18 Novembre 2022

Vita spregiudicata di Hans Ertl, il vagabondo delle montagne

Wer ko uns scho was toan? A noi, cosa può succedere? Ripetono il motto, con la sfrontatezza tipica della giovinezza, in dialetto bavarese, i “vagabondi delle montagne”, i Bergvagabunden. Ma chi sono questi ragazzi tedeschi squattrinati, che d’estate come d’inverno si arrampicano sulle cime più aguzze, partendo da Monaco in sella alle loro biciclette senza luci, con gli sci legati al tubo orizzontale? Ce li racconta, con una prosa avvincente, l’alpinista Hans Ertl (1908-2000) in un libro dei remoti anni Trenta, per la prima volta pubblicato in italiano (grazie alla bella traduzione di un’altra pioniera dell’alpinismo femminile, Maria Antonia Sironi) da Ulrico Hoepli Editore.

Il libro è un autentico gioiello non solo per gli scalatori. L’autore è uno dei protagonisti più interessanti e curiosi dell’alpinismo del Novecento, l’affascinante Hans Ertl (da notare la foto in copertina), colui che aprì grandi vie sull’Ortles e sul Gran Zebrù, sul Karakorum come sulle Ande. Sono gli anni Venti, le ferite della guerra perduta da poco sanguinano e infiammano gli animi della gioventù tedesca, in un traballante equilibrio tra sbandamento e fiducia. Il sangue scorre veloce nelle vene di questi figli di una “generazione perduta”. Sono giovani che fanno la fila all’ufficio di collocamento per ricevere uno straccio di sussidio di disoccupazione, unica concessione della fragile Repubblica di Weimar. Si tratta dei ragazzi della “Scuola di Monaco”, Hans Ertl, i fratelli Franz e Toni Schmid, Elimil Solleder, Anderl Heckmair, i padri, appunto, dell’alpinismo tedesco. Da Monaco partono “verso la grande palestra di roccia, il klettergarten di Nagelfluh, nella Valle dell’Isar. Scarpette ai piedi, ci si allena su placche e strapiombi, si studiano nuove tecniche, i chiodi, i moschettoni, il nuovo uso delle corde” precisa, nell’Introduzione, Marco Albino Ferrari.

A loro cosa può dunque succedere? Curvo sotto il peso dello zaino, con dentro pentolini e flauti, pezzi di speck rubato in qualche fienile e caffè tostato profumatissimo, Ertl racconta di un “coraggio spensierato, spavaldo, provocatorio” che li spingeva a “osare” sempre di più. Il giovane Ertl riconosce dentro di sé una “componente inquieta, vagabonda, quasi zingaresca che scorre nel mio sangue e che influì in modo determinante sulla mia giovinezza”. La folgorazione per la montagna arriva presto, come un amore coltivato di nascosto e ostacolato dai genitori, ma non dal fratello con cui sopravvisse a una valanga. L’abbigliamento delle sue prime volte fa sorridere anche l’alpinista della domenica:

“pantaloncini tradizionali di cuoio e giacchetta di cuoio colorata con bottoni d’argento. Inoltre, avevamo in mano un bel bastone robusto. Io calzavo un paio di scarponi dello zio più grandi di almeno tre numeri. Mio fratello indossava le scarpe con cui normalmente andava a scuola. Uno zaino ciascuno, piuttosto leggero, perché con noi avevamo ben poco: i dolcetti a cui avevamo rinunciato nei giorni precedenti in previsione della partenza, qualche salsiccia non propriamente fresca, e una manciata di ciliegie colte di nascosto”.

E, oltretutto, senza picozza “lo strumento alpinistico di base”, che costava troppo. Cresceva, nell’animo inquieto del giovane Ertl come negli altri giovani tedeschi, una “brama sfrenata di avventura e di evasione”.

“Noi vagabondi della montagna, però, eravamo giovani e ci godevamo il fuoco della vita. Di giorno ce ne stavamo distesi al sole o accovacciati sui sassi come su un’isola beata e mentre il carosello mondano e benestante dello sci turbinava intorno a noi, come provocazione, innalzavamo il sacchetto con il nostro cibo da poveri. Noi, abbronzati come indiani, credevamo nella felicità anche se durava quanto la neve; nient’altro ci poteva turbare: né la morte né il diavolo… Mani in tasca, gridavamo sprezzanti l’antico motto: «Wer ka uns scho was toan?» (Chi mai può farci qualcosa?)”.

C’è da immaginarseli, meravigliosi, come li racconta Ertl, questi ragazzi in pose adamitiche, nudi e stesi su uno sperone di roccia a fare asciugare i vestiti in un raro bucato di fortuna. Eppure la morte incombe, ridisegna il destino di Hans Ertl. Nel 1932, non lui – Hans indossa sempre il suo talismano, l’anello con brillante che sua nonna aveva trovato miracolosamente sul fondo di un sacco di caffè – ma l’amico vagabondo Toni Schmid, con cui avrebbe dovuto ritentare la prima salita delle Grandes Jorasses, viene strappato alla vita e cade vittima di un tragico incidente sul Wiesbachhorn.

L’impulso di Ertl è quello di appendere la picozza al chiodo e abbandonare alla polvere gli sci in soffitta, quando, improvvisamente, squilla il telefono. Il regista e documentarista tedesco Arnold Fanck lo vuole al suo fianco in Groenlandia. Con Fanck c’è anche la bellissima regista e attrice Leni Riefenstahl, di cui Hans Ertl è chiamato a fare la controfigura. Secondo la diva, l’impresa in Groenlandia per il film SOS Eisberg era folle e disperata. Ma non dev’essere stato poi così male fare da controfigura (e da amante), tra i ghiacci della Groenlandia, alla bellissima diva tedesca. Cinque mesi nel ghiaccio, tra cadute rovinose nell’acqua ghiacciata con indosso i ramponi e voli infuocati, a bordo della Borodino, oltre i marinai, si contavano oltre trentasette persone e persino due orsi polari, gentilmente dati in prestito dallo zoo di Amburgo.

Altri tempi. Quando donne del calibro di Hettie, la bella moglie del capospedizione in Karakorum, Günter Oskar Dyhrenfurth, nel corso degli anni ’30, raggiungeva quota 7315, un traguardo mai raggiunto prima da una donna. La bella Hettie svelò poi, nel corso di una conferenza in America, il “segreto del sacco a pelo” nel campo finale sul Sia Kangri, toccando il tema “comportamento sessuale a quote elevate”, ovvero di come aveva concesso le sue grazie al fascinoso Ertl. Uno scandalo per i moralisti che si misero di traverso alla partecipazione di Hans Ertl alla spedizione del 1937 sul Nanga Parbat, una spedizione che costò la vita a quasi tutti i membri dell’impresa. Sono le donne, quindi, a salvare la vita a Hans Ertl, quasi sempre.

Hans Ertl (1908-2000)

Accanto alla diva del regime Leni Riefenstahl, Hans Ertl arriva a filmare le Olimpiadi di Berlino, mettendo a punto soluzioni tecniche innovative, come prospettive aeree e subacquee. Sul brillante cineoperatore, punta quindi il suo sguardo il ministro della propaganda Joseph Goebbels che gli ordina di riprendere l’adunata nazista di Monaco e la visita di Hitler in Italia nel maggio 1938. Ma un personaggio come Hans Ertl non poteva certo allinearsi: veniva considerato, infatti, “un cane sciolto”. Goebbels cercò di farlo arrestare dalle SS e fu proprio la Riefenstahl a salvarlo. Le spedizioni alpinistiche del nazismo, nel 1934 e nel 1937, furono disastri che costarono ventisei vittime. Ertl stesso spiega perché:

“la ragione principale della tragedia che colpì la spedizione del 1934 al Nanga Parbat sotto la guida di Willy Merkl – un impiegato statale della Reichsbahn, la compagnia ferroviaria tedesca – fu l’idea assurda secondo cui tutti o nessuno degli alpinisti avrebbero dovuto raggiungere la cima. A ciò si aggiungeva una valutazione errata delle condizioni meteorologiche e della resistenza fisica dei partecipanti a quote elevate”.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la fama di Ertl resta però legata al Terzo Reich e questo fatto ostacola la sua carriera artistica. Strani intrecci del destino fanno sì che Hans Ertl accolga il consiglio dell’allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi che gli suggerisce la strada del Sudamerica. Qui ricomincia l’alpinismo esplorativo. Nel 1953, viene chiamato a partecipare alla spedizione austro-tedesca sul Nanga Parbat, la celebre “montagna del destino”. Qui ritrae, a 6900 metri, il ritorno dalla conquista trionfale e solitaria di Hermann Buhl. Ma ancora non c’è spazio in patria per Hans Ertl come per la sua vecchia fiamma, la diva nazista Leni Riefenstahl.

Decide, quindi, di trasferirsi in Bolivia, con la moglie Aurelia, detta Relly, e le tre figlie Monika, Beatriz ed Hedi, dove percorre l’Amazzonia girando documentari. La primogenita Monika, che lo accompagnava nelle spedizioni amazzoniche diventa una fervente seguace di Che Guevara. Un mattino piovoso dell’aprile 1971, Monika si presenta presso il consolato boliviano ad Amburgo. Ad aspettarla il console Roberto Toro Quintanilla Pereira, che aveva guidato, quattro anni prima, un manipolo dell’esercito che aveva catturato e ucciso Che Guevara. Nella borsetta, Monika tiene una Colt Cobra 38 Special a tamburo. L’ha comprata Giangiacomo Feltrinelli in un’armeria di Milano e gliel’ha affidata. Monika, fedele al Che, ne vendica la morte sparando al fascista boliviano. Mettendo la sua breve vita nelle mani degli sgherri del regime che non avranno pietà di lei. Ma questa è un’altra storia, un’altra vita.

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