
“Il mio amante ha le virtù dell’acqua”. Una poesia di Victor Segalen
Poesia
Giorgio Anelli
L’arte della fuga. La fuga, in realtà, prevede il ritorno. Secondo la formula musicale, un tema è inseguito, rincorso, morso dalle diverse elaborazioni del medesimo. Come il rimorso e il rammarico sono i cani che inseguono il fuggitivo. Di fughe ne esistono, sullo stesso pentagramma, molteplici. Ad ogni fuga – che non ammette altra dedizione che la malinconia – si allinea il ritorno. La storia artistica di Paul Gauguin, alternata tra fuga verso i miti polinesiani e ritorno, tra l’ansia selvatica e il tremore trecentesco, si può comprendere attraverso l’arte della fuga.
La fuga moltiplicata. Non esiste una fuga – ma la marcia. Gauguin, come si sa, fugge dalla vita borghese: alla professione – remunerativa – da cambiavalute sceglie di amare la povertà che è il premio che l’arte assegna ai suoi prediletti. Fugge il matrimonio; fugge la paternità. Fugge l’Occidente. Fugge Van Gogh. La sua fuga – che è un contrappunto di ritorni – continua nella storia dell’arte: fugge l’accademia, fugge l’impressionismo, fugge il banale ‘primitivismo’. La sua fuga, micidiale e tragica, attraversa le grotte di Lascaux, i sacrifici celtici su una pietra candida come il sole, le pitture ‘negre’ di Goya e quelle negre dell’Africa, il sussulto del Trecento toscano – Gauguin ci appare come il Beato Angelico dei mondi tropicali, enigmatici – i Crocefissi di Lima, la città australe dove è cresciuto Paul, con i capelli e i denti e il sangue veri applicati al legno – scolpito come fosse carne, come fosse un gesto di mistica macelleria. Fuga e ritorno nel gorgo dei millenni, dalla nascita dell’alfabeto alla Parigi d’avanguardia, tra Pascal, Montaigne e la ghigliottina. Una fuga moltiplicata: quando sta sdraiato nella sua “Casa del Piacere” a Hiva Oa sogna con l’occhio destro la Francia dei pittori, con il sinistro altri luoghi inesplorati, dove l’uomo sa essere giaguaro e falco, si confonde con il frinire delle foglie.
Fuga totale. “La storia dell’Occidente è una fuga perpetua: colonie di nomadi hanno colonizzato le terre dell’Ovest, da Est e da Sud. Gli europei hanno misurato la propria avidità comparandola all’oceano. Una furia del tutto particolare possiede l’uomo occidentale. Non avendo pace, trova il modo di imporre la guerra ovunque – sa di essere la creatura del tramonto e per schivare la morte, la anticipa”, scrive Friedrich Khan in Storia di un tramonto.
Una teologia di fuggiaschi. L’europeo non vive, osserva; non si lancia, studia. L’antropologia è il modo con cui l’uomo occidentale si riappropria di ciò che ha perso – irrimediabilmente. L’occidentale conosce i riti polinesiani meglio di chi li ha praticati – perché le verità vanno dimenticate. Mentre dipinge, Gauguin scrive, riscrive, rivive e interpreta la mitologia tahitiana. Ne difende il carisma, contro lo strapotere del Dio ebraico con ceffo luterano o vescovile, è lo stesso. Gli dèi europei sono decapitati, sconfitti, linciati – il ‘capitale’, l’eredità celeste, è il Dio fatto Uomo, giunto di bocca in bocca, da Gerusalemme a Roma, ebreo. Chi ricorda il marasma divino etrusco, il dio sannita, la trama teologica dei Pitti e dei Teutoni, l’eroe plasmato nel ghiaccio dei vichinghi – poi sciolto sotto il sole cristiano di Sicilia? Non conosciamo più l’identità del Po o dell’Arno o del Reno, perché comunque ci battezziamo nel Giordano. La teologia dell’uomo europeo è fondata sulla fuga – una volta raggiunta la vita eterna, non potremo far altro che schivarla predisponendoci alla rinascita: meglio una vita da fuggitivo che un’esistenza da angelo.
Decalogo dell’artista in fuga. Gauguin nomina la dimora polinesiana “Casa del Piacere”. All’ingresso, a destra e a sinistra, di fianco al nome della casa, il pittore incide due scritte. Da un lato, Siate innamorate e sarete felici; dall’altro, Siate misteriose e sarete felici. Entrare nella casa del pittore – cioè, nella sua opera – è un rito. Che ha come fulcro l’eros – il collante teologico di tutte le religioni, tranne quelle monoteiste, che hanno risolto eros nel suo contrario, la morte, posticipando l’era dell’amore nella vita oltre questa vita. Il Dio ebraico ama perché distribuisce la morte – Gesù perdona ogni colpa perché punito indistintamente per ogni colpa. Nella casa di Gauguin l’amore coincide con il mistero – il frutto per chi esplora i misteri attraverso la disciplina indisciplinata dell’amore è la felicità. Alla base di queste scritte, che sono il preludio alla casa-opera di Paul, pittore totale, c’è il cristallo indistrutto, la realizzazione ultima: Te Atua. Che significa, “gli dèi sono morti”. Gli dèi esotici, quelli australi, quelli europei e quelli del Sinai sono morti. Accedere all’amore comporta la scoperta del deserto – la desertificazione degli dèi. Pericoloso è fare ingresso nell’opera di un artista. Non è l’artista, come Giona, a scappare da Dio; l’artista mette in fuga gli dèi, terrorizzati dalla sua creazione. L’artista è l’uomo che decapita Dio.
Il gemello fuggiasco. Victor Segalen ha 30 anni in meno di Paul Gauguin. Di anni ne ha 24 quando s’imbarca, imbevuto di fughe esotiche, per la Polinesia. Per la precisione: è il 1902. “Ho avuto il gran dispiacere, Signore, d’arrivare nelle Isole Marchesi troppo tardi per poter assistere Gauguin nei suoi estremi momenti”, scrive Segalen, imbarcato come medico di marina, a Georges-Daniel de Monfreid, che di Gauguin è stato amico e confidente. La lettera è del 29 novembre 1903. Gauguin muore l’8 maggio. Segalen manca l’appuntamento con le ultime volontà del più grande pittore del mondo moderno, il Giotto contemporaneo, di una manciata di settimane. “Gauguin fu un mostro. Non possiamo cioè farlo rientrare in nessuna delle categorie morali, intellettuali o sociali, che bastano a definire la maggior parte delle individualità. Gauguin fu un mostro, e lo fu totalmente, imperiosamente. Fu diverso e, in tutto, eccessivo”, scriverà Segalen, con calma, sul Mercure de France, nel giugno del 1904, nel testo più profondo sul pittore francese, Gauguin nel suo ultimo scenario. Segalen ha capito, infatti, che Gauguin non è semplicemente un pittore, ma è un simbolo. Dopo Rimbaud e dopo Gauguin – che ne è l’autoritratto ebbro – è possibile fare arte morendo nell’atto stesso di compierla. Fare arte, per Gauguin, è uccidere l’Occidente, certo (Paul, per testimonianza di Segalen, si erge a difensore – non richiesto – dei nativi contro l’ingerenza della burocrazia francofona e del Dio ebreo declinato alla Vaticana o alla luterana: “ha appena preso di petto un gendarme a Hiva-Pa, buscato tre mesi di prigione e finito col morirne”; “era amato dagli indigeni che difendeva contro i gendarmi, i missionari e tutto il solito materiale da ‘civilizzazione’ omicida”). Ma fare arte, soprattutto, è suicidio.
Fuga dall’arte. “Eravamo ai primi mesi del 1903. Soltanto in giugno o in luglio mi giunse quest’annuncio: ‘Ah! Gaguin è morto’”. Segalen, riconoscendo una sorta di paternità in Gauguin, lo stava inseguendo. “Uno mi diceva: ‘Gauguin? Un pazzo: dipinge cavalli rosa!’. Un magistrato: ‘Gauguin ci dà molto filo da torcere!’. Una persona pia: ‘Si genuflette tutti i giorni davanti a un fantoccio di terracotta, e sostengono anche che adora il Sole’”. Segalen si precipita a casa di Gauguin. Troppo tardi. Trova il “fantoccio di terracotta”, che descrive come “un Budda nato tra i Maori”, o meglio, come “la robusta realizzazione della risalita divina, dell’emergere del creatore quale forse fremeva in Gauguin”. Si applica anche a salvare il salvabile, cioè ad acquistare i quadri che sono scampati all’omicida messa all’asta da parte dei burocrati. Questo compito è definito da Segalen “ultimo, doveroso atto di pietà artistica – per salvare dalla dispersione le poche opere – reliquie – che lasciava”. Tra le tele – una stretta manciata – quella che “m’è preziosa”, pur “in condizioni deplorevoli”, ci dice Segalen, s’intitola Verso il Golgota ed è “un accorante ritratto di Gauguin a mezzo busto e con un sorriso triste”. Una sorta di revisione dell’Ecce Homo di Antonello da Messina. Gauguin ha capito che compiendo l’arte, l’artista disperde se stesso – l’arte sta tra Getsemani e Golgota. Infine, per l’artista, l’arte è una precipitosa fuga dall’arte. Annichiliti dall’opera, eretti, imbambolati, assorti restano i visitatori dei musei e i collezionisti. Incapaci nella fuga.
Fuga sfuggente. Nel suo “diario di viaggio” polinesiano Victor Segalen svela qualcosa di più. Il medico-poeta è attratto “soprattutto da quella cassa di carte in cui sarei tanto curioso di attingere…”. Tra le carte ci sono anche i fogli del testamento artistico ed esistenziale, Noa Noa. In qualche modo il virus della fuga passa da Gauguin a Segalen. Appena tornato in Francia, Segalen si guadagna da vivere nell’ospedale marittimo di Brest e si mette a studiare il cinese. Se Gauguin è andato oltre l’Occidente, Segalen vuole percorrere a ritroso, verso Est, la storia della civiltà. Nel 1909 parte in Cina come interprete della Marina. Di lì a poco diventerà un audace archeologo e un poeta meraviglioso. Nel 1912, a Pechino, pubblica Steli, una raccolta di poesie ispirate all’antica Cina e alle iscrizioni miliari che costellano le sue vie. L’opera di Segalen, pionieristica, sarà necessaria alle escursioni cinesi di André Malraux e di Ezra Pound. Ma lui, Segalen, morirà, fuggendo la fama, nel 1919, a 40 anni, in un bosco francese, accidentalmente. L’opera autentica nasce contrastando gli sguardi, in aperta ostilità, in fuga. Nel bosco, aveva con sé una copia di Amleto, il poeta. (d.b.)
*In copertina: Paul Gauguin, Autoritratto, 1889