
“Adoro andarmene”. Ritratto di Blaise Cendrars
Letterature
Marco Settimini
Siamo qui lontani da Uomini e topi di Steinbeck, da La peste di Camus, due allegorie degli uomini presi in trappola, e pure – e quanto! – dal famoso caso clinico del freudiano “Uomo dei topi”, e più vicini forse a un sogno fiabesco, quello de Il pifferaio magico dei fratelli Grimm, non fosse che qui, quale che sia stato il facilmente intuibile destino dei piccoli ratti di cui è questione, siamo di fronte a un pifferaio di se stesso, Henry de Monfreid, di cui vogliamo offrire una lettura nella sua veste di poeta, meno nota di quella di romanziere, giornalista, epistoliere, scrittore autobiografico e d’avventura. Una poesia tra il biografismo e l’epico, il gioco e lo psicologico, il trasognato e l’ironico, non la magìa bensì la malìa del viaggio come ricerca di un aldilà (?) mondano sempre differibile nella realtà (?) o con l’immaginazione. Una poesia mai tradotta…
Per scoprire chi fosse Henry de Monfreid, “L’incredibile” secondo Daniel Grandclément (Grasset, 2000), “Il corsaro nero” e “l’ultimo avventuriero” secondo Stenio Solinas (Neri Pozza, 2015), ci sono queste due biografie d’autore. Un uomo, Monfreid, la cui vita, dai prodromi non meno avvincenti, fu avventurosa quanto i romanzi che scrisse a decine, in accordo con un fato che lo fece salpare verso i porti del Pireo, delle Indie, e soprattutto del Corno d’Africa. Sulle tracce, va detto, più di se stesso, delle Sirene che aveva nella sua mente, nel suo cuore, quelle della libertà[1], che non di quelle di un famoso predecessore, il fanciullo “veggente”, Rimbaud, a sua volta scrittore e commerciante. Ma il quale, diversamente da Monfreid, fu prima scrittore e poi commerciante. Mentre fu entrambe le cose a un tempo, il magro e baffuto navigatore del sud.
Pubblicato sul Courrier des Messageries maritimes, n° 110 del maggio-giugno 1969, con una forma quasi da semplice calligramma che qui non è possibile riprodurre (la prima e la terza parte come due onde), poi ripreso nella seconda sezione, dal significativo titolo Sequenze di vita senza collare, di Vivre libre, volume antologico (Grasset, 2018), il poemetto di Monfreid, Mon premier grand voyage, narra un episodio che ebbe luogo a La Franqui, nella regione dell’Aude, sua terra natale, agli inizi del decennio conclusivo dell’Ottocento, quando il futuro scrittore viaggiatore era allora un ragazzino, “veggente”, verrebbe da dire, del suo proprio futuro di pilota contrabbandiere d’hashish tra il Mediterraneo e il Pacifico – a partire da un transfert su una nidiata di bestiole, certo poco gradevoli, ma innocenti, lanciate Cers[2] in poppa in un piccolo stagno.
[1] La libertà, un concetto che per l’autore di Charas – La Cargaison enchantée, convertito alla religione islamica, fondamentalmente agnostico ma affascinato dal Credo quia absurdum, non era certo quello dei rivoluzionari giacobini.
[2] Il Cers, el cerç in catalano, ricorda lo stesso Monfreid, è il nome di un vento del posto, a volte fortissimo presente tre giorni su quattro, vento di pianura, delle zone interne dell’Occitania, ed è il più antico nome di un vento francese.
Marco Settimini
Henry de Monfreid, Il mio primo grande viaggio
Ero giovanissimo,
era tanto tempo fa,
prima della fine del secolo scorso!
Alla fine delle vacanze,
dopo la partenza dei miei amichetti,
mi sentii triste
senza darmene ragione.
Senza dubbio, inconsciamente
già a quell’epoca,
sognavo
di andarmene oltre quest’orizzonte
che mi chiamava attraverso
il muro invalicabile
delle convenzioni, degli obblighi
e delle esigenze scolari.
Tentavo sì di non udirlo,
in buona fede mi ci sforzavo,
come se quel richiamo fosse stato quello
delle tentazioni colpevoli.
Ma era il canto delle Sirene…!
Oggi il ricordo di una piccola peripezia mi rivela l’incantesimo che,
venticinque anni più tardi, doveva rompere tutte le dighe
e orientare il mio strano destino. Fu in qualche modo il mio primo grande viaggio.
Un mattino, il Ramonet, tutto fiero, venne a mostrare a mia madre una nidiata di ratti
presi la notte in una nassa. Emozionato dalla sorte di
quelle bestiole che stavano per bruciare
per via del crimine d’aver rosicchiato delle patate,
mi offrii di eseguire
la sentenza, non col fuoco, ma con l’elemento opposto.
Ovvero l’acqua. Intendo dire che li avrei annegati
nello stagno…
Mia madre ebbe un impercettibile sorriso nel vedermi partire
così allegramente per quella missione patibolare.
Aveva paura dei topi,
ovviamente, come tutte le donne, ma amava troppo
le bestie per rallegrarsi del loro supplizio.
Serbò dunque il silenzio, avendo intuito.
Io avevo immediatamente immaginato un modo per evadere,
innanzitutto per me, sulle ali d’oro
dell’illusione, e a seguire per i miei poveri ratti
che stavo per lanciare
in una prodigiosa avventura che potevo seguire col pensiero.
Avevo raccolto sulla spiaggia, nella mareggiata dell’equinozio,
una grande placca di corteccia di quercia da sughero
di circa un metro per cinquanta centimetri.
Quel magnifico galleggiante sarebbe diventato una nave perfettamente insommergibile.
Fissai una cassa rovesciata accumulandovi
patate, carote e angurie,
in una parola una riserva di cibo che avesse in sé il po’ d’acqua
necessario a dei roditori. Aggiunsi dei biscotti e dei dolcetti
che la mia inclinazione all’antropomorfismo
giudicava gradevole ai ratti.
Non dimentichiamo
che quei ratti mi
rappresentavano:
preparavo così la mia “crociera”.
Un piccolo albero solidamente sorretto
e una vela quadrata completaron l’equipaggiamento.
Non senza fatica,
in mezzo allo stagno
per evitare qualsivoglia evasione
travasai i prigionieri, i quali, ignorando l’avvenire,
si ribellavano contro il loro salvatore.
Gli uomini assai spesso agiscono ugualmente.
La cassa-cabina
aveva una piccola apertura
per permettere ai passeggeri
di uscire quando avessero toccato terra,
perché non dubitavo che l’Arca
giungesse senza intoppi in Africa.
Il vento che regnava da nord-ovest l’avrebbe portata
vento in poppa… Quando…? Sì, appunto, quando…
Ma poco importa a coloro che se ne vanno
verso la libertà, soprattutto verso l’Africa assolata,
i deserti, la foresta vergine, con le gazzelle,
gli elefanti, i leoni, i negri…
Il soffio poderoso del Cers
gonfiò la vela e l’arca filò
rapidamente verso sud.
Corsi a cercare un binocolo per seguire
più a lungo la macchiolina bianca
che portava via con sé il mio più bel sogno,
perché io ero con i ratti,
vivevo con loro ora dopo ora,
ebbro di libertà,
affrancato da tutto,
salpando verso l’ignoto,
l’imprevisto, il favoloso
— verso l’Avventura
come si dice
oggi…
*traduzione di Marco Settimini