Sempre grato sarò all’anonimo professore di filosofia del liceo. Solo ora ne intuisco il risuono della frustrazione: cognome dal sentore metallico (Ariano), il prof viveva alla periferia di Torino, palazzi incolonnati, all’epoca, venti e passa anni fa, preda dello spaccio e del sopruso. Insegnava in un liceo scientifico – il mio – conficcato in un paese nella cinta torinese, la periferia del periferico, dove i ragazzi rovesciano il banco in faccia ai prof, media di 8-9 bocciati ad annata nel primo biennio, un alcova di perdenti e di perduti. Il prof aveva adottato una bimba dall’Africa e aveva lo spirito del missionario. Non faceva lezione: si lanciava in spericolate – e incomprensibili – corsi monografici. Un giorno accennò a un libro. Indispensabile, disse. La nascita della filosofia di tale Giorgio Colli. Copertina gialla, un magnetico Adelphi, 116 pagine, giurava il prof, in cui è riposta la quintessenza di ciò che bisogna sapere. Avevo 16 anni. Corsi in libreria, che già allora era la mia naturale foresta – nel mio paese non c’era, piglio l’autobus, mezz’ora di frastuono, Torino, la mecca del bulimico di libri. Ultima frase del primo capitolo – di cui non avevo capito nulla. “La follia è la matrice della sapienza”. La frase mi s’incide in faccia con una potenza definitiva. Ogni tanto telefonavo al mio amico unico, Jonathan – oggi acclamato medico della mutua e dello sport – e gli leggevo delle frasi dal libro. “Sapiente è chi getta luce nell’oscurità, chi scioglie i nodi, chi manifesta l’ignoto, chi precisa l’incerto”; “per il sapiente l’enigma è una sfida mortale”. Ammetto: non eravamo dei geni né dei giganti. Di quel libro, che mi pareva meraviglioso, con frasi che scagliavano un ragazzino di periferia nel cuore del cosmo e del tempo, non capivo cosa. Ma – questo lo sapevo dalla poesia, che già mi aveva ghermito, con Dylan Thomas, William Blake, William B. Yeats – non conta capire, quanto sentire, amare. Il libello di Colli mi tornò in mano all’università. E fu una indisciplinata avventura del sapere. Il primo passo verso l’avventato Everest di un pensiero selvatico. I “quaderni postumi” di Colli, raccolti nel 1982 da Adelphi come La ragione errabonda, furono il mio nutrimento, il cibo di uno che ausculta il linguaggio, sa di essere niente ma sa i suoni, il frinire di una frase. Amo l’indipendenza austera del pensiero di Colli, che si esprime in cunei di aristocratica e articolata rivolta (“L’educazione dev’essere sottratta all’Università. La scuola non può essere riformata, ma solo combattuta”; “Non si deve permettere di deridere la cultura: condizione per questo è di mettere fuori legge i rappresentanti della cultura”) e mi sono fatto il cervello – idiozia congenita permettendo – addestrandomi, a ritroso, sulla sua ‘Enciclopedia di autori classici’, la collana, di madornale bellezza, curata, dal 1958, per Boringhieri, dove allo stesso tavolo stavano Nietzsche e Hölderlin, Leopardi e Isaac Newton, Gorgia e Abhinavagupta, l’arciprete Avvakum e il “canone buddhistico” e Stendhal e Tucidide e Freud e la cabbala ebraica, secondo una visione anticulturale, onnivora, sapiente, che mi ricorda, in altro campo, il ‘Museo immaginario’ di André Malraux. Ma io, appunto, sono solo un lettore vagabondo, uno stregone di immaginari. Federica Montevecchi, filosofa, autrice, con Vittorio Foa, di Le parole della politica (Einaudi, 2008), ha scritto, per Bollati Boringhieri, la Biografia intellettuale di Giorgio Colli e quest’anno, per Luca Sossella Editore, è uscita con un libro minimo (66 pagine per 9 euro) ma decisivo, Sull’Empedocle di Giorgio Colli. Le prime venti pagine del pamphlet sono uno straordinario compendio all’opera culturale di Colli, delineando le liti e le perplessità in seno a Einaudi, le difficoltà da parte dei guru dell’editoria ad accettare lo sguardo non allineato, non ideologico del sapiente che ha lottato, ad esempio, per farci leggere Nietzsche come va letto, senza patine politiche. La porzione dedicata a Empedocle, invece, ci fa capire il Colli esegeta della grecità, un vero rivoluzionario, secondo cui con la ‘filosofia’ comincia il distacco, definitivo, dalla vitalità della sapienza (“Quando appare l’ironia, si annuncia un pericolo di malattia per l’intelletto. Per questo l’iniziatore della decadenza è spesso anche l’uomo dell’ironia, come Socrate”).
Partirei dall’ostilità di Giorgio Colli – testimoniata anche da quanto scrive sui quaderni colti come “La ragione errabonda” – verso l’accademia ‘ufficiale’. Da cosa nasce questa ostilità e quale alternativa educativa propone Colli?
Alla radice del difficile rapporto di Colli con l’accademia c’è la convinzione, di matrice burckhardtiana, della contrapposizione fra Stato e cultura, risolta teoreticamente in quella fra potenza e grandezza. Se la potenza è impulso diretto verso l’esterno e contro altre potenze che la ostacolano, la grandezza, invece, è pur sempre potenza, ma volta alla scoperta dell’interiorità più profonda, che non si consuma quindi nella lotta, ma trova soddisfazione nella conoscenza. Va da sé allora che la cultura non può seguire i percorsi del sapere accademico, per natura statale, gerarchico, quindi violento, oltreché legato ai mutamenti storici e di conseguenza alle mode. Coerente con questa idea di grandezza la posizione antiaccademica di Colli non si è mai trasformata in polemica oppure in ritiro dal mondo, ma è diventata azione culturale che si è espressa sia nel lavoro editoriale sia nell’esercizio ininterrotto di una vera e propria paideia, cioè di un’azione educativa capace di agire non su tutti, ma sugli individui che non possono riconoscersi nel sapere statale. Con costoro Colli costruì un cenacolo, governato da philia e da desiderio di conoscenza, che sostenne importanti progetti editoriali tesi a formare una società ideale di lettori, dove studiosi, spesso giovani, potevano trovare sostegno ed educazione. Basti pensare che l’edizione Nietzsche fu realizzata da Colli insieme a Mazzino Montinari, suo antico allievo di liceo.
La cultura polimorfica di Colli ha fatto sì che ogni idea ‘filosofica’ s’incarnasse in un progetto editoriale per tutti. La collana studiata per Boringhieri è un esempio forse unico nella storia dell’editoria italiana. Nel libro lei fa riferimento a contrasti, però, nati in Einaudi. Non tutti appoggiarono le idee di Colli, anzi… Come mai?
Sì, gli importanti progetti editoriali legati al nome di Colli hanno proprio la caratteristica di dar conto del suo percorso teoretico – che si dipana sopratutto attorno allo studio dei Greci antichi e di Nietzsche – e, al tempo stesso, di essere una risorsa per chiunque e per sempre: non a caso il termine classico definisce sia la collana di Einaudi sia quella di Boringhieri. Proprio per questo Colli incontrò molti ostacoli sulla sua strada: quanto proponeva, infatti, non era destinato al consumo ideologico immediato, come ebbe a dire Montinari, cioè non rispettava le culture idealiste, marxiste, cattoliche in voga al tempo. In particolare furono Norberto Bobbio e ancora di più Delio Cantimori, punti di riferimento della casa editrice Einaudi e della cultura italiana del dopoguerra, ad opporsi alle proposte di Colli contribuendo di fatto alla separazione dalla casa editrice prima di Boringhieri, poi di Luciano Foà fondatore, con Bobi Bazlen, dell’Adelphi. Furono questi gli editori che permisero a Colli di estendere e di portare a compimento i suoi progetti editoriali, in particolare quello su Nietzsche, già formulati negli anni einaudiani.
Agonismo (la “polis considerata quasi un teatro dell’ostilità dove il confronto diventa la forma privilegiata, se non esclusiva, dell’espressione vitale”) ed enigma sembrano essere per Colli la quintessenza della ‘grecità’, che va via via a decomporsi con l’epoca ‘dei filosofi’ propriamente detti. Da dove arriva questa intuizione?
Arriva dal coraggio di indagare la natura del logos guardando direttamente ai secoli remotissimi da cui discende il nostro modo di pensare. Alla tradizionale prospettiva del dopo, cioè ad Aristotele e alla ripresa che ne fa Hegel, Colli oppone la prospettiva del prima, cioè tenta di situare lo sguardo sullo sfondo oscuro da cui deriverebbe la sapienza. Da questo sfondo scaturirebbe l’enigma, espressione di quella che io definisco polarità fra la ragione e ciò che ragione non è pur essendone condizione, ossia fra logos e alogon: l’enigma infatti pone all’uomo la sfida agonica, conflittuale, di decifrare il punto di vista del dio, il tutto, che per natura però è indicibile e irrecuperabile. Quando l’enigma diventa dialettica, vale a dire puro e autonomo gioco intellettuale, la ragione si separa dall’opposto da cui scaturisce degenerando in filosofia, perdendo cioè la sua vitalità, per natura tragica: da qui l’illusione e la presunzione di poter conoscere e controllare tutto. Questa di Colli è tanto un’originale lettura dell’antichità greca e della storia della razionalità occidentale quanto il preludio a una dottrina autonoma, cioè a filosofia dell’espressione.
Cosa intende Colli per ‘filosofia dell’espressione’?
Intende affermare che tutto ciò che viviamo è rappresentazione nel senso di repraesentatio, cioè rievocazione di un’esperienza vitale, di una dimensione extrarappresentativa destinata a restare nascosta, in cui soggetto e oggetto sono ancora indistinti. Colli indica questa dimensione con il termine immediatezza, a negare appunto la mediatezza, vale a dire l’attributo essenziale della rappresentazione, e con essa la validità di ogni tentativo che si proponga di definire in positivo ciò che si può presentare soltanto come un rimando della memoria e come un riferimento imposto dal pensiero quando si avventura nella riflessione sul principio: una riflessione che incrementa lo sviluppo logico-espressivo per sconfinare però nel silenzio, non nel raggiungimento della definizione di quanto va cercando di recuperare. Questa impossibilità linguistica può essere intesa come conferma della radicale alterità della dimensione extrarappresentativa cui la rappresentazione necessariamente rinvierebbe risultandone espressione: alterità alogica rievocata, ma non del tutto contenuta dalla rappresentazione e per questo irriducibile a qualsiasi mediazione del logos.
In Empedocle il detto filosofico si esprime in poesia, come se la ragione filosofica autentica seguisse altre vie grammaticali che la ‘logica’: è così? Come mai?
È così. Empedocle può essere considerato uno specchio della filosofia dell’espressione poiché esprime con la sua stessa esistenza, in cui non di fissa in alcun ruolo definitivo, l’eterogeneità della rappresentazione rispetto alla sua radice. Un’eterogeneità che, secondo Colli, riaffiorerebbe anche nei suoi versi, in cui l’assenza di astrazione darebbe conto di una straordinaria ricchezza intuitiva, di una vita concreta che però rinvierebbe a una radicale trascendenza cui è legata da un gioco senza fine di vicinanza e distanza. Non a caso Empedocle sente la necessità di inventare nuovi termini, non logorati dall’uso, che sappiano dare ospitalità alla sua conoscenza, fra tutti trovo straordinario l’aggettivo amouson del frammento 74DK che indica l’estraneità alla Musa, cioè la dimensione silenziosa. In più che la poesia di Empedocle sia linguaggio della conoscenza lo dimostra il fatto che essa non si può ricondurre ad alcun canone poetico, volta come è a restituire in maniera diretta, cioè senza alcun raddoppiamento espressivo, la radice nascosta della conoscenza.
L’Empedocle ‘di Colli’ è nutrito, d’altronde, di poeti. Di Hölderlin, ad esempio: il suo “Empedocle” è insediato da Colli nel progetto editoriale edito da Boringhieri. Che valore ha la poesia nel pensiero di Colli, nel pensiero in assoluto?
Sopratutto è nutrito di Hölderlin, che per Colli ha vissuto, sentito e scritto come un greco, come mostrano i suoi versi appunto e per questo ha reso possibile la comprensione di Empedocle, svincolandolo dalle categorie descrittive e svalutative con cui è presentato dalla storiografia ufficiale. La poesia in generale, e mi sento di dire anche per Colli, dà conto del sentire che precede e sostiene il capire rappresentando la forma di scrittura più vicina alla parola viva e feconda dell’oralità, cioè meno cristallizzata. Sulla quiete di morte della scrittura filosofica e della scrittura in genere Colli si è interrogato a lungo e quando ha deciso di scrivere lo ha fatto mostrando che la parola scritta può essere vitale, per quanto non più viva: i suoi scritti, infatti, hanno uno stile che non ha nulla a che fare con la scrittura saggistica, in genere standardizzata oppure compiaciuta. In tal senso la poesia e la scrittura sono esse stesse pensiero e non meri strumenti di comunicazione.
Oggi. Mi pare che di Colli si dica troppo poco. Come mai?
Per lo stesso motivo per cui non se ne è parlato in passato. I pensieri eretici hanno la forza della sfida: accoglierla significa scegliere di misurarsi sul terreno dell’esistenza, cioè di un’intellettualità che sia costume. Ciò non toglie che da un punto di vista speculativo trovo interessanti tutti i tentativi, come quello di Mario Perniola nel suo volume Estetica italiana contemporanea (Bompiani 2017), di porre il pensiero di Colli in relazione con la contemporaneità, nella speranza che essi contribuiscano a far conoscere un pensiero straordinario e vitale, capace cioè di fecondare altri pensieri.