“Esistono spiriti liberi e coraggiosi a cui piacerebbe non ammettere che hanno un’anima a pezzi, tracotante, incurabile. A volte, impazzire è un travestimento, per chi ha certezze troppo infelicemente sicure”.
In una Napoli tanto concreta da sconfinare nel metafisico, scende giù per Toledo, Rosalinda Sprint – femminiello partenopeo di angelica impudicizia –, eroicamente a caccia d’amore nei bassifondi dell’animo umano. Parabola esistenziale, la traversata che dai quartieri spagnoli si spinge fino alle bianche scogliere di Dover, è viaggio che esalta lo splendore dell’oscenità puntando alla purezza nell’abiezione, intreccia il drappo del godimento all’ombra della morte, avviluppa fra i dedali di un romanzo che, come poesia, segue l’anarchia del mare. Ai margini della vita e della strada, Marlene Dietrich, Faccemmerda, Mariacallas, Rossicago, Viacolvento – sagome umane, pittoresche epifanie dai contorni sbiaditi, in un girone tanto sanguinante quanto vivo e spassoso, nella città che non fa differenze fra santi e peccatori –, a seguire l’eroina che con l’innocenza della trasgressione mira a farsi ‘forestiera’, mutare le corrotte carni in ali di libellula.
Scende giù per Toledo, capolavoro di originalità di Giuseppe Patroni Griffi – libero intellettuale di costituzione anticonformista e nobile discendenza – torna sulla scena editoriale nella rinnovata veste di GOG edizioni. Dell’autore – romanziere, autore teatrale, regista cinematografico, direttore artistico del teatro Eliseo di Roma, che insieme a Raffaele La Capria, Pasquale Prunas, Anna Maria Ortese, Domenico Rea, nel 1945 prese parte alla genesi della rivista culturale Sud – si ricordano, in particolare, l’abbrivio narrativo con Ragazzo di Trastevere (1951) e La morte della bellezza (1987).
Distante da ogni bieco formalismo, Patroni Griffi, nella vita e negli scritti sfidò ogni forma di pudore. (Fabrizia Sabbatini)
Suo padre sta con la pistola in mano e punta. Non riesce a prendere la mira, uno, perché deve reggere la porta dietro la quale la madre in un crepitio di calci grida che vuole salvare la sua creatura dalla furia dell’energumeno, non fa niente ch’è ricchione; due, perché Rosalinda Sprint sbatte da parete a parete, pipistrello cecato, le mutande riempite di spavento. Salta in alto, in lungo, si acquatta a terra, si rialza, striscia, si schiaccia contro il muro, si china, inciampa, picchia la testa.
«Il brigadiere ti ha colto sul fatto e devi morire».
Adesso, servendosi dell’altra mano, suo padre tiene ferma la mano che impugna l’arma e pare che ce la fa. Perduta, Rosalinda Sprint vola dal balcone: una gamba spezzata, quaranta giorni all’ospedale, la madre a piangere in punta al letto. A casa non può rimettere piede – dovunque s’incontreranno una pallottola in culo non gliela leva nessuno, il padre gliel’ha promessa e d’allora va camminando pistola in tasca, l’avverte sua madre. Perciò, guarita, finisce in camera d’affitto. È sempre la madre che la mantiene con quanto riesce a sgraffignare all’energumeno che, non sia mai sa che l’aiuta, ha promesso a lei un’altra pallottola – a te in fronte. Di camera in camera, di quartiere in quartiere, scorrono i primi tempi. Succede che la madre smette di aiutarla perché s’accorge che Rosalinda Sprint, messa a frutto la sua vocazione, guadagna bene, ed è Rosalinda Sprint che le passa ora un sottomano quando s’incontrano di nascosto, e ci aggiunge ogni volta un regaluccio personale.
I primi anni non riesce a vincere la ripugnanza di compiere i gesti, gli atti dell’amore, accompagnandosi a vecchi, in generale a uomini che non le piacciono. Nel suo intimo c’è una sorta di delicatezza – nessuna volgarità – per cui sente il peso della prostituzione.
Quando il brigadiere l’acchiappa sul fatto, sul fatto ci sta con un giovanotto di cui è pazza, col quale da qualche tempo amoreggia. Stanno su al Parco della Rimembranza e da principio si sono goduti il panorama – la palla di fuoco toh, scende pulitapulita a mare. E poi hanno aspettato la notte – questa notte che non arriva mai. E poi le prime stelle l’hanno incantata e s’è stretta a lui – sono la tua Butterflà. E ancora la musica di un’orchestrina lontana che arriva indistinta e sembra ora una canzone ora un’altra, l’ha intrigata – io dico ch’è quella, io dico che non è, e ti sbagli, ti sbagli tu. E poi emozione dell’attesa, amore traboccante e voglia, e lui ch’è diventato tuttocazzo e la piega di forza in ginocchio nel fosso umido – fa caldo, l’erba bagnata striscia tra le cosce nude appena divaricate ad aggiungere frenesia e lui la carica tenendosela abbracciata, le grosse mani martirizzano i capezzoli sottili, li bruciano, una tortura alla quale non potrebbe resistere se non fosse la destrezza con cui la sta caricando a confondere ogni sentimento, e lei che si mette a abbaiare alla luna che esplode dal mare nero dietro gli alberi neri e si sente un animale felice come un animale, e la luna che si copre di colpo ed è il brigadiere che la copre diritto in piedi davanti a lei e dice – e bravi! Il brigadiere è suo vicino di casa. Tanto meglio e tanto peggio. Quante volte rivive la scena mentre si vende agli schifosi che la pagano; una sera nella latrina d’un cinema, le venne da ridere a ricordare gli occhi del brigadiere, e il cliente s’incazzò di brutto. Rivivere i momenti preferiti è la sua maniera per superare il tormento della prostituzione.
«Tu pensa a un altro». Glielo disse Sayonara, una delle prime conoscenze della vita pubblica, non amica. L’unica sua, è Marlene Dietrich. Amicizia e protezione.
«E figlia mia, ti credevi che nella vita è permesso solo ciò che piace? Non sarebbe vita, sarebbe paradiso. Quando stai sotto a uno che ti paga, immàginatene un altro».
«A me viene voglia di sputargli in faccia».
«E te la fai passare. Pensa a chi t’ha fatto godere». Sayonara ha un attimo di cupezza. «Tu sei giovane, fresca – io mi sono scordata pure dei ricordi».
Questa Sayonara, secondo Rosalinda Sprint, è una fanatica: tiene banco in mezzo alla Litorania a voce così alta, che tutti la devono ascoltare, e le parole le attacca una all’altra senza una pausa che non fai a tempo a staccarle con l’orecchio, tu che la stai a sentire, per afferrare che dice – mezze se le mangia mezze le perdi, che ti resta?
«Per favore vuoi ripetere – ti sei capìta tu e tu», fa Rosalinda Sprint quando un discorso la interessa; Sayonara non chiede di meglio e riattacca allo stesso ritmo. Continueresti a non capire se non fosse per il fatto che a un discorso confuso, ripetuto una seconda volta, ci fai l’orecchio, e un po’ di più ne afferri, ecco tutto. Si conoscono i primi giorni che vive da sola, uscita ancora zoppicante dall’ospedale – va in giro col bastone – e anche se l’ha aiutata e consigliata in un momento davvero brutto, questa rimane una scocciante che a ogni cosa che le chiedi, a ogni cosa che succede, a ogni cosa che devi risolvere, tira fuori l’esempio di un’altra cosa capitata a lei.
«Anche a me, cara, sarebbe piaciuto tenermi Elia – per la vita. Unico amore. Vero. Avevo l’età tua. Era un sardo che stava in Sardegna. Mi poteva seguire, me lo potevo portare appresso? Sì, domani! Aveva moglie e figli, non sapeva neppure dove stava il continente. Un cuore e una capanna? Sì, domani! Lavoravo per mantenere lui? E lui si faceva mantenere da me? Troppe complicazioni per un semplice che non parlava. Abbiamo fatto ogni cosa senza aprire bocca – era bello, bellissimo, un Cristo di legno (non soltanto la faccia, intendiamoci, scolpita nel legno). Allora mi chiamavo Mimì Bluette, il nome l’ho cambiato dopo il film di Marlobbrando, è più moderno, Sayonara, e mi sta bene, mette in evidenza l’occhio a mandorla, no? Gli occhi sempre gli occhi mi baciava Elia. Passavo per andare a teatro – stavo con l’avanspettacolo – e mi guardava, alto appoggiato al muro, ero giovane, fresca, vestita allegra, mi guardava e non diceva una parola. Io, subito notato – favoloso. Trentott’anni, mica un giovanottello, uno che Gary Cooper si poteva andare a nascondere. Ah, non ti muovi? Aspetta che mi muovo io: “Non hai la lingua?” dico. Lui abbassa gli occhi. “Se non mi puoi parlare e ti piaccio tanto, per lo meno un fischio dietro me lo potresti fare”. Sì, domani! Un fiato non esce da quella bocca. Mi allontano scornata. Tuttosommato che ne sapevo di che razza sono i sardi… Passano due giorni, non si mostra, il terzo, di nuovo sta all’uscita degli artisti, alto appoggiato al muro. Non esitai, lo prendo per mano, zitta e muta, e lui senza fiatare mi segue. La compagnia tornò a Napoli, io restai due mesi là a mangiarmi quei quattro soldi che avevo da parte. I soldi che ho speso più volentieri in vita mia. Era un cane fedele, non so in che modo la metteva con la famiglia certo stava solo appresso a me – là le mogli le chiudono in casa e guai a loro. Mi portava in barca, sulle spiagge solitarie, al largo… ci vedevano insieme, nessuno diceva niente, mi pareva che avessero soggezione di lui che si permetteva ogni cosa. Quando partii piangeva. “Elia, non fare così, ci scriveremo”. Non mi rispose. A Napoli non riuscivo a togliermelo dalla testa – potevo ritornare in Sardegna? Sì, domani! Scopavo con gli altri e pensavo solo a Elia, mi dava conforto, mi aiutava – in seguito una s’incallisce e non ce n’è bisogno. Sembra a te che fai le stesse cose sia con quelli che ti pagano sia con chi ti piace o che tu ami – sì, domani! Sono cose diversissime. Scrivo, riscrivo, non ricevo un rigo. Torno a scrivere, niente, silenzio. Che razza strana, pensai, un cane se ci stai vicino, da lontano una iena. Passano tanti mesi, un giorno mi arriva una busta dalla Sardegna. Dentro c’è un pezzo di carta straccia e sopra c’è scritto, a grosse lettere storte, per mano d’un bambino: “Non so leggere”».
Per poco Rosalinda Sprint non scoppia a piangere.
«Il foglio era spappolato e moscio, ch’era chiaro – l’aveva spugnato di lacrime».
Questi racconti la fanno star male perché si convince meglio che l’amore dovrebbe essere un tesoro privato, nascosto, sul quale non deve agire nessuna ragione d’interesse. L’amore non deve avere niente a che fare con la moneta.