«O Dio delle acque, / monda i nostri cuori dentro di noi, / E le nostre labbra per lodarti. / Perché ho veduto / L’ombra di questa tua Venezia / rifrangersi sulle acque, / E le tue stelle // L’hanno veduto dal loro corso remoto / Hanno veduto questa cosa, / O Dio delle acque, / Come sono le tue stelle / Silenti nel loro grande moto, / Così il mio cuore / è silente dentro di me».
Così Ezra Pound, nella traduzione della figlia, Mary de Rachewiltz cantava Venezia nella sua Litania notturna. E oggi a Venezia, quando cala il sole, tutto diventa silenzio. Al crepuscolo, i turisti dai trolley gracidanti corrono alla stazione di Santa Lucia, affollando la corsa del vaporetto o stringendosi nelle calli per l’ultimo treno. Poi viene la sera con i suoi fantasmi, restano vive solo le zone più celebri, isole di luce nel buio, San Marco, i dintorni di Rialto (con i menù seriali a 30 euro e le boutique asettiche delle grandi firme), riva degli Schiavoni tirata a lucido dal vento. È il momento perfetto per amare Venezia. […]
Ho con me una privatissima guida Michelin. È una mail di Mary de Rachewiltz, a cui ho chiesto un elenco dei luoghi imprescindibili per conoscere la Venezia di Pound. Raccomanda di passare da Calle Querini 252, il «nido nascosto» di Olga ed Ezra, di «correre» ad accarezzare le sirene di marmo a Santa Maria dei Miracoli («la facciata più bella del mondo»), di andare al cimitero dell’isola di San Michele («l’unico luogo non ancora affollato e spero non ci siano troppe foglie secche o altro sulla tomba…»). In aggiunta, ci sono anche i ricordi che Mary ha lasciato in Discrezioni, storia di un’educazione, il suo imprescindibile memoir pubblicato da Rusconi nel giugno 1973 che andrebbe prontamente ristampato. Ecco qualche cammeo: «Il Babbo usciva di casa subito dopo colazione e a passo svelto traversava il ponte; dall’altra parte del canale, dalla Signora Scarpa, aveva una stanza per lavorare, una macchina per scrivere e un indirizzo. Aspettavo, in ascolto, il suo ritorno. Il picchiettio del bastone di malacca nera su per il vicolo cieco di Calle Querina. Rumori di sotto, un miao lungo e forte. Dal primo piano: “Miao”, rispondeva Mamile, e il mio tedio era finito. Correvo giù dalle scale pronta per uscire. Far le spese, un rito gioioso. Talvolta significava fermarsi alla Banca d’America e d’Italia per prendere dei soldi…”.
Ed ecco il riassunto di una mattina con un papà poeta: «A seconda se era soddisfatto del pezzetto di mosaico aggiunto ai Cantos durante il lavoro del mattino – per quanto a quel tempo non avevo idea in cosa consistesse il suo lavoro: “scrivere” mi diceva poco – o se aveva qualcosa da spedire urgentemente o troppo voluminoso per la tasca della giacca, si prendeva il traghetto breve a Punta del Giglio, o quello dalla Salute a San Marco, che naturalmente mi piaceva di più. La prima tappa era al Bar Americano sotto l’Orologio, per un panino e un’aranciata. Ripensandoci, in nessuna parte del mondo ho mangiato panini così deliziosi. Il gusto della perfezione nel mangiare come nello scrivere. Frugale, ma meticoloso. Poi si andava su per le Mercerie a un negozietto dove si sceglieva una miscela di caffè, la faceva macinare e ne scaturiva un profumo penetrante, divino e io uscivo di malavoglia dal negozio. Qui si comprava anche grossi blocchi di cioccolato amaro, e io potevo portare il pacchettino. Poi da Moriondo, per il fragrante Apfelstrudel, e cioccolatini alla menta. Il padrone, in spolverino marrone e i capelli bianchi, era un amico e tenevano lunghe conversazioni sui prezzi e sulla politica; a queste indagini il Babbo dedicava la stessa cura e delicatezza che alla scelta dei dolci. Ritorno in Piazza, dove spesso ci si imbatteva in amici; dal giornalaio accanto all’ufficio postale, per giornali inglesi e francesi. Da un altro pasticcere, Colussi, per salatini al formaggio. Al panificio per il pane a cassetta, croissants e grissini, e un po’ di conversazione con la moglie del panettiere, su grano, farina, prezzi. Voltato l’angolo, la fruttivendola – una grassa signora amica – “Che bei capei, che bea putea” a non finire; e consigli nella scelta del melone, pesche, fichi, insalata fresca croccante ricciolina, e pomodori non troppo maturi. Alla porta accanto, il macellaio: altro consulto sulla carne da tritare, le fettine di vitello o di fegato. Poi il pizzicagnolo, dove la scelta del formaggio si faceva difficile fra stracchino, belpaese, mascarpone, olandese o gruviera. Infine, e di rado, nella drogheria accanto per un pacchetto di menta. Le spese venivano fatte con slancio e si tornava a casa trionfanti e carichi di pacchetti. Alla porta invariabilmente ci incontravano le note del violino, chiare, appassionate».
Questa la vivacissima Venezia di Pound e di Mary. Sull’intonaco arancione di Calle Querini 252 c’è una lapide bianca: «In un mai spento amore per Venezia / Ezra Pound / titano della poesia / questa casa abitò per mezzo secolo / Comune di Venezia».
Troppo roboante per il nido di Ezra con Olga. Entrambi amavano l’isola di San Lazzaro degli armeni, per l’antica stamperia e un prezioso sarcofago egiziano. Si può visitare una sola ora al giorno. Dagli Schiavoni si raggiunge con la linea 20 del vaporetto, seconda fermata dopo l’isola San Servolo, dove c’era il manicomio. Alla darsena mi aspetta padre Hamazasp dalla lunga tonaca nera. Con i suoi occhi guizzanti racconta di voler riaprire la libreria nel monastero. A San Lazzaro veniva a meditare lord Byron, «amico degli armeni» di cui volle imparare la lingua. Da una finestra sbirciamo quello che era il suo nascondiglio tra gli alberi.
La pietra istoriata di un Khachkar veglia l’ingresso del monastero. Un ponte tra Oriente e Occidente. Sulle croci armene non c’è il crocifisso, ma esultanti motivi floreali. A indicare sempre che è Cristo Risorto.
Padre Hamazasp mi fa da guida nel monastero, che è freddissimo ed essenziale. Non fu depredato da Napoleone perché ne fu riconosciuto il suo inestimabile valore di laboratorio culturale. Tutto ebbe inizio nel 1717 quando l’isola fu donata dal Senato della Serenissima a padre Mechitar. Nel nostro viaggio nel tempo incontriamo la biblioteca del padre fondatore, elegante e dai grandi mappamondi. E i tesori bibliografici, reperti archeologici radunati dalla passione dei monaci, persino gli strumenti di penitenza di Mechitar. Il tour ha un gran finale: la mummia egiziana di Nehmeket è bellissima, rivestita di un raro e raffinato reticolo di perline color cobalto. Entriamo nel cuore culturale del monastero: la collezione di manoscritti (circa trentamila) sopravvissuti ai disastri della natura e dell’uomo. È la terza raccolta al mondo in ordine di importanza per la storia armena. Ci sono manoscritti a forma di bottiglia. Sono Bibbie approntate con questa foggia per ingannare gli invasori. Essere trovati con la Bibbia significava morire.
Da piccola isola in piccola isola raggiungo per vie d’acqua il cimitero di San Michele. Non ha lo sfarzo del Monumentale di Milano o di Staglieno a Genova, ma l’ubicazione lo rende irripetibile. Il traghetto è stipato, ma i turisti preferisc ono la più celebre Murano, alla fermata successiva. Resto praticamente solo sull’isola dei morti. Fa sempre più freddo. La zona Protestante è in rovina, anche se ci sono le indicazioni per le tombe di Pound, Brodskij, Stravinskij ed Helenio Herrera. Quella del calciatore è facile da individuare per le sciarpe nerazzurre che adornano una semplice anfora di marmo. Cammino in uno scenario che ricorda il giorno del Gudizio negli affreschi medievale. Tombe scoperchiate, lapidi in frantumi, i nomi dei defunti erosi dal tempo. È facile trovare anche la tomba di Brodskij. Ci sono fiori freschi e un monito in latino: letum non omnia finit.
Ricordo Tumbas, il bel libro di Cees Noteboom che racconta di questa tomba e della vicinanza con quella di Pound. Dovrebbe essere lì accanto. Noteboom immagina i dialoghi tra Brodskij e Pound ogni sera. Dovrebbe essere a un tiro di sasso e invece fatico a trovarla, come quando avevo impiegato mezza giornata a trovare quella di Fanny, la musa di Keats, nel cimitero londinese di Brompton.
La mia stella è una rosa rossa: sotto lo stelo, sul marmo, la semplice scritta «Ezra Pound», poi un’altra rosa rossa e il nome di Olga. Ripasso nella mente i versi dei Cantos postumi (curati per Mondadori da Massimo Bacigalupo) dedicati da Pound a Olga: «E il suo nome era coraggio / ed ebbe pietà per ogni cosa vivente / e mi tenne in vita per dieci anni / per cui nessuno le dirà grazie / la sua testa rossa un flacone di profumo».
Il rosso, il colore della «bellezza difficile».
L’ultima passeggiata per la città è verso le Fondamenta degli incurabili. Ancora Brodskij che qui è ricordato da una (brutta) lapide con un (brutto) profilo inciso nel marmo. Sarebbe stato meglio incidere i suoi versi. Per esempio il movimento VIII delle Strofe veneziane (si legge nelle Poesie uscite per Adelphi): «Io scrivo questi versi, seduto su una sedia bianca, / a cielo aperto, d’inverno, in giacca, / ebbro, e pronuncio frasi che allargano gli zigomi / nella lingua che è mia. / E intanto nella tazza si raffredda il caffè. / Sciaborda la laguna e tormenta con cento minimi sprazzi / lo sguardo intorbidito dall’ansia di fissare questo paesaggio / capace di fare a meno di me».
Il resto è solo nebbia e nostalgia.
Alessandro Rivali
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Per gentile concessione dell’autore si è pubblicato un ampio stralcio dal reportage “A Venezia sulla orme di Pound & Brodskij”, che si può leggere per esteso nel numero di ‘Studi Cattolici’ di prossima uscita (info: Ares edizioni)