001 quando lui era già tornato al “Corriere della sera” da un pezzo. Mai vantato di essere un suo discepolo; però ho conosciuto molti suoi amici, detrattori e collaboratori, e ho letto quasi tutto di lui, su di lui e contro di lui. È proprio per questo che la nipote di Montanelli mi ha chiesto di curare la storia dell’avventura di suo nonno al “Giornale”. Uno sguardo terzo che mi ha permesso di tornare su quella stagione del nostro giornalismo italiano e della vita di Montanelli celebrando lo scrittore e il giornalista; e non il mito, l’idolo, il maestro. Così da mostrare il suo lavoro senza cedere alla retorica.
Che immagine emerge di Montanelli?
Montanelli è un uomo che ha indirizzato e cambiato la scena giornalistica in maniera profonda. Nonostante diversi momenti della sua vita e della sua carriera giornalistica non possono essere esenti da critiche, la sua capacità nel superare le posizioni più scontate e andare oltre i facili conformismi è la grande lezione che ci ha lasciato. Dimostrò di essere moltissime cose, cambiando posizioni e idee, ma restando sempre se stesso. Fascista, frondista, poi incarcerato dai fascisti, poi principe del “Corriere della Sera”, quindi la fondazione del “Giornale” e la gambizzazione nel 1977 da parte delle Br; e non solo: dopo essere stato il faro per vent’anni della destra conservatrice italiana, rompe con Silvio Berlusconi e diventa la bandiera dell’antiberlusconismo, osannato alle feste dell’“Unità”; per poi tornare di nuovo al “Corriere”. Ma nonostante questi cambi di campo è sempre stato un uomo solo contro tutti che ha combattuto le proprie battaglie con coraggio, cinismo, furbizia, intelligenza, ma soprattutto con indipendenza. Rimanendo sempre fedele solamente ai suoi lettori e alla sua firma. Ciò che dovrebbe fare ed essere, nonostante tutte le difficoltà, ogni giornalista.
Dopo che la statua che celebra Montanelli a Milano è stata imbrattata per l’ennesima volta ha fatto una proposta polemica: lasciarla così com’è, sporcata dalla vernice. Perché?
La statua è stata imbrattata più volte. Nel 2012 fu rigata con della pittura rossa. Nel 2019 con della vernice rosa. Nel 2020 con il colore rosso, poi con quello viola. I motivi che hanno portato a questi atti nel tempo riguardano i suoi trascorsi nella guerra di Abissinia e il famoso episodio della sposa-bambina, ossia la relazione che Montanelli ebbe nel 1935 con una ragazzina eritrea. Non si è mai capito lei quanti anni avesse (dodici? quattordici?), come si chiamasse (Destà? Fatìma?) e se sia esistita o no. Il fatto che l’unico a raccontare la storia sia stato proprio Montanelli fa sospettare che tutto sia nel migliore dei casi un’invenzione, nel peggiore una montatura; probabilmente si trattò semplicemente di una boutade detta con un po’ di machismo tipico di quel periodo. Ora, per anni abbiamo provato a spiegare che anche semmai fosse vero, l’episodio andrebbe contestualizzato rispetto al tempo e al luogo in cui accadde e non dovrebbe in nessun caso invalidare la sua grandezza come giornalista. Le accuse di colonialismo, fascismo e sessismo devono essere inquadrate in quel tempo e spiegate… Anche perché se dovessimo fare una statua solo agli uomini moralmente integri – e non invece a chi ha dimostrato di essere un grande artista, scrittore, politico, scienziato o giornalista – non faremmo statue a nessuno… A chi vuole cancellare quella statua abbiamo più volte spiegato che il passato va studiato, capito, contestualizzato. Niente da fare. Il male non cresce mai così bene come quando nasce da un’ideologia. Allora la mia proposta è stata questa: lasciare per sempre la statua così com’è, sporca, così da celebrare allo stesso tempo un grande giornalista e la stupidità di tanti piccoli imbrattatori. Anche loro si meritano un monumento…
Anni fa Lei ha pubblicato un “Manuale della cultura italiana” che è un po’ un’esegesi dei luoghi comuni degli intellettuali, dal fascino flaubertiano. Che cosa è cambiato da allora?
Quando scrissi quel manualetto, nel 2010, raccolsi luoghi comuni, falsi miti, frasi fatte, formule e liturgie del mondo culturale italiano con tutte le sue banalità, ipocrisie, convenzioni (e convenienze soprattutto). A distanza di 14 anni purtroppo non sembra che la situazione sia migliorata, anzi… Servirebbero solo pochi aggiornamenti, in peggio probabilmente. Il culto verso certi autori, certi libri e certi editori che si ripete acriticamente. Lo scambio di favori e marchette tra scrittori e giornalisti. Le frasi sempre uguali per commentare mostre, libri e film. Il pantheon culturale della destra e quello della sinistra… Tutte cose sempre uguali a se stesse. E che si ripetono anche oggi.
Esempi?
Basti pensare alle polemiche sulla presunta censura di Antonio Scurati, del tutto strumentale politicamente; o l’allarme continuo del ritorno del fascismo nel nostro Paese. Oppure tutti i casi del famoso “amichettismo” di sinistra che fa il paio con “cognatismo” di destra, così come il tormentone sulla egemonia culturale. Il mondo intellettuale è pieno di conformismi, “luogocomunismi”, talk show mediocri, e tante banalità nell’editoria, nei romanzi, nei giornali, nei festival. La cultura è ancora schiava di luoghi comuni, dei pregiudizi e del pensiero facile. Va sempre dove si rischia di meno. Pensiamo al mondo woke, al politically correct, al moralismo da salotto che fossilizzandosi in schemi confortevoli, immobili, compassati, rinnovano sempre le stesse formule. Un salotto asfittico, ripetitivo. Da quando ho iniziato a fare il giornalista negli anni Novanta ho sentito sempre le stesse litanie. Avrò fatto almeno venti Saloni del libro e in nessuno di loro è mancato una figura che gridasse al pericolo fascista. Negli anni ci sono state valanghe di pezzi che gridavano: “Il berlusconismo è peggio del fascismo” o che “Il salvinismo è peggio del berlusconismo” e che oggi inquadra il “melonismo” come l’apice di questa spirale di millantata pericolosità, che ogni anno si rinnova. Una logica per cui ogni governo non di sinistra è sempre il peggio del peggio; e per la sinistra intellettuale al peggio non c’è mai fine. In tanti anni di giornalismo culturale ho notato questo conformismo stantio, questa facilità di luoghi comuni, di buonismo controproducente, che hanno fossilizzato la cultura infestando i programmi dei festival e delle rassegne culturali. Ripetendo sempre lo stesso mantra: il fascismo alle porte, la cultura di destra non esiste, ogni partito di destra è magicamente peggio del precedente, la sinistra è sempre dalla parte giusta. Non se ne esce mai…
Nel 2019 ha curato la mostra “Piccoli tasti, grandi firme” che racconta l’epoca d’oro del giornalismo italiano. Quale crede sia il vero stato del giornalismo contemporaneo e quanto rimane (tra le rovine) di quell’epoca che credeva “anche nella narrazione, forte di quell’antica abitudine che è il piacere di raccontare (e leggere) le storie, e soprattutto le storie ben scritte, che sono da sempre l’anima del giornalismo”?
Il giornalismo che sapeva “raccontare storie”, cioè dare notizie scritte come fossero storie, e facendolo con un’alta qualità di scrittura, con una lingua curata, con i tempi giusti – senza spaventarsi, come invece accadde oggi, se un pezzo supera le 70 righe – con una certa varietà di generi e di stili è ormai di fatto finito. È successo che i giornali, e i giornalisti, hanno progressivamente rinunciato a raccontare il mondo, a interpretarlo e a offrire chiavi di lettura per capirlo, ma – anche per una questione di tempi, spazi e risorse (gli inviati sono sempre meno e i reportage e le inchieste scarseggiano) – spesso si limitano a “dare la notizia”. E troppi commenti. Col tempo si è preferito la quantità e la velocità delle notizie rispetto alla qualità della scrittura della notizia. Si è scelto di arrivare prima invece di raccontare meglio. In questo modo gli editori alla fine risparmiano, anche se alla lunga falliscono; i direttori non sanno scegliere che strada prendere, e tutto rimane com’è; i giornalisti, anche per pigrizia, si adeguano e infine i lettori smettono di comprare quotidiani usa-e-getta. Attenzione però, la famosa “verità” dei fatti non c’entra nulla. Anche quei giornali erano pieni di faziosità, notizie inventate e fake news. Era un giornalismo che aveva gli stessi difetti, approssimazioni, opportunismi e ciclici conflitti con la politica che abbiamo oggi. Però era un giornalismo che sapeva raccontare, rivelare, narrare, “sognare”, prendendosi una pausa dalla corsa irrefrenabile verso il momento e l’attualità, per raccontare sfiorando la letteratura. Una cosa che ci manca molto. Ora questo gusto per il racconto, per la narrazione e il sogno che ha fatto la grande stagione del giornalismo, nella maggior parte dei casi si è perso.
Ma il giornalismo tour court è morto quindi?
Noi possiamo anche cantare la morte o la residualità dei giornali di carta ma non morirà, secondo me, quel ruolo del giornalismo, sanamente d’opinione, capace di inquadrare raccontare e commentare la realtà. Questo anche perché i contenuti della rete, della televisione, delle radio, delle rassegne stampa non esisterebbero se non ci fossero i giornali, che non tutti comprano ma da cui tutti attingono per fare informazione. Un aspetto che conferma il ruolo fondamentale del giornalismo, nonostante tutto ciò che si dice.
La galassia di premi, nastri e statuette sembra sempre più “scusare la cattiva scrittura in nome della cattiva politica” citando Cristina Campo. Che valore ha lo stile? Perché autori dal grande stile del calibro di Picca, Tuena o Magris, per fare qualche nome, hanno meno visibilità di fronte ad autori di pura propaganda o di romanzetti?
Non bisogna generalizzare, ma è vero che spesso ci si aggrappa più al nome dell’autore, alla finalità politico sociale, ai temi affrontati in un romanzo o in un film, piuttosto che allo stile. Pensiamo alle polemiche o alle recensioni del romanzo di Valentina Mira, tra i 12 finalisti dello Strega, sui fatti di Acca Larentia, Dalla stessa parte mi troverai. Non si parla mai di stile (che è abbastanza piatto e banale), di immagini letterarie, di scrittura; ma solo del messaggio politico del libro. E lo stesso articolo scritto dall’autrice del libro su un importante quotidiano per difendersi dagli attacchi dei giornali di destra è qualitativamente sciatto e modesto, ricco di banalità e luoghi comuni. Purtroppo, nella nostra narrativa prevale la logica del cosiddetto impegno civile. Non c’è molto spazio per la bella pagina.
Parlando di cinema, come vede la narrazione filmica italiana? Siamo davvero in un nuovo rinascimento cinematografico di cui molti parlano?
Se dovessimo confrontare la condizione del nostro cinema rispetto a quella della letteratura, il prodotto cinematografico medio italiano è generalmente più ambizioso, anche stilisticamente, di quello romanzesco. Purtroppo però, troppo spesso non riesce ancora ad uscire dalla condizione un po’ provinciale del “cinema da tinello” e dalla commedia regionale che mette in scena le varie Italie che ci trasciniamo dietro da anni e in cui prevalgono le varie sfumature, tutte stucchevoli, della famiglia italiana tipo. Faccio riferimento ai soliti drammi chiusi nelle quattro mura di casa raccontati nella loro dimensione macchiettistica o allo stereotipo della famiglia italiana in una finta coralità in cui tutti litigano e urlano. Però quando si riesce ad uscire da queste formule un po’ esauste, come nel caso di Comandante e Io, capitano, si sa fare buon cinema. Permane tuttavia questa impostazione come in C’è ancora domani, che nonostante una interessante invenzione di scrittura rimane chiusa in queste logiche trite e ritrite, mostrando forse solo un tinello un po’ più triste degli altri. Certo poi ci sono straordinarie eccezioni: Paolo Sorrentino, un alieno, un fuori quota nel cinema italiano; o Garrone e Guadagnino.
Quali sono i suoi riferimenti culturali?
Dal punto di vista stilistico le cose che amo leggere, che mi hanno influenzato di più e da cui non si può prescindere sono quelle che vedono il primato dello stile e quasi muoiono di scrittura; quella che in poesia si chiama la linea lombarda e che si può estendere anche alla prosa. Parlo dei Gadda, dei Testori, degli Arbasino. Autori che hanno inventato una lingua tutta loro, nuova, originale, personalissima; una linea di cui forse l’ultimo esponente vivente è Aldo Busi. Sono scrittori che hanno una capacità di giocare con la lingua, di portarla ai punti di tensione estrema o di rottura in cui la bellezza del loro “linguaggio” perdona tutto. Un esempio nel giornalismo di questa linea è il Gran Lombardo Gianni Brera, che mischiava latino, dialetto, italiano colto e il parlato, creando uno stile unico.
*L’intervista è a cura di Francesco Subiaco e Francesco Latilla