02 Marzo 2020

“Nel momento più terribile è bene affidarsi a Rilke”. Un saggio di W. H. Auden

Cosa ci cattura subito di Rilke? La vita o l’opera? Francamente non c’è scampo. È la poesia. Anni fa rimasi inguaiato in un caso di email rubata: mi avevano sottratto l’indirizzo e la password e avevano diffuso un messaggio dove dicevano che leggevo cose che facevano schifo anche ai maiali. Quella sera in particolare cercavo di capire Rilke nel 1907, Nuove poesie. Quello del Lamento di fanciulla (secondo la Lavagetto): “D’un tratto è come se fossi respinta / e un peso troppo grande / mi diventa questa solitudine, / quando, alta sui colli / dei miei seni l’anima gridando / invoca ali o una fine”.

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Perciò quando mi metto a fare il doppio infuso di tè e scelgo erba Rilke ed erba Auden sono pronto a vederne delle belle. C’è una congiunzione. Due saggi netti di Wystan H. Auden su Rilke. Uno è elogio dell’amico traduttore Spender. Quello che mi mette la fregola addosso invece è degli anni bui. Luglio 1940. Nella prima settimana del mese la guerra si ribalta. Viene decrittato dal controspionaggio polacco prestato agli inglesi il primo codice dei tedeschi. In quella settimana su New Statesman esce Rilke in tempo di guerra di Auden.

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Come mi dice la mia amica Paola Tonussi: “va bene quando fai pettegolezzi su cose che sai. Crocianamente, però, amo un poeta per la sua poesia e non per la vita o, semmai, la vita la leggo e la studio dopo, quel che mi cattura subito e poi continua a farlo è l’opera. Altrimenti dovrei lasciar perdere la metà e più degli autori che amo. Un caso per tutti, la cui vita mi lascia ‘sospesa’ è Eliot… La mia conclusione (affrettata ma non troppo) è che da tutti – questa è la mia impressione istintiva (ma mi riprometto di approfondire autore, lettere e naturalmente opera di Larkin), il più grande – sempre – in tutti i sensi, poetici, umani, critici, per me resta Auden. Genio e cuore insuperato e insuperabile”.

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Solo due avvertenze. Quando a mezzo del saggio Auden fa parlare Rilke e dice che l’uomo è sempre un’eccezione, qui c’è odor di bruciato kierkegaardiano. In quegli anni anche Auden approfondisce Kierkegaard e lo trova congeniale, così come Rilke prima di lui.

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In sostanza il succo del teologo danese è che possiamo fare i dongiovanni ma non saremo mai niente di specifico. L’uomo è uomo solo se si dà un principio di individuazione. Se fa qualcosa che lo fa uscire dalla norma – se diventa eccezione – sa che fuori tutti gli daranno contro.

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L’eccezione è più ricca della norma perché la comprende. Non viceversa. Chi si allontana dal gregge sa cosa è il gregge. Il gregge non si conosce. Scusate quest’altro pistolotto, sarà che sono in vena di sentire le prediche di Auden…

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Invece nella poesia finale di Rilke il richiamo alla brocca verginale è elaborato da Rilke sulla base del racconto flash di quel pazzo scatenato a romantico di con Kleist: La brocca rotta. Se volete fare sonni tranquilli, leggete con le edizioni Se le sue Lettere alla fidanzata. (Andrea Bianchi).

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Wystan H. Auden, Rilke in tempo di guerra 

In un certo senso il titolo Lettere del tempo di guerra di questa raccolta di Rilke è un fraintendimento; meno della metà furono scritte prima dell’Armistizio e nemmeno di queste si può dire che riguardino la guerra. Se si definisce come esperienza ciò che illumina la comprensione e rilascia il potere creativo quasi come scarica elettrica, ebbene per Rilke la guerra non fu assolutamente un’esperienza. Per altra gente come Wilfred Owen si trattò dell’esperienza decisiva delle loro vite; ma appunto erano dei combattenti. Per Rilke quei quattro anni furono un orrore negativo e paralizzante che raggelò il suo impulso poetico, una sospensione dell’intelligibile. Per una o due settimane fu avvolto dal “fenomeno del dio guerra” e si tuffò “in quel cuore universale improvvisamente ravvivato e fattosi aperto” ma presto subentrò la disillusione. L’agonia e la morte che ogni guerra porta con sé erano abbastanza spaventose ma quel che gli sembrava ancor più da incubo era “che la pressione della guerra ha portato l’uomo a mostrarsi per come è dentro, forzandolo, sia come individuo che come massa, a fare un faccia a faccia con Dio come solo i grandi patimenti del passato erano in grado di fare”. Tutto ciò che Rilke poteva fare era rifiutarsi di diventare un lettore di quotidiani, passando il tempo “in attesa a Monaco sempre pensando che una fine deve pur venire eppure senza capire, senza capire. Non capire: questa era tutta la mia occupazione in quegli anni”.

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Chiamare tutto ciò attitudine da torre d’avorio sarebbe menzogna a basso prezzo; forse sarebbe un trucchetto. C’era chi resisteva compensando quel senso di colpa che chiunque non combattesse provava per non poter condividere le sofferenze fisiche di quelli al fronte, e allora via con le esagerazioni di patriottismo orgiastico e fatto d’odio, tanto più violento quanto più inoffensivo; c’era poi chi rimaneva consapevole e rifiutava di comprendere con un atto positivo che richiede coraggio di ordine superiore. Distinguere poi questo atteggiamento dall’indifferenza egoista o codarda potrebbe essere operazione difficile se fatta dall’esterno, ma la poesia di Rilke e queste lettere sono prova sufficiente della sua integrità e reale sofferenza, cosa che gli faceva sembrare “arbitrario e insincero far ricorso a un albero, a un campo, alla clemenza della sera, ché questo albero, questo campo e il paesaggio, anche se esiste, cosa ne sanno dell’essere umano sfortunato, devastante, assassino?”.

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Ora in questa seconda e persino più temibile guerra ci sono pochi scrittori ai quali volgersi con maggior profitto, non per conforto – ché Rilke non ne offre – ma per la forza di resistenza alle tentazioni ingannevoli che si fanno vicine a noi sotto forma di onesti doveri. I gesti che si richiedono ai nostri corpi variano con le circostanze e le capacità; pure, l’attitudine richiesta alle nostre menti è sempre quella: che ognuno di noi “deve, dal piccolo rifugio, piantare una piccola speranza che, quali che siano i compiti militari e politici nei quali possiamo finire coinvolti, non ci faccia dimenticare che la vera rivoluzione è la vittoria sugli abusi a beneficio della più antica tradizione”.

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Pochi hanno rifiutato meglio di lui il grido di Hitler Sì, siamo barbari. “Se solo l’uomo la smettesse di invocare la crudeltà della natura per scusare la propria… Ci si dimentica di quanto sia infinitamente innocente anche la natura al suo grado più terribile; lei non guarda quel che succede, non ne ha la prospettiva; lei è dentro temibile al massimo grado, anche quando è sterile, ma rimane generosa perché lei contiene ogni cosa compresa la crudeltà – ma l’uomo che non sarà mai in grado di misurare tutto non è nemmeno in grado, nello scegliere il peggio – per dire, l’omicidio – di contenere dentro di sé l’opposto di questo abisso e così la sua scelta, nell’atto stesso che lo rende un’eccezione, lo condanna a essere creatura isolata e unidimensionale che non è più in grado di essere connesso con l’intero”.

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Pochi videro con maggior chiarezza le falde lungo le quali frana l’intellettuale in un’epoca rivoluzionaria come quella presente: “Lui tra tutte le persone sa quanto tempo serva per un cambiamento, per quanto piccolo… come la natura, nel suo zelo costruttivo, difficilmente lascia che le forze intellettuali giungano allo scoperto. Eppure d’altro canto è questo stesso intellettuale che, per forza di visione interiore, cresce in impazienza quando vede in quali condizioni stravolte e infangate gli affari umani siano contenuti e come tutto vada avanti così”. E in un tempo in cui, in reazione al dilettantismo estetico, lo si sostituisce con un dilettantismo politico che in ogni suo frammento è prodotto di paura e inganno, pochi hanno definito con miglior nettezza il dovere dell’artista: “la produttività, anche quando estremamente fertile, serve soltanto a creare una certa costante interiore e forse l’arte arriva solo a questo perché alcune tra le sue creazioni più pure danno quella garanzia di aver raggiunto un’attitudine interiore la quale consente agli altri di fidarsi di noi…”.

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Ancora una volta il curatore delle lettere, la signora Norton e suo marito ci hanno messo in condizione di debito nei loro confronti. Non sono abbastanza dotto per fare una critica alle traduzioni di MacIntyre delle cinquanta poesie scelte per l’occasione dal Libro delle immagini e da Nuove poesie. A mio avviso, con molta saggezza lui si è preso la licenza dell’assonanza e della mezza rima in modo da essere il più letterale possibile. Alcune delle sue frasi mi mettono in dubbio. Non vedo perché “die dich nicht sieht. Du musst dein Leben andern” debba essere tradotto “dunque ora puoi nasconderti. Devi cambiare la tua vita” considerando che una resa letterale della prima frase si riesce a ottenere senza sacrificio del ritmo [dunque così: “e lei non ti vede. Devi cambiare…”]

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Si può dire che, a prescindere dalle opinioni sulle Elegie duinesi o sui Sonetti a Orfeo, il traduttore non è stato in grado né nell’introduzione né nelle note di adottare quel genere di tono da ragazzo che non usa pensieri paradossali, un tono che ben si sarebbe accordato a Rilke. Pure dobbiamo essere grati per qualsiasi tentativo di far più nota la poesia di Rilke e certe traduzioni, quattro in particolare, mi sembrano eccellentemente svolte. La versione seguente [qui: Cacciapaglia, Einaudi, 1992] di Destino di donna, nonostante certi punti dubbi, riesce effettivamente, penso, a restituirci quello straordinario sguardo interiore del grande poeta che rifiutava di “comprendere” l’odio e la distruzione:

Come il re a caccia, per bere, un bicchiere
afferra, uno qualsiasi – e come
da quel giorno il padrone del bicchiere
lo mette via e lo serba senza usarlo:

così forse il destino, anche assetato, a volte
portò alla bocca, e la bevve, una donna
che d’ora in poi la sua piccola vita
non usò più e per paura di romperla

ripose in quell’ansiosa vetrina
che serbava le cose più preziose
della vita (o che tali si ritengono).

Là restò, estranea e come più non sua,
e divenne semplicemente vecchia
e cieca, e non fu mai preziosa e rara.

Wystan H. Auden

*traduzione di Andrea Bianchi 

 

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