Le sette ultime parole di Gesù sulla croce: un’eredità verticale
Sacro
Isabella Bignozzi
“La mia Patria è Ponte di Piave, […] ma sto qui, abito a Roma, all’estero. Perché? Perché così è la vita”, Goffredo Parise, Veneto barbaro di muschi e nebbie
Non bisogna andare in treno a Genova a febbraio leggendo Le stelle fredde di Guido Piovene (Fëdor Dostoevskij ritorna sulla terra; ma non pare abbia troppa voglia di rimanervi…) come fece Guido Ceronetti (che del romanzo del vicentino scrive: “Si resta insoddisfattissimi, eccita e non sfoga”) bensì in direzione Vicenza – magari l’8 dicembre, il giorno di nascita di Goffredo Parise – sulle tracce del romanziere – sfogliando il volumetto Veneto barbaro di muschi e nebbie – o magari di belle vicentine – che si spera scaldassero il cuore del filosofo di Alessandria; grave del suo stesso spleen:
“A Vicenza, se non si vede Palladio, non si sa proprio che cosa fare.”
Città dalle candide e bionde fanciulle – come il marmo locale, come il vino prosecco – è la Vicenza di Parise, che vi nacque e visse fino ai diciott’anni, prima di trasferirsi a Venezia, Milano e Roma, e di girare il mondo (come i conterranei Comisso e Piovene: i veneti sono a un tempo venetisti e cosmopoliti) fintanto che la curiosità, l’irrequietudine e l’energia lo hanno mosso come mossero san Marco tra Cipro, l’Egitto e Roma, e Marco Polo tra Venezia e Cina, senza tuttavia mai sradicarlo dalla sua terra (ogni veneto è sì cittadino del mondo; ma ogni altra terra “è terra straniera e forse ostile”), rispetto alla quale come tutti i veneti è concreto, deciso e schietto, e decisamente ragionevole, nella sua nozione di Patria e d’identità: “Il Veneto è la mia Patria. Dò alla parola Patria lo stesso significato che si dava durante la prima guerra mondiale all’Italia: ma l’Italia non è la mia Patria e sono profondamente convinto che la parola e il sentimento di patria è rappresentato fisicamente dalla terra, dalla regione dove uno è nato. Sebbene esista una Repubblica Italiana (?) questa espressione astratta non è la mia patria e non lo è per nessuno degli italiani che sono invece veneti, toscani, liguri e via dicendo. L’Unità d’Italia non c’è mai stata nonostante la “Patria” del Risorgimento, della prima guerra mondiale, della seconda e della costituzione in cui viviamo”.
“Questo sono le nuvole del nostro cielo…”, gli disse un giorno l’amico Comisso “sulle immense ghiaie infuocate del Piave”, laddove agli imbocchi dei vari ponti ebbe a leggere la scritta “Fiume Sacro della Patria” e non poté interpretarlo se non nel senso più giusto e vero e buono, ovvero il Piave – meglio la Piave – il fiume veneto – sacra per ogni figlio di quella terra per motivi ben diversi da quelli della retorica greve e nazionalista degli occupanti italici nutriti di bellicismo e falsi miti, e con nelle mani il vessillo straniero che simboleggia l’Unità risorgimentale il cui esito è l’entità, detta Italia, che per Parise se non è un qualcosa di astratto è in concreto il ricettacolo del peggio delle terre, delle regioni, delle città della Penisola.
Simbolo di guerre e tragedie continue, di conflitti perenni, di uno stato di crisi permanente e della distruzione della storia, dei popoli, delle tradizioni, per l’impolitico Parise, poco appassionato della politica, tanto nazionale (con annesso il bel punto interrogativo; traccia esplicita del suo dubbio che l’Italia esista) quanto internazionale, insomma non direttamente legata alla sua vera Patria: Patria che è terra in cui affondano le radici dei veri padri; Patria che non è in alcun modo figlia di una falsa retorica; Patria che è spazio vitale a misura d’uomo e non inumana; Patria che solamente a queste condizioni può esser felice; come Vicenza è felice e smentisce un bel titolo parisiano: L’eleganza è frigida, ottimo reportage sul Giappone.
L’eleganza di Vicenza non è frigida, come non lo è quella del suo modello Venezia (“il centro delle mia terra”), di grazia stellare ma non fredda, di una perfezione che non è mai astrazione ma sempre espressione del chimerico spirito veneto che se agli occhi di Piovene ha un che d’orientale a quelli di Piovene appare quasi tropicale: “Le grigie colonne palladiane in lunghe e alte file come d’alberi della foresta malese, la piazza, il passato” che sempre lo incantarono disegnano infatti la magnifica Vicenza “di pietra grigiastra dalle colonne spropositate, che in molti punti sembra finta, fatta di magnifiche ‘quinte’” che ne fanno un piccolo grande teatro che l’Olimpico del Palladio (non di pietra ma di legno) riassume come in una specie di miniatura a sua volta perfetta, con “la solenne bellezza delle colonne palladiane” le quali, nel loro sottile legame con i portici di Padova, con i ponti di Verona e con i palazzi di Venezia è in realtà solo uno dei molti aspetti della regione, segno di un profondo bisogno d’ordine e bellezza, lusso, calma e voluttà, che certo mai entra in contrasto bensì feconda (per esempio con le vigne) “la forza barbarica della terra”, per esserne a sua volta fecondata, nel fertile legame quintessenzialmente veneto tra città e terra che a Vicenza appare in uno dei suoi grandi esempi.
Vicenza città è un palcoscenico in sé (con “deliziosi accenti d’opera buffa”; così Piovene con in mente Fogazzaro e Turgenev), culla di uno dei teatri più belli del mondo e teatro di cinque romanzi di Parise (“la vedevo […] come un teatro in cui si può cambiare commedia ma non scenografia”), nei quali non è tuttavia mai identificata in modo diretto, eppur riconoscibile nelle sue piazze, nelle sue colonne, “lievemente funerarie e grosse come alberi tropicali”, nei suoi scorci, nelle sue vie grigie e umide, altrettanto lievemente coperte di muschi, che non raggiungono la fantasmagoria di Venezia, dove il “cielo che non è soltanto terra […] né soltanto mare” ma una “terraferma che […] è tutte e due insieme e sente sempre comunque il sapore della laguna”, come in modi opposti a Ferrara e Mantova e su certe isole mediterranee, e che a confronto della Dominante resta, come annotava Piovene nel suo Viaggio in Italia, meno gentile e graziosa, meno gentilizia e aggraziata, più umile perché più campagnola, eppur di somma aristocraticità, sintetizzata nel Rinascimento più alto di tutta la Penisola, ossia nel fastoso trionfo della fantasia (il “chimerico” di Piovene) sulla funzione, in colonnati, archi e logge (della Basilica e del Teatro Olimpico; della Loggia del Capitanio, del Palazzo Chiericati).
Piovene ritrovò simili forme in giro per il mondo, da Bath, in Inghilterra, a Charlottesville, negli Stati Uniti (“mi riprende la meraviglia. Il Rinascimento italiano, specie quello più tardo, quando l’architettura obbediva soltanto alla fantasia ed al piacere, ha qualche cosa di chimerico. Ma in nessun luogo, credo, come a Vicenza” – “piccola Roma, un’invenzione scenografica, sorge in un angolo del Veneto, in vista dei monti, della cultura svaporante in capriccio e dalla vanità patrizia d’un gruppo di signori di media potenza e di scarso peso politico”), sprigionate da una piccola città foggiata dalla vita dei palazzi, da uno spirito patrizio che aveva come unica pretesa quella di vivere il proprio sogno, con eleganza compenetrata di ruralità.
È questo – “un pizzico di rusticità”, per dirla con Piovene – anche per Parise a impedire a Vicenza che essa scivoli nella frigidezza. Il colore – “semiorientale” per dirla ancora con Piovene – veneto che va a compenetrare l’“esaltazione neoclassica” della loro città. Da qui l’incanto di Vicenza. Pari a quello della capitale… E vale a dire la Serenissima. Da qui pure la cucina locale. La più raffinata del Veneto… Pur conservando la rusticità.
Così “il baccalà alla vicentina, di qualità sceltissima, battuto a lungo con un martello di legno, messo a bagno trentasei ore; tagliato a pezzetti, cosparso di formaggio e soffritto di burro, olio, acciuga e cipolle; cotto poi a fuoco lento; condito ancora di prezzemolo, pepe e latte; è un vero piatto alla francese. Vi bolle a fuoco lento una civiltà raffinata”, afferma lo scrittore.
Così il Tiepolo negli affreschi mirabili – perché il Veneto ha agli occhi di Parise i colori degli amici scrittori e dei figurativi locali – nelle ville e nei palazzi cittadini “nel dipingere angeli volanti non aveva preso a modello le contessine slavate della città ma le contadinelle rosee e argute della campagna” compenetrando la grazia più provinciale in quella del capoluogo.
La città, come testimonia Parise, non era priva delle tracce olfattive campagnole, “gli odori di polenta […] durante l’inverno uggioso, nebbioso e nordico, gli odori di paglia, di letame, di grano e di fieno durante l’estate”, né di quelle delle acque mormoranti, non soltanto uditive ma autentica sinestesia, “dal sapore e dall’odore di torrente, rane, chiù e cuculi”, e su tutto il suono delle campane, specie quelle della Basilica di Monte Berico.
Dal luogo della “passeggiata d’obbligo di una popolazione abitudinaria”, come scrive Piovene, lo squillo delle campane, “rapido, festoso, lieve”, alle orecchie di questi così diverso da quello ben più grave dei cugini lombardi, e che per Parise fu sempre come una madeleine evocatrice dei giorni della gioventù (“nell’immaginazione mi prende la stessa allegria del mattino di domenica quando, da ragazzo, mi svegliavo al loro suono”), antitesi, nella loro grazia cattolica, ai rombi dei bombardamenti e agli squarci sonori delle raffiche di fucili nel corso di una guerra che portò per la seconda volta in un amen con la forza e con la truffa, nel Veneto italianizzato, fame, povertà, morte e infine gli statunitensi e le tristi farse di un lungo Dopoguerra (“il primo carro armato americano con stella e il dopo, il lungo dopo che si protrae ancora oggi. L’inutile sarabanda del dopo”).
Vicenza consegnata a Torino, Firenze e Roma dopo esser stata distolta alla sua vera capitale, la Serenissima, “il sogno di tutti i sogni”, come per il giovincello quindicenne Abramo che nella Vicenza innominata de Il ragazzo morto e le comete (stelle in Piovene, comete in Parise) non solo freme per la bella Edera, ma anche per San Marco, che non può fare a meno di andare a vedere, lui che mai aveva lasciato la propria città di provincia, se non, “risalendo il canale contro la corrente limpida”, per i borghi vicini; e lo fa, ma con poca fortuna, la prima volta, rimandando molte cose (“porterà il pane per il cigno che nuota nella fontana in mezzo alla piazza”), riaccompagnato a casa da un eterno nottambulo insonne automunito (“‘Ciao, San Marco, vado a casa e no ritorno più’, mormora in un sospiro”), mentre Parise, ben più fortunato del suo personaggio, andrà a viverci.
E ci tornerà con breve scritto rivolto a una coppia, che invita ad arrivare la mattina, ovviamente per via acquatica, e a fare ogni cosa che ci si aspetta da dei turisti, “usando tempi lentissimi”, che l’acqua favorisce, in gondola, in silenzio, contemplando in “un massimo abbandono”, solo di soppiatto e per un breve istante, San Marco (perché tanto muta costantemente…) per poi semplicemente perdersi – o meglio sperare di perdersi – vagando senza una direzione (perché tanto non ce n’è una giusta…) e darsi così alla massima gioia veneziana (“scoprire tutte le non direzioni a caso”) assieme a quella che ne consegue, l’incantamento dei sensi nella flânerie anfibia, magari in cerca del “Mistero”, del “Destino”, del “Mito” come Alberto Arbasino, che osservò, in un impietoso confronto con Amsterdam, l’italianizzazione di Venezia (“una città che sprofonda nell’Adriatico”)…
Non meglio andò a Ceronetti, il quale, abbandonato lo stare, la stasi meditativa della Tempesta di Giorgione si trovò a fronteggiare la decadenza visiva nonché uditiva portata dalle tribù degli italici, o affini o aliene (“In San Marco la banda degli Alpini sta eseguendo tra gli applausi l’inno nazionale; Africani e giapponesi con mostruosi transistors diffondono altra musica. La custode delle toilettes del Florian, accanto al piattino per i soldi, ascolta canzoni napoletane”), ma meglio andò a Parise nei suoi vagabondaggi, estivi e invernali, per calli e pontili, fino alle spiagge del Lido, “dove si è tutti fratelli, sorelle, cugini, zii, nonni”, fino a Jesolo, gustando di passaggio le cappe lunghe saltate in padella, polipi bolliti e chioccioline condite con olio, prezzemolo e aglio, potendo godere di una Venezia, e pure di una Treviso e di una Conca Ampezzana ancora non prese d’assalto.
Di Treviso, Parise amò il suo esser contadina e isola di uno dei più dolci dei “nostri dialetti che conservano ben poco di latino” di cui pure non fu un cultore in senso letterario, apprezzandoli solo parlati in loco (se la sua Patria è stata il Veneto e non l’Italia, la sua Patria linguistica è stata solo l’italiano), con l’eccezione, troppo alta per non ammirarla, della lingua di Andrea Zanzotto, che a suo avviso col Galateo in bosco, “ha raggiunto altissimi gradi di musica perpendicolare, come una sonda conficcata a Pieve di Soligo dai sottoboschi marcescenti di castagni, con i suoi ragni e bisce e vermiciattoli e suoni a mezzo tra vegetali e animali, talpacei, dentro la nostra terra fino al centro del globo a raggiungere fuochi o rose danteschi”.
Della Conca Ampezzana, di Cortina e delle Tofane amò i piccoli borghi sulle vette innevate, i “silenzi gelidi dei picchi nevosi”, la neve (“baciata, mangiata, leccata, carezzata”), i “campanili già austriaci o russi”, le pernici, i caprioli, i camosci “sorpresi e scattanti di muscoli”, e pure l’idea che potessero esistere elfi e coboldi, figli una cultura non latina, in una terra di culture cosiddette barbare, nordiche (“boschive, fungacee, muschiose, gelide”), nate nel verde, nel gelo, nelle brume e come dalla fantasia dei fratelli Andersen e Grimm, ma già ai tempi di Parise erose dalle logiche del lavoro industriale, “della produzione e del consumo”, in cui pure intravede elfi e coboldi, giusto più moderni, meccanici: “Altro che Veneto bianco, cattolico, bigotto, eccetera, i luoghi comuni della politica! Il Veneto era, ed è forte, barbaro, e dunque produttivo e dunque industriale”.
“Una vita, di cui io conobbi gli avanzi, finisce di consumarsi nel tempo e si riconsegna all’eterno”, scriveva invece in modo più nostalgico Piovene nel suo Viaggio in Italia.
“La civiltà italiana oggi è in gran parte endemica e inconsapevole, l’inciviltà consapevole e attiva”, aggiungeva, dicendo una verità sugli italici ma certo solo mezza in Veneto.
In gran parte endemico, di sicuro innato, profondo e radicato, ma forse più consapevole che in molte altre regioni è l’amore dei veneti per la loro terra e tale fu quello di Parise.
Magari senza il bisogno preconcetto di amare necessariamente i veneti in quanto tali… Magari trovando più simpatici altri che i suoi conterranei, tra i quali ebbe pochi amici…
“Ma il veneto resta la mia Patria perché vi sono nato: semplicemente. Il mio sentimento è lo stesso di un contadino che è sempre rimasto lì e ha la sua terra e la sua falce preferita che gode ad arrotare cavandone suono brillante”, scrive Parise, pur non d’animo contadino come Comisso, e non sfugge alla regola del radicamento, anche, anzi soprattutto, quando lontano.
Il romano Alberto Moravia lo definiva “profondamente veneto” e s’interrogava sul perché il collega non tornasse nella sua Vicenza, allorché questi se ne stava a Roma, quasi senza una vera ragione, quasi controvoglia, quasi per un mero fatalismo.
Diviso tra Roma, Capri e il Mediterraneo, i viaggi a New York, Parigi, Mosca e Pechino, Parise rispondeva che a Vicenza non aveva più parenti, e che l’aveva sfruttata già in quattro, poi cinque, libri, e la ricordava ormai “come si ricorda un sogno”.
La sua visione di Roma nei Sillabari – “una città popolata di etiopi, nubiani e arabi vari come ai tempi dell’impero” – può da sola suggerire come al di là della presenza di alcuni amici gli fosse aliena, e la ragione dei suoi costanti ritorni in Veneto.
Il bisogno d’inchiodarsi alla sua terra – una necessità che lo accomuna a Guido Morselli più ancora che a un Comisso – si fece sempre più pressante e fu più saggio del trevigiano, che, sbagliando, si fece casa nel rifugio dei romani, il Monte Circeo.
Lo stesso Comisso, ricorda Parise, gli scriveva cartoline in cui lo scongiurava di non trovarsi casa, di vivere in albergo, salvo poi vedere quella che si era scelto, e piantare egli stesso una vite augurale accanto alla finestra della camera dello scrittore.
Da alcuni anni voleva comprare casa a Ponte, e con l’aiuto di un amico, Guido Carretta, diventare coltivatore. Col Carretta andava spesso a cavallo lungo la Piave, e qui scoprirà la dimora dei sogni e quindi la propria terra. “Fortunato è l’uomo che ha una casa povera e dei figli, un prato davanti alla casa, alcuni alberi e un corso d’acqua a cui pensare ogni tanto, durante la notte”, scriverà a riguardo. E a Ponte incontrerà Omaira Rorato, una giovane del posto che gli ispirerà la coppia di sposi dei Sillabari, scritto in quel ritiro (“un piccolo Eden profumato di sambuco, dove il vento leggero e già fresco volteggiava insieme ai molti uccelli…”, si legge in un testo di Veneto barbaro di muschi e nebbie, “un luogo disabitato e sconosciuto, una specie di Eden a forma di labirinto, con suoni e rumori ‘classici’ dell’Eden…”, scrive poi in una lettera privata colma d’amore per Ponte) su una radura abbandonata nel 1966, anno di una grande alluvione, e circondata da una selvaggia vegetazione quasi tropicale, tra alberi di gelso, vigne di clinton e strani frutteti selvatici, erbe profumate e vento battente, i campi granoturco in lontananza e, nel fiume, ghiaioni e isolette, con fagiani, merli e starne… Dal Natale 1970, a vari intervalli ma quasi interrottamente, vi vivrà dodici anni, l’estate a Capri, fughe a Cortina e a Venezia, perché la pur fascinosa Roma gli è “estranea”… Nel corso della sua vita pur piena di erranze si è infatti sentito sempre più legato a quella sua terra, a quella casa, al bosco, al fiume, ai muschi e alle nebbie, a quella civiltà tanto raffinata ma legata a una profondità ctonia, “barbara e brutale”, che ancora si può incontrare perché ne resta il residuo in “un impasto talora quasi picassiano di genetiche composite e degenerate e rigenerate dal tempo, dai secoli, dai millenni”.
Scrive sempre di meno. Desidera vivere di più… Da vivere gli resta poco. Ma ha il tempo di dimenticare infine l’invidia per chi è sempre rimasto nella sua terra e di restaurare, oltre alla “Casa delle Fate” nel paesello di Salgareda, una seconda casa in quel Ponte, dimora che sarà il luogo dei suoi ultimi anni e oggi “Casa della Cultura” a lui intitolata, dove sono esposte le opere d’arte da lui collezionate, tra cui alcune di Mario Ceroli, Mario Schifano, Filippo de Pisis e della sua stessa compagna, Giosetta Fioroni.
Tra i monti Berici aveva ritrovato “qualcosa di duraturo” che si riconnetteva alla sua infanzia e alle passeggiate tra le viole, il basilico, la mentuccia e la gramigna col “nonno socialista vestito di nero con la cravatalla alla Lavallière” e che potesse dunque parlare “delle mie abitudini […] o della mia natura quando fossi morto” e lasciarsi di nuovo esplorare. Conventi. Sepolture. Temporali. Crepuscoli. Tra le montagne che fanno da anfiteatro e il forte odore del mare portato dallo scirocco, a “respirare il senso del tempo…”
“Il mare si sente imminente, il sapore è nell’aria,” scrive Comisso, “tra il Piave e il Livenza, in prossimità del mare, dove al tempo delle invasioni barbariche, nell’intricato dei fiumi e delle paludi, si erano rifugiati gli abitanti delle città romane di terraferma”, e sui greti dei fiumi, dove tra i salici, i gelsi e i pioppi si odono le upupe, i gufi, i picchi, i merli, i passeri, le rane e si vedono le lucciole, ci sono quelle cittadine venete che, in una lettera allo stesso Comisso, l’autore dei Sillabari definiva “i nostri rifugi di salvezza”.
“E così, ma senza troppe scosse, diventare vecchi e morire in una giornata di vento”, come recita una missiva a Neri Pozza. Oggi, nel giardino della “Casa Rossa” di Ponte ci sono una scultura di Brancusi e le ceneri di Parise, in deroga alle norme… Una traccia delicata come una certa virgola un po’ ambigua, forse una “e” elisa, una coordinazione, forse una specificazione. Si legge infatti tra gli scritti di Veneto barbaro di muschi e nebbie: “abito a Roma, all’estero”. A Roma e ovunque fosse, Parise ha sempre abitato nel suo Veneto: il Veneto “semiorientale”. Veneto in cui, a differenza del Giappone, l’eleganza non è frigida…
Marco Settimini