27 Maggio 2021

“Si può sempre sperare. Se non si tenta non si riesce”. Dialogo con Geneviève, ebrea

In un sobborgo di Parigi, primavera 2018, ancora lontani dalla pandemia. Un impegno decennale nel consiglio municipale del nostro comune e grande senso dell’umorismo che significa il distacco della saggezza. Nel gruppo parla sempre poco, ma quando decide di farlo, non vola una mosca. Accetta di incontrarmi in un vecchio mulino del 1911 ripristinato e trasformato in un caffè da una cooperativa sociale con il sostegno del sindaco. L’ambiente è accogliente, caldo, familiare come quello che esprime l’apertura al prossimo. Ha appena trascorso un periodo difficilissimo e penso non le importi nulla in termini narcisistici dell’intervista e meno che mai della foto. La cosa non la infastidisce né l’intriga. Poco prima di posare per Cristina mi guarda e dice: “Ho accettato perché ho capito che per te era importante, allora volevo farti felice”.

Geneviève, ebrea; photo Cristina Dogliani

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1. Come ti chiami, e perché i tuoi genitori hanno scelto proprio questo nome?

Geneviève – Mi chiamo Geneviève, sono nata da un papà di origine polacca e da una mamma di origine egiziana nel 1942, a Monpellier, in una clinica di suore cattoliche in cui lavorava il mio papà che era chirurgo. Quindi… non poteva darmi di certo un nome ebraico in una clinica di suore (ride), per giunta nel ’42! Per fortuna, e ne era felice, ha avuto una femmina e non un maschio, perché se avesse avuto un maschietto sarebbe stato obbligato a farlo circoncidere: ora nel ’42 non era proprio consigliabile di far circoncidere un bambino… Allora ha scelto il nome di una cognata di mia madre che si chiamava Geneviève, di famiglia molto cattolica, anche se i miei altri due nomi sono Cécile e Edith.

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2. Se non ti chiamassi in questo modo, che nome sceglieresti se potessi prenderlo in prestito ad un personaggio storico o reale del passato o del presente?

GenevièveStorico? Non un nome che in genere ci piace? Amo moltissimo il nome della signora Marie Curie, ma credo che in realtà si chiamasse “Maria”… o Simone Weil. Simone non è forse un bel nome, ma la persona mi piace moltissimo.

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3. Sai che questa intervista anticipa il mio prossimo progetto letterario in cui sono intervistate persone note o sconosciute che avrebbero potuto condurre una vita comoda e vivere con tranquillità e facendo finta di nulla, ma che han deciso di sobbarcarsi rischi, disagi di ogni genere ed il biasimo della famiglia, degli amici e\o della società, per aver compiuto scelte “scomode”. Tu, secondo te, perché sei seduta su questa sedia e stai per essere intervistata?

Geneviève – Perché avevo voglia di una cioccolata calda (dice indicando la tazza che stringe fra le mani) …e di incontrare una donna affascinante che ho conosciuto al dialogo interreligioso (ride con il suo sorriso bellissimo, stringendo gli occhi luccicanti e azzurrissimi. Rido anch’io con lei). Scusa, forse sono al di fuori della questione…

M.D. – Ma no! Te l’ho detto: sei libera di rispondere come vuoi (le dico, continuando a ridere).

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4. Ne L’Arte della guerra, scritta fra il 1519 e il 1520, Machiavelli diceva che “Gli uomini che vogliono fare una cosa, debbono prima con ogni industria prepararsi per essere, venendo l’Occasione, apparecchiati a soddisfare a quello che si hanno presupposto di operare” (p. 346). Nelle piccole cose, o ancor più nelle grandi, è sufficiente impegnarsi con ogni industria, con grande zelo, tenacia e ostinazione, o si ha anche bisogno dell’Occasione?

Geneviève – (Riflette). Penso che personalmente improvviso al momento dell’Occasione, ma anche che, in virtù del mio passato, sono spesso apparecchiata a poter rispondere a più tipi di questione.

M.D. – E a che passato ti riferisci?

G. – Alla mia esperienza di consigliera comunale, per esempio. Sono stata per diciannove anni consigliere comunale e assistente dentale per quarant’anni, il che vuol dire lavorare a stretto contatto con persone che spesso soffrono o che abbiamo potuto guarire semplicemente facendo aprire loro la bocca. Quindi ho comunque esperienza dell’umano.

Manuela Diliberto e Geneviève; photo Cristina Dogliani

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5. A cosa pensi, cosa provi nei momenti più duri quando hai tutti contro e le critiche si abbattono numerose? A quale forza ti sei aggrappata?

Geneviève – Alla collera (risponde tutto d’un fiato).

M.D. – Alla collera… (Ripeto stupita).

G. – La collera mi dà la forza. (La guardo con aria interrogativa) …Perché la collera mi fa reagire; se sono in collera non crollo…

M.D. – E davanti alle critiche? È sempre la collera che ti dà coraggio?

G. – Forse è la collera che interviene in un primo momento, ma sono per la conciliazione ad ogni modo, perché ho fatto politica, e per me la politica è prima di tutto conciliazione.

M.D. – Quindi, quando tutti ti criticano, prima ti metti in collera e poi…

G. – E poi reagisco e trovo delle soluzioni per riconciliarmi o… per sbattere la porta. Mi alzo, sbatto la porta e me ne vado. Così, niente storie.

M.D. –E quando ti senti crollare?

G. – C’è la collera.

M.D. – (La guardo ammirata). No, sei la prima persona a rispondere così. Ed è molto interessante.

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6. Cosa fa la differenza fra il decidere di intraprendere la via più tortuosa e, invece, il far finta di niente?

Geneviève – La differenza la fa la fiducia in se stessi prima di tutto. Amare se stessi e avere fiducia in sé ti aiuterà certamente a spostare le montagne. Se invece non ti senti capace, se ti hanno sminuito e non ami te stesso, in ogni caso – tortuoso o agevole – non riuscirai a compiere nulla.

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7. Una grande pena, una grande apprensione o una grande paura, possono giustificare la defezione da una scelta che in determinate circostanze può rivelarsi fatale sia per se stessi che per la collettività? Fino a che punto ci possiamo scusare quando a pagare per la nostra inerzia è anche qualcun altro?

Geneviève – (Per spiegarle la domanda le parlo di Falcone e Borsellino e di Simon Wiesenthal) Non mi sono mai impegnata in una lotta o in una ricerca di riconoscimento della Shoah. Mai. E non so come reagirei se dovessi, denunciando qualcuno, sentire la minaccia sui miei figli o i miei nipoti. Ti posso però dire che un giorno ero davanti ad un bancomat fuori dalla banca per andare al mercato e ritirare i miei 30 euro, quando qualcuno mi si è avvicinato e con la scusa di farmi firmare una petizione ne ha battuto 300. Io son riuscita a dargli una spinta così grossa da farlo cadere su alcune biciclette che sono cadute con lui, evitando la rapina. Ecco, ti posso dire che mai avrei immaginato di possedere una tale forza in una circostanza simile… Ho reagito. (Adesso penso che se avessi tenuto a mente le parole di Geneviève, l’anno dopo avrei avuto di certo un altro atteggiamento quando due bambini rom mi batterono 900 euro in una trafficatissima strada di Parigi, scappando invece con il malloppo).

M.D. – Ma tu scusi le persone che…

G. – Ci sono persone che non hanno la forza il coraggio. Sì, le scuso. Posso capirle.

M.D. – Anche se a pagare è qualcuno che ami?

G. – Non lo so, non posso dirtelo, ma posso capire la vigliaccheria delle persone. La posso capire…

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8. Un mio conoscente conserva ben in mostra fra i suoi libri, nella libreria del suo salone, una copia di Mein Kampf. Davanti al mio stupore e alle mie domande ha spiegato seraficamente che si tratta dell’omaggio che i suoi genitori ricevettero il giorno del loro matrimonio in Germania, negli anni ’30, come si usava fare per le coppie di giovani sposi, e che per lui non si tratta che di un caro ricordo di famiglia, e niente di più. Pensi che la sua spiegazione e la sua scelta siano comprensibili e legittime?

Geneviève – Sì. È un libro che non leggerei mai e che non entrerebbe mai a casa mia, questo è certo! Ma posso capire che ai suoi occhi rappresenti un ricordo dei genitori. Non gli farei neppure delle osservazioni: è la sua opinione.

M.D. – Perché per lui ha quel significato?

G. – Perché per lui ha quel significato. E non è antisemita o… no, rappresenta i suoi genitori, e questo è quanto! (Fa una pausa) Io la prendo in questo modo.

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9. Se non fossi te ma fossi un’altra persona e ti incontrassi e avessi occasione di conoscerti un po’, con che parole descriveresti Geneviève? Che descrizione ne daresti?

Geneviève – È una donna di settantacinque anni… almeno, sembrerebbe che abbia settantacinque anni (rido pensando a quanto mi sia caro il suo senso dell’umorismo). Io gliene darei settanta: usa di certo un’ottima crema per il viso! Ha un buon contatto con le persone… (riflette un po’). Non lo so, non so come mi vedrei. Bisogna parlare con le persone per conoscerle, chiacchierarci un po’. Se la incontrassi, così, penso che la troverei simpatica, un po’ all’antica, ma in complesso… non male! (Ridiamo insieme).

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10. Se non fossi Geneviève, chi vorresti essere?

Geneviève – Ho pensato spesso a questo. Di certo una donna, quello è sicuro… Perché sono abbastanza femminista. (Fa una pausa per riflettere). Non so se avrei il coraggio di Simone Weil che per me è qualcuno di molto importante… Senza averne il coraggio, sì, forse Simone Weil.

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Domanda Personale. Secondo te che posto deve occupare la religione in una società laica?

Geneviève – Quello della sfera privata. Non deve entrare nella sfera pubblica.

M.D. – Ed è possibile?

G. – Ah, ! Io lo faccio. E la gente che frequento – degli altri non so perché non li frequento – mi rispetta in questo senso.

M.D. – E che significa per te la parola “interreligioso”?

G. – Per me è una cosa nuova e non ci credevo neanche. Non immaginavo mai che fosse fattibile. Poi mi sono accorta che funziona benissimo, che ci si può riuscire (dice quasi con gioia). Anche se non sono completamente “ottimista”. Penso cioè che ci sia bisogno di molto lavoro… e di molto impegno. E anche di mostrare la nostra parte migliore.

M.D. – Sì, è vero.

G. – …Quindi di dare il meglio di noi stessi.

M.D. – E secondo te ne vale la pena?

G. – Si può sempre sperare. Se non si tenta non si riesce. (Rido e ride anche lei con me, passando dal riflessivo al faceto, come fa spesso).

M.D. – Ecco! La chiusa perfetta! (Ridiamo ancora).

Manuela Diliberto

*In copertina: Geneviève, ebrea, in un ritratto fotografico di Cristina Dogliani. 

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