26 Agosto 2020

“Noioso, noioso, noioso. E c’è poca pornografia”. Lolita, la ninfetta che mandò in crisi la letteratura

Morto trent’anni fa, Maurice Girodias in verità si chiamava Maurice Kahane, era nato in Francia da mamma cattolica e babbo ebreo, leggeva solo libri degni di censura. Il papà – Jack Kahane – aveva fondato nel 1929 la Obelisk Press, con lo scopo di pubblicare inglesi e americani rifugiatisi a Parigi, la Sodoma del Novecento, città di facili costumi e sesso a go-go. Tra i tanti, Jack pubblicò Lawrence Durrell e Norman Douglas, Norah James e Anaïs Nin, ma pure James Joyce. Al figlio, Maurice, quindicenne, affidò la copertina di Tropico del cancro di Henry Miller: il mostruoso granchio che tiene tra le chele il corpo di una donna, svenuta, in ombra, è suo.

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Da grande, Girodias continuò l’attività paterna. Esagerandola. Nel 1953 Girodias fondò la Olympia Press sotto i lumi del Divin Marchese De Sade, di cui editò l’opera omnia. Tra le sue grinfie passarono grandissimi nomi, da Samuel Beckett a Georges Bataille; pubblicò in lungo e in largo William S. Burroughs, per far cassa assoldò scrittori porno, pubblicando romanzi in cui un vago anarchismo s’intrecciava al vizio, alla coca, al sesso in serie. Nel catalogo della Olympia Press spiccano Jean Genet e Oscar Wilde, Jean Cocteau e Gregory Corso. Nel 1967 Girodias avrebbe pubblicato il fatidico SCUM Manifesto di Valerie Solanas, la femminista che aveva attentato alla vita di Andy Warhol e che promuoveva l’estinzione dei maschi (“Per bene che ci vada, la vita in questa società è una noia sconfinata. E poiché non esiste aspetto di questa società che abbia la minima rilevanza per le donne, alle femmine dotate di spirito civico, responsabili e avventurose non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione completa e distruggere il sesso maschile”).

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Al numero 66 del catalogo Olympia Press, spicca Lolita, di Vladimir Nabokov, pubblicato nel settembre del 1955. Terminato due anni prima, il romanzo era stato rifiutato da molti – New Directions, Farrar Straus, Simon & Schuster, tra gli altri – portando Nabokov a una specie di esaurimento. Gli si propose Girodias, “tre quarti del suo catalogo è pornografia di bassa qualità”, sentenziò lo scrittore. Finì per cedere.

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Nabokov era atterrato negli Usa nel 1941, dal ’45 era cittadino americano, si occupava di lepidotteri presso l’Harvard University Museum of Comparative Zoology. In lingue inglese aveva scritto un paio di romanzi di scarso successo, La vera vita di Sebastian Knight (1941) e I bastardi (1947; così nella prima traduzione italiana, poi Un mondo sinistro). Lolita era il primo romanzo d’ambientazione americana. Il libro edito in Francia fu elogiato da Graham Greene, dalle righe del “Sunday Times”, e vilipeso da John Gordon sul “Sunday Express”: “è il libro più sporco che abbia mai letto… pornografia pura, sfrenata”. Come si sa, sporco e sfrenato – aggettivi indelicati al cospetto della prosa limpida, razionale, labirintica di Nabokov – sono mangime per i lettori. Lolita ebbe successo. A tal punto che agli ufficiali della dogana britannica fu dato ordine di sequestrare le copie indirizzate in UK. Nel dicembre del 1956 la Francia seguì l’esempio inglese: il libro fu messo al bando per due anni. A quel punto, G.P. Putnam’s Son, editore newyorchese – ora parte del gruppo Penguin – prese il caso al volo: nell’agosto del 1958 uscì la prima scintillante edizione americana di Lolita, la prima su suolo inglese. Nabokov diventò, improvvisamente, quasi sessantenne, un autore pop: Lolita bruciò 100mila copie in tre settimane, eguagliando il record detenuto da Via col vento.

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Il 18 agosto 1958 fu Orville Prescott a interrompere la fanfara degli applausi, l’orgiastico entusiasmo, pubblicando su “New York Times” una celebre – per celere cecità – stroncatura. Criticando la moda editoriale d’allora – “Alcuni libri ottengono una sorta di reputazione clandestina prima di essere pubblicati. I pettegolezzi, si sa, suscitano aspettative” – la Prescott parte con le bordate, l’evirazione, il falò. “Lolita è innegabilmente una novità nel mondo librario. Purtroppo, è una cattiva notizia. Ci sono due serie ragioni per cui quel romanzo non merita l’attenzione di un lettore adulto. La prima è che è noioso, noioso, noioso in modo pretenzioso, barocco, raffinatamente vacuo. La seconda è che è ripugnante. Lolita non è l’esplicita descrizione di scene di violenza sessuale attraverso sostantivi stereotipati. La sua depravazione è sottile. Nabokov, il sui vocabolario inglese sbalordirebbe gli editori dell’Oxford Dictionary, non scrive pornografia a buon mercato. Fa della pornografia intellettuale. Forse non era questa la sua intenzione. Forse pensava al suo romanzo come una commedia satirica, come l’esplorazione in una psiche anormale. Eppure, Lolita è disgustoso”.

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La Prescott giunse come una specie di suffragetta letteraria. Il giorno prima – 17 agosto 1958 – il suo giornale aveva pubblicato, con il titolo “La tragedia di un uomo guidato dal desiderio”, una recensione di spirito opposto. Elizabeth Janeway parte in quarta (“La prima volta che ho letto Lolita ho pensato che fosse uno dei libri più divertenti che avessi mai letto”), abbattendo ogni accusa di oscenità: “Questo è uno dei libri più divertenti e tristi che usciranno quest’anno. Per ciò che riguarda il suo contenuto ‘pornografico’, penso che pochi volumi siano più adatti a spegnere le fiamme della lussuria visto che ne descrive, con esattezza, le immediate conseguenze”. Modesta recensione, comunque.

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Terminata la sbornia americana, tornati ai sani principi (libertà, libertà), quando Lolita fu libera di passeggiare per le librerie londinesi, nel 1959, fu Kingsley Amis a scriverne, sullo “Spectator”. Pressoché scomparso dal panorama editoriale odierno, Kingsley, papà di Martin Amis, paladino degli “Angry Young Men”, aveva da poco pubblicato il suo libro assoluto, Lucky Jim (1954), aveva 35 anni, non ammetteva la presenza di ninfette nabokoviane nel suo territorio. “Pochi libri pubblicati in questo Paese dalla Bibbia di Re Giacomo hanno creato tante attese impazienti e impazzite quanto Lolita, né, d’altra parte, nessun’altra opera è stata conosciuta tanto bene, in anticipo, dal suo potenziale pubblico… È incoraggiante assistere a tutta questa preoccupata attenzione verso un libro che ha serie pretese letterarie, nonostante queste pretese non siano letterarie come crediamo. Il romanzo è cattivo in ogni senso: cattivo come opera d’arte, e cattivo moralmente, anche se non è né osceno né pornografico”. A Mr. Kingsley non garbava il linguaggio di Nabokov – opposto al suo credo – “frastuono di giochi di parole, allusioni, neologismi, allitterazioni, domande retoriche, francesismi, latinismi… tutto stile, neanche un errore”. Eppure, andò in estro per Lolita, “l’unico successo del libro, il solo, è il ritratto di Lolita. Raramente ho visto l’atmosfera di un personaggio così meravigliosamente realizzata… Lei è un ritratto devotamente osservato, ascoltato, ma mai discusso. Cos’altro ha fatto in presenza di Humbert se non giocare a tennis, mangiare, andare a letto con lui? Di cosa hanno parlato? Cosa hanno fatto davvero? A parte alcuni eleganti eufemismi, non ci viene detto nulla. Non fraintendetemi se dico che uno dei difetti con Lolita è che, lungi dall’essere pornografico, non è mai abbastanza pornografico”. Kingsley non si accontentava dell’illusione di un bacio, voleva vedere il corpo, odorare la carne. Ma qui, appunto, si scontrano poetiche opposte. (d.b.)

*In copertina: fotografia di scena dalla “Lolita” di Stanley Kubrick (1962)

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