Tra le preziose incastonature che arricchiscono il Malte di Rilke, ovvero quei consigli di lettura da seguire come briciole, per sbattere contro i dettagli che contano dell’opera di uno dei più grandi del ’900, ritroviamo l’accenno alle memorie – rimaste sepolte per circa centosettant’anni – di una nobile danese del ’600, Leonora Christina Ulfeldt che, nel Jammers Minde, ci racconta gli anni della sua reclusione nella prigione del castello di Copenaghen, chiamata la Torre Blu – da cui il titolo della traduzione italiana Memorie dalla Torre Blu (Adelphi, 1971). Tra sorci e larve che scorrazzano su un pavimento di escrementi, in un inoperoso andirivieni di preti, carcerieri, prigionieri spaventati dalla libertà, donne di compagnia infanticide e serve ubriache, tutti ammassati e ammalatisi nell’insana aria di prigione, per il buio e la fame, si muove, al centro dell’opera di maggior pregio del ’600 danese, una distorta allotropia del mondo.
La scelta di questo soggetto da parte di Rilke è in linea con il suo essersi perso a più riprese, sia nella vita che nel suo romanzo, nelle trame nordiche e nella sua proverbiale smania aristocratica, che lo portò ad attribuirsi immaginarie nobili origini. I motivi dell’invenzione della sua ascendenza blasonata si ritrovano nel suo desiderio di abbarbicarsi ad una trama fitta e compatta di esistenze indelebili, nella brama di rivendicare una memoria inalterabile e indeformabile, così da tenere un panno sugli occhi della morte e palesare un retaggio solido, fino a scolpire il tentativo sulla lapide e mostrarlo a tutti con uno stemma.
Ed è l’attaccamento a questa concezione di memoria, come qualcosa che supera il limiti del ricordo individuale e diventa masso erratico degno di riverenza, che induce Rilke ad ammiccare, sebbene di sfuggita, al personaggio di Leonora Cristina. Essa è la figlia di Cristiano IV, la «incomparabile» Eleonore sul suo cavallo bianco, raffigurata nel Malte in un quadro della galleria di Urnekloster prima di cadere in disgrazia, prima dei ventidue anni di carcere e prima della stesura del suo diario.
La vera storia della nobildonna è in realtà nell’antefatto della propria opera, in tutto quello che la donna vive prima di scrivere. Il declino di una famiglia nelle grazie del re Federico III, il brusco avvitamento della loro privilegiata condizione, i folli intrighi del marito demente che lo spinsero a congiurare contro il re, segnarono il destino della donna. Da regina della mondanità di corte Leonora Cristina si conquistò il ruolo di regina dei porci, signora della Torre Blu, ma sempre facendo del pudore una bandiera della sua condizione.
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Il compito di portare il carico delle colpe del marito, negandole fino alla fine, è svolto grazie alla profonda e radicata consapevolezza del suo ruolo di donna, senza mai pronunciare la parola amore, che pur è sottesa. Nei confronti del proprio genere la Ulfeldt portò avanti una vera e propria lotta contro le prevaricazioni, contro l’idea diffusa di donna come essere fragile nello spirito e nel corpo, lavorando ad una raccolta di biografie delle donne più famose della storia della cui stesura ci parla anche nelle Memorie: «Presi nota e tradussi in danese dei passi in cui si parlava di donne di vario rango e nascita, che i diversi autori celebravano come donne intrepide, fedeli, caste, sagge nel governo delle cose, costanti, pazienti e piene di dottrina».
La tenacia nel sopportare la propria condizione, si tramuta in approccio sovversivo alla reclusione, diviene un graduale appropriarsi del marcio ambiente, in cui, così come fuori, si svolgono, più rabbiosi e animaleschi, gli stessi intrighi della corte. Il nobile candore maschera il tentativo di circuire i suoi avversari, che porta Leonora Christina ad accaparrarsi concessioni e privilegi anche all’interno del carcere stesso; tra queste concessioni proprio quella di poter scrivere le proprie memorie, come una lunga favola raccontata per i figli e per il re stesso, a testimonianza della propria (presunta) innocenza. L’interiorizzazione di questo mondo conduce – non solo Leonora Christina – ad un insolito e malato attaccamento verso l’opposto dell’idea di libertà, come dimostra la vicenda di Christian, il prigioniero ribaldo e miscredente che, una volta divenuto libero «lo trovarono morto in mezzo ad un campo. Tutto lasciava intendere che si era ammazzato, perché gli trovarono una lunga carabina tra le gambe, con la canna rivolta al petto e in mano aveva un lungo bastone che gli era servito per premere il grilletto». La stessa Leonora Christina, ritrovatasi sola dopo la scarcerazione, opta per la reclusione nell’antico convento di Maribo, in cui passerà i suoi ultimi tredici anni di vita; una riprova del fatto che ella non potesse più fare a meno di quelle strette mura che erano ormai parte integrante della sua persona. A tal proposito ricordiamo le parole scritte ai figli dopo undici anni di prigionia: «patire il carcere senza colpa non umilia, ma esalta l’onore di una persona».
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Nella stasi della galera, l’unico “personaggio” mobile sembra essere la provvidenza; Dio resta l’unico ponte con l’esterno. La fede, duramente messa alla prova ma mai incrinata, contribuisce non solo a concedere speranza ma a esautorare la Ulfeldt da ogni brama di vendetta. È il Signore che agisce per lei, come un regolatore di conti, e la donna vuole dare atto di questa vicinanza dell’altissimo sia a noi che ai suoi figli con un macabro elenco numerato di tutti coloro che, coinvolti nella condanna, sua e del marito, sono morti in circostanze tragiche e pietose, secondo una strana legge del contrappasso. Chi l’aveva con le mani frugata nell’intimo prima di condurla in cella adesso era maneggiata invano dai cerusichi per tagliarle e bruciarle le pustole della malattia che la condusse comunque a morte. Chi l’aveva segnata con sguardi di cattiveria era stato strappato alla vita mentre si trovava in una latrina e trovato esanime dalla servitù. Chi si compiacque della sua sorte, e aveva vissuto facendosi scherno di Dio, lasciava questo mondo bestemmiando sul letto di morte in preda alla follia.
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Recuperare la storia di Leonora Christina Ulfeldt, così come ci suggeriva di fare Rilke, è conservare uno scorcio di epica moderna, è avere sullo scaffale di casa il vero racconto di un’anima a noi lontana che è stata capace di elevarsi lì dove, di solito, avrebbe vinto chi puntava verso il basso. «Insomma, il carcere conduce al cielo».
Maurizio Allegretta