Neuchâtel dev’essere quello che si definisce un paesino tranquillo, perduto nelle valli svizzere. Vi si aggirava un signore tranquillo e modesto ma geniale, Friedrich Dürrenmatt, morto nel dicembre del 1990. Scrittore prolifico e raffinato, autore di romanzi, racconti e opere teatrali, è stato cultore del grottesco e dell’ambiguità, feroce critico della contemporaneità e minuzioso analista del torbidume in cui l’uomo sguazza. Dürrenmatt era affascinato dal mistero e dalla fatica che sbrogliare i misteri costa. Soprattutto quando misteri in realtà non sono ma trappole tese dal machiavellico accoppiamento di virtù e fortuna, cioè di abilità umana nel gestire il caos. È qui che si annida forse il miglior Dürrenmatt: nei gialli. O, sarebbe meglio dire, negli anti-gialli.
La letteratura criminale (gialla o noir che sia) mostra la faccia nascosta del consorzio umano. Macabra, oscura, fatta di ossessioni, devianze, sangue e morte. Quando è ben fatta, cioè raramente, può essere grande letteratura sociale o psicologica: il crimine ha mosso la penna di scrittori tra i migliori di sempre (in fondo, Delitto e castigo è un immenso noir). Inoltre Dürrenmatt capì più e meglio di altri che il giallo classico è l’ultima forma di letteratura teologica. La struttura è semplice: il mondo è ordinato e gli uomini vivono in armonia; un delitto rompe l’equilibrio; allora l’investigatore, a mo’ di laico sacerdote, è chiamato dalla società a stabilire la verità, cioè cos’è successo e chi è stato; infine, l’equilibrio viene ristabilito: la verità è data e il criminale consegnato alla giustizia, così che gli uomini possano tornare a vivere nell’ordine e nell’armonia. Perché ciò sia possibile, è necessario che ordine nel mondo e armonia tra gli uomini siano garantiti. Perciò, come qualcuno ha detto, il giallo presuppone l’esistenza di Dio. In un mondo in cui Dio è morto però, tutto si scompagina, non c’è un ordine da ristabilire e l’investigatore da sacerdote può farsi demonio. E si spalancano le porte per il male puro e semplice, il volto macabro del mondo, tanto evidente quanto invisibile.
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Il male, puro e semplice
“Non esiste una giustizia – come potrebbe essere giusta la materia? –, esiste solo la libertà, che non può essere meritata – altrimenti ci vorrebbe una giustizia –, che non può essere data – chi potrebbe darla? –, ma che bisogna prendersi. La libertà è il coraggio del crimine, perché essa stessa è un crimine”. Così si esprime il gigantesco criminale de Il sospetto, assurdo romanzo in cui l’investigatore intrappola il criminale, che a sua volta intrappola l’investigatore. In barba a qualsiasi concezione di giustizia tra gli uomini che non sia la giustizia del sangue, mossa appunto da un sospetto.
Se Dio non c’è, tutto è permesso. Questa citazione dostoevskiana, tanto abusata, è un pilastro nell’architettura dell’opera di Dürrenmatt. Se il male è necessario, per quanto incomprensibile, parte dell’architettura divina, e verrà infine riscattato, allora il male è ammissibile. Desacralizzato, il male è percepito come banale, spietato, terreno e inappellabile, capriccio dell’uomo contro l’altro uomo. Cosa può allora la giustizia dello Stato, smilza e rituale, fatta di giudici e poliziotti, contro una forza così distruttiva?
“Non dobbiamo cercare di salvare il mondo, ma di resistere, l’unica vera avventura che ancora ci resti in quest’epoca tarda”
sentenzia un grottesco personaggio de Il sospetto, un ebreo errante che vive di notte al solo scopo di uccidere i nazisti che l’hanno fatta franca. Nel romanzo infatti è proprio l’ebreo seviziato e divenuto assassino a rappresentare l’unico antidoto al male, e non il commissario Bärlach, semplice motore della vicenda, non a caso malato e recluso in ospedale.
I personaggi di Dürrenmatt sono turbati di fronte alla perfidia e all’insensatezza del crimine disumano. In Giustizia “Il comandante era disperato … Un omicidio senza motivo per lui non era un delitto contro la morale, bensì contro la logica”. Ma può accadere perfino, Dürrenmatt lo mostra ne La panne, che il male possa essere così banale e insensato da non aver nemmeno bisogno di essere pensato. Degli anziani, giudice, pubblico ministero, avvocato e boia in pensione, si divertono a proseguire le proprie carriere a cena, inscenando dei processi con gli ospiti nel ruolo di imputati. Quando al protagonista, un commerciante capitato lì percaso, perché la sua macchina è in panne, viene chiesto di quali reati è colpevole, si dichiara innocente. “‘Innocente?’ si meravigliò il pubblico ministero. […] ‘Dobbiamo esaminare il suo caso’”, si sente rispondere, “‘ciò che non può esistere, non esiste’”.
Un delitto i vegliardi glielo trovano anche se apparentemente non ce n’era alcuno, e quando il pubblico ministero chiede la condanna a morte, l’imputato è contento. Da piccolo borghese dedito all’accumulo di denaro, l’idea di essere un assassino, di essere capace di fare il male, lo rende entusiasta.
“Egli godeva, in mezzo a quella compagnia di amici comprensivi, di essere finalmente sé stesso, di non avere più segreti perché non occorreva averne più nessuno, di essere stimato, onorato, amato, compreso, e il pensiero di aver commesso un delitto lo convinceva sempre più, lo commoveva, trasformava la sua vita, la rendeva più difficile, più eroica, più preziosa”.
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L’investigatore, amministratore del caos
Se il mondo non è ordinato e gli uomini vivono in armonia apparente, la figura dell’investigatore classico come laico sacerdote non ha più senso. Il mondo è caotico, allora l’investigatore non può che essere amministratore del caos. Dürrenmatt gioca a carte scoperte. Non è autore da sbirciare dallo spioncino: quel che intende dire, lo dice. Perfino con eccessiva chiarezza. Nel poscritto a La promessa, Dürrenmatt ci avvisa che “da un caso in particolare sono arrivato al caso del detective in genere, alla critica di uno dei più tipici personaggi ottocenteschi”.
Gli investigatori di Dürrenmatt sono atipici. Non perché li abbia arricchiti di guizzi balordi, come qualche giallista di second’ordine ha pensato di fare, rendendo gli investigatori violenti o ubriaconi, drogati, viziosi. No, semplicemente l’investigatore non crede più nella giustizia perché non sa definirla. O meglio, ci crede, ma se gli si chiedesse perché non saprebbe rispondere. Affronta il criminale faccia a faccia, senza inseguirlo nei termini di legge, gli tende una trappola e lo incastra. Sente che bisogna stabilire il bene e estirpare il male, cioè il crimine, ma non è sicuro, tituba, vede sfumare il confine tra giustizia e abuso, tra liceità e criminalità. E capisce che per stabilire il bene bisogna anche praticare il male, che si può governare il caos del mondo a patto di partecipare allo stesso caos.
Il commissario Bärlach ordisce, ne Il giudice e il suo boia, un piano criminale per ristabilire giustizia. Completamente al di fuori del perimetro della legge, Bärlach sa di essere nel giusto, ma non può dimostrarlo, può solo agire. Il criminale (come spesso accade in Dürrenmatt) fronteggia l’investigatore e gli conferma di aver commesso crimini sempre più abietti solo per dimostrare che
“la confusione dei rapporti umani rendeva possibili delitti che non potevano essere scoperti, e che proprio per questo motivo la maggior parte dei delitti restavano non solo impuniti ma anche insospettati”.
Un gioco infernale, quello del crimine, cui Bärlach risponde con uno scacco matto giusto ma illegittimo: di fronte all’impossibilità di dimostrare il crimine, non resta che fare giustizia senza ritualità, chiudendo i criminali in una trappola più astuta della loro. “Io non ti denuncio. Ma va’ via! […] È già abbastanza averne giudicato uno”.
Oppure, ne La promessa, l’investigatore arriva a mettersi così tanto in gioco da abbandonare tutto, scivola lentamente nella mania e nell’abiezione, e arriva perfino a mettere a repentaglio una bambina innocente, pur di tener fede alla sua promessa.
In Dürrenmatt, l’investigatore e i criminali si sostituiscono ai giudici. Sono loro a decidere chi vince e chi perde, chi vive e chi muore. Quando l’assassino uccide, ha pronunciato la sua condanna a morte; quando l’investigatore, che sa di non poter catturare l’assassino secondo le leggi dello stato, fa sì che l’assassino si annienti con le sue stesse mani, o che venga ucciso, si muta esso stesso in assassino e pronuncia la sua condanna, efficace ma illegittima. Eppure giusta.
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La giustizia, rito e mito
Dürrenmatt sembra celebrare il fallimento della giustizia terrena, ossia l’impossibilità di dare corso alla giustizia con gli strumenti che lo stato liberale moderno consente. E mostra come l’amministrazione della giustizia sia ipocrita, condizionata da pregiudizi culturali e sociali. Ricorda in questo il folle magistrato di quel capolavoro del cinema che è Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi, ispirato a Il contesto di Leonardo Sciascia. Il giudice sostiene che “l’errore giudiziario non esiste” e spiega:
“quando il giudice celebra la legge è come il prete che dice la messa. Il giudice può dubitare, interrogare, interrogare sé stesso, tormentarsi anche, ma nel momento in cui pronuncia la sentenza, allora no, non più. In quel momento la giustizia si è compiuta”.
E conclude, in maniera terrificante, che di fronte alla destabilizzazione sociale dovuta all’avvento delle masse, “la sola forma di giustizia sarà la decimazione”.
Anche Dürrenmatt è consapevole del guaio rappresentato dalla giustizia come rito. Ma, mentre il giudice in Cadaveri eccellenti è cosciente che la giustizia possa essere ingiusta e non se ne cura, convinto che la giustizia sia pura celebrazione, e anzi incolpa Voltaire di aver introdotto il concetto di errore giudiziario, delegittimando così l’essenza stessa della giustizia dello stato, Dürrenmatt no. I suoi personaggi dubitano, interrogano sé stessi e si tormentano, proprio perché sanno che la giustizia è fallibile e a volte perfino inutile. Ma sono comunque persuasi che la giustizia giusta sia necessaria, che l’errore giudiziario esista e non sia ammissibile, e che i colpevoli vadano puniti, sub lege o no, non importa.
La scoperta di tutto ciò è amara per gli investigatori di Dürrenmatt. Sempre il giudice in Cadaveri eccellenti, parlando all’ispettore di polizia, afferma:
“Non esistono più individui oggi, non esistono più responsabilità individuali oggi. Il suo mestiere, caro amico, è diventato ridicolo”.
Mentre quasi allo stesso modo, ne Il sospetto, l’ebreo errante dice al commissario Bärlach:
“Oggi non si può più combattere il male da soli, come una volta i cavalieri da soli scendevano in campo contro i draghi. I tempi sono cambiati: non basta più un po’ di acume per affrontare i criminali con cui oggi abbiamo a che fare”.
Così, in un colpo solo, Dürrenmatt liquida la morale laica di matrice kantiana, per cui la coscienza morale è un fatto razionale e rende l’uomo libero. Perché, Dürrenmatt lo mostra nel passo già citato, per certi individui è proprio il crimine, la negazione della morale, a esprimere libertà. E dall’altro lato liquida la giustizia dello stato, che di fronte ai crimini più contorti, all’esercizio arbitrario del potere e al male assoluto, non può trionfare. Non a caso, nel più filosofico dei romanzi di Dürrenmatt, il giustiziere, anch’egli assassino, sentenzia che il mondo “è nelle mani di Dio” e “noi possiamo essere d’aiuto soltanto in singoli casi, non in generale”.
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La rivolta contro il mondo moderno
Colpisce in Dürrenmatt la nostalgia per un mondo mai esistito. Non ammira affatto la contemporaneità e i suoi portati, in più punti definisce le città sfigurate, gli uomini corrotti. Decostruisce il mito della Svizzera tranquilla e operosa, quando fa dire di Berna che “non si sa se sia abitata da vivi o da morti” e nota che i bancarottieri sono diventati un articolo d’esportazione.
Anche nelle piccole cose, Dürrenmatt esprime un gusto antico, una passione per il buon cibo e il buon vino, ma non esita a mostrare il lato grottesco del piacere carnale. In Giustizia, il professore freddato a cena con una rivoltella cade su un piatto di tuornedos Rossini, impiastricciandosi di sangue e salsa. Nei suoi romanzi, le cene sono perlopiù pantagrueliche, e quando mangiano i personaggi si sfigurano in mostri sinistri e famelici, ma non manca di notare, ne La panne, che “il menu è degno del secolo scorso, quando gli uomini avevano ancora il coraggio di mangiare”.
In generale, Dürrenmatt vede nel mondo moderno la prevalenza della prudenza, a scapito del coraggio e di una gloriosa dissipazione. “Solerte zelo ogni dove, ricchezza crescente, ma senza sprechi. Purtroppo, anche senza splendore”, nella sua amata e odiata Svizzera, dove “la parsimonia si affermò come massima virtù. Tutto doveva fruttare, e tutto fruttava”. Detesta quel paese così industrioso e pacato, che nasconde dentro di sé l’abuso, e converte la morale borghese dello svizzero casa-lavoro nell’ipocrisia dello smidollato.
“Si viveva decisamente in modo tale che era più utile per qualunque nemico lasciarci in pace. Una vita in sé immorale, ma sana, che non testimoniava grandezza, ma notevole discernimento politico”.
Infatti i suoi personaggi sono eroi (o anti-eroi) tipicamente svizzeri e moderni. Operosi e borghesi, conducono vite tranquille e riparate nelle valli, ma non si trincerano nella prudenza. O perché fronteggiano il mondo armi in pugno, scivolando nel crimine, o perché lo sostengono con le loro misere forze, come cavalieri solitari ma astuti, con le armi spuntate, in un’epoca di disillusioni.