
Lizavéta, la pazza dei “Karamazov”. Dostoevskij e la violazione dell’innocente
Letterature
Linda Terziroli
Mi arriva una mail. Leggo. “Si comunica che, in ottemperanza eccetera eccetera, la biblioteca resterà chiusa dal giorno… al…”. La chiusura di un posto affollatissimo? Nel mio immaginario, la biblioteca è il paradiso dei solitari. Un silenzio zeppo di voci, la sospensione del tempo, una pace inaudita. Dovrebbero chiudermi dentro. Come ne La strana biblioteca di Haruki Murakami (Einaudi, traduzione di Antonietta Pastore)? Sì e no. Ci risiamo. Piombo di nuovo, senza volerlo, dentro Murakami. La situazione attuale è così surreale da far sembrare reale ciò che non lo è. E se ci chiudessero in una strana biblioteca?
Nel romanzo, un ragazzo viene chiuso nel sotterraneo di una biblioteca da un malvagio vecchietto. Un misterioso uomo-pecora lo obbliga a imparare a memoria tre tomi sulla tassazione nell’Impero ottomano. Nella biblioteca il silenzio è più profondo del solito. Le scarpe che indossa il ragazzo sono nuove di zecca, il cuoio scricchiola, sul pavimento. Al banco della biblioteca, una donna. Il ragazzo restituisce due libri presi in prestito, Come costruire un sottomarino e Memorie di un guardiano di pecore. “La donna guardò dietro le copertine per controllare la data di consegna. L’avevo rispettata, naturalmente. Rispetto sempre le date di consegna. È quello che mi ha sempre raccomandato mia madre. La stessa cosa vale per i guardiani di pecore. Se non rispettano gli orari, le pecore finiscono coll’agitarsi”.
Il ragazzo, logicamente, vuole prendere in prestito altri libri. Deve scendere e andare a destra, stanza numero 107, in fondo al corridoio. “Ai piedi della scala mi incamminai verso destra, e alla fine del corridoio mal illuminato, in effetti trovai una porta col numero 107. Ero stato in quella biblioteca un centinaio di volte, ma non sapevo che ci fosse un piano interrato. Bussai. Pensavo di aver bussato piano, invece i colpi riecheggiarono nel corridoio come se avessi sbattuto una mazza da golf contro i cancelli dell’inferno”. Il giovane entra nella stanza, al centro un vecchio molto basso, calvo, un paio di occhiali dalle lenti spesse, la faccia con piccole macchie nere, “sotto il mento la pelle gli pendeva come una mongolfiera bucata”. Al ragazzo interessa scoprire come vengono riscosse le tasse nell’Impero ottomano, una curiosità che è il frutto di un’associazione di idee, mentre tornava a casa da scuola. Il vecchietto gli porta tre grossi volumoni che si possono consultare esclusivamente in una stanza della biblioteca. Una stanza sul retro. Sono le cinque e venti e la biblioteca sta per chiudere. Per il vecchio l’orario di chiusura della biblioteca non è affatto un problema. Invita il ragazzo a seguirlo.
“Oltre la porta interna c’era un corridoio in penombra, rischiarato dalla luce di una lampadina che sembrava arrivata a fine vita”. Dopo una biforcazione, un’altra. E poi altre ancora. Il vecchietto conosce a memoria il percorso che porta alla stanza sul retro. Nei sotterranei della biblioteca, si snoda un labirinto. La metafora della letteratura, della conoscenza, della vita. La sua oscura incomprensibilità. Il nostro smarrimento. “Ero molto confuso. Che cosa assurda! Come poteva la nostra biblioteca cittadina avere nel sottosuolo un labirinto di tali dimensioni? Le biblioteche sono sempre a corto di fondi: costruire anche il più piccolo labirinto è al di là dei loro mezzi”. Alla fine, dopo un periplo inspiegabile, il ragazzo arriva alla stanza sul retro. Ma che cosa significa questo dedalo di strade che portano all’unico posto dove si può leggere il libro di cui è vietato il prestito? C’è da perdersi, come in un cimitero di notte. “Gira e rigira, alla fine arrivammo a una grande porta di ferro. ‘Sala di lettura’, diceva il cartello che vi era appeso. Il posto era silenzioso come un cimitero di notte”.
Forse la chiusura di ogni biblioteca è un male necessario. Un medicamento. Può darsi. Strappo la conclusione dall’ultima pagina di un altro racconto dello scrittore giapponese: “Poteva darsi che i suoi problemi si risolvessero, e poteva darsi di no”.
Linda Terziroli