Cresciuto nella città ducale di Parma, Bruno Barilli (1880-1952) pare fosse alto, magrissimo. Oltre al demone della scrittura veloce e frammentaria, a perseguitarlo furono, soprattutto, i debiti e, tuttavia, questi non gli tolsero nulla della signorile compostezza di cui era depositario. Critico musicale, scrittore di viaggi, egli era tutt’uno con il suo stile. Quello della cosiddetta “prosa d’arte”: una stagione segnata dall’esperienza de La Ronda, la rivista letteraria che annoverava firme del calibro di Emilio Cecchi, Vincenzo Cardarelli, Alberto Savinio e, appunto, il nostro Barilli (molti altri vi parteciparono, non meno importanti). Quasi una corrente vera e propria della letteratura nazionale, collocabile tra le due guerre, animata dalla volontà di un deciso ritorno all’ordine, specie dopo la buriana devastatrice dei futuristi. Insomma, di ridare credito alla tradizione, rifacendosi all’esempio di Leopardi e Manzoni, per citare i veneratissimi maestri di un’Italia politicamente appena compiuta.
In queste brevi cronache dalla ville lumière c’è il Barilli vagabondo, il più etereo: dalla pittura di Jean Lurçat e Giuseppe Stella al teatro dei Campi Elisi; dalle strade di Montparnasse al varietà dei Black Birds passando per caffè, concerti e angoli di una città «dove ogni certezza va a picco». Rispetto all’altra occupazione, quella di critico musicale, in cui competenze e orecchio gli suggerivano una maggiore messa a fuoco (notevole il suo Il paese del melodramma, per capire Verdi e l’Italia), qui è tutto un girovagare inseguendo sensazioni. Atmosfere che l’occhio attento acciuffa e l’ingegno racchiude in periodi cesellati fino alla virgola, per poi andare in stampa su qualche periodico. In questo caso la rivista Bifur, fondata da Nino Frank (già collaboratore di 900 di Massimo Bontempelli) e Ribemont-Dessaignes, per la quale Barilli ebbe il titolo di corrispondente italiano proprio da Parigi.
Date le condizioni in cui versava, fu la sua salvezza economica. In cambio,
«egli assolse alla mansione con zelo; ammirava la rivista e i nomi che vi scrivevano, palpava la carta e quando usciva un nuovo numero l’accarezzava come fosse cosa viva, anche se poi non lo leggeva».
Qual è, dunque, il ritratto della capitale che emerge da queste pagine? Quella di una qualsiasi metropoli moderna, disordinata e dinamica sempre sul punto di implodere. Dove ogni uomo sfrutta sé stesso con il solo scopo di
«creare, ogni dì, la modernità, per ringiovanire la vita, per reintegrare le illusioni cadute, le speranze avvizzite, per utilizzare e rendere innocua l’eternità».
Solo che, talvolta, il presente suscita più che altro smarrimento rispetto ad un tempo ormai sepolto. Come nel caso del Moulin Rouge, che Barilli stenta a riconoscere, tanto è cambiato negli ultimi anni. Cos’era successo a quel simbolo di perdizione, già teatro dell’osceno can-can?
«C’era passata la guerra, la febbre spagnuola, poi s’era abbattuto il fuoco bianco, la nevicata leggera e diaccia degli stupefacenti. L’amore al suo apogeo s’era gelato là dentro».
Lo stesso luogo che aveva acceso le ribollenti fiaccole di un tempo liberato dalle normative borghesi adesso si era ridotto a triste e mediocre vetrina per il cliente occasionale.
«Il piccolo ceto trionfa. Gli approcci sono cauti, i contatti prudenti; si balla per fare un esercizio igienico».
Fortuna che certi richiami giungono da altri palcoscenici che destano nell’autore emozioni da gran scoperta. Dinanzi all’edificio dell’Opéra, il crollo emotivo dell’autore è un tributo alla passione che lo consuma. Superati i croupiers, imboccate le scale e i corridoi si arriva non solo a destinazione, ma nel cuore di Barilli stesso.
«Nessuno potrà dire l’insistente turbamento che dà la musica in questo luogo memorabile, popolato e fastoso. Una ricchezza pesante e ravvolta di colori indistinti quieti si coagula all’intorno. Forme gelide dai riflessi misteriosi nella torrida semi-oscurità guizzano irretite nel vasto sogno musicale, come mosche iridescenti e innumerevoli, prese in una immensa tela di ragno».
(Sempre all’amore per la musica sono dedicati i capitoletti su Giacomo Lauri Volpi, tenore famosissimo nella prima metà del Novecento, e Alfredo Casella, «il più stonato e il più placido dei nostri compositori, l’apostolo, per così dire, della nota falsa, il più pedagogico dei fumisti e fra tanti futuristi, avveniristi, dadaisti, dinamisti, il più intossicato e più angelico di tutti»).
Le osservazioni di Barilli, forse lo si è capito, sono il frutto di una scrittura al riparo da ogni ideologia.
Il risultato, semmai, di una incessante moltiplicazione di particolari utili a colorare l’immagine nel suo complesso. Per questo motivo la scenografia più congeniale al suo stile possiamo rintracciarla nello straniante museo delle cere Grévin, che l’autore non esita di prendere a modello per riflessioni tanto sul tempo quanto sulla natura degli uomini. Moltissime le glorie eternate in questo spettacolo morboso: primi ministri, attori americani, il bambino protagonista di The Kid al fianco di Charlie Chaplin, presidenti della Repubblica e altri ancora. Celebrità in “galera”, senza nemmeno la soddisfazione di potersi muovere:
«le statue in questa pensione conservano il loro atteggiamento per dei mesi e dei mesi, magari per degli anni, finché viene il momento di sparire in cantina o nel solaio».
Anche se non si escludono tragedie notturne: chissà «quante rivalità e odii si scatenano quando il Museo si chiude. È lecito supporlo: vociferazioni, lamenti, strida, da far gelare il sangue».
Per quelli che rimangono immobili, infine, c’è chi non rimane fermo neanche un momento. Nelle pagine in cui l’autore si dedica alle differenze tra le due lingue, quella italiana e quella francese (chiaramente un pretesto per dire della distanza tra due popoli e modi di pensare), è proprio la prima a scappar via da ogni parte, irriducibile com’è ai soli meccanismi grammaticali. Secondo Barilli l’italiano «fugge i ragionamenti e cerca la melodia». Mentre l’altra è fatta di sfumature, questa è piuttosto a una dimensione. Una superficie nuda, la definisce. Che l’unica capacità di fuggire dalle rigide costrizioni risieda proprio nell’esplorazione di quella superficie? Domanda oziosa, e senza risposta. L’italiano, precisa un attimo dopo: «è la lingua della sibilla che rifiuta di spiegarsi» e se questa non è una sentenza definitiva, poco ci manca.