Febbre. Oggi. Corpo ridotto a un muscolo che trema. A un ventaglio. Assaporo la debolezza, benedico la fragilità. Mi tuffo nella libreria di casa. Thomas Wolfe? Troppo troppo. René Char? Troppo poco, una frattaglia di aforismi afrodisiaci ed è fatta. Thomas Mann? Mi colpisce il cranio infettato come un’ascia. Emily Dickinson? Mi brucio con un paio di poesie la mammella sinistra. Poi stop. Aleksandr Puskin. Forse eleggo lui, oggi, in delirio, al vertice della mia sgangherata top ten. Come a dire. Chi scrive non si accontenta mai, butta giù i libri, li morde e li maledice. Il gioco inaugurato da Pangea si fa alto. Ecco il decalogo secondo Fabrizio Coscia, autore, l’anno scorso, di un libro anomalo e bellissimo, dove il concetto si sfa in fiction, il saggio fila il romanzo. Il libro si chiama “La bellezza che resta”. Buona visione.
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Fabrizio Coscia
Ecco la mia top ten, in ordine sparso:
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, perché è la Vetta, il Libro, il Principio e la Fine, e perché la sua opera raffigura la vita come quella mappa del racconto di Borges, “che aveva l’immensità dell’impero e coincideva perfettamente con esso”.
Lev Tolstoj, Anna Karenina, perché è il più bel romanzo sulla felicità, e sulla sua assenza e sulla sua ricerca, che sia mai stato scritto.
James Joyce, Ulisse, perché il suo protagonista è il personaggio più adorabile e più umano della storia della letteratura (ma anche, in alternativa, I morti, per il suo finale, dove la prosa si trasforma in sublime poesia»).
Thomas Mann, La montagna incantata, perché fonde l’Ottocento con il Novecento in una mirabile sintesi (e per il capitolo La Notte di Valpurga).
Machado de Assis, Memorie dell’aldilà, perché sa parlarci della nostra mortalità con una comicità, un’allegria e una leggerezza incomparabili.
Henry James, Il giro di vite, perché è il racconto perfetto: una vertiginosa e audacissima partitura sull’imperscrutabile ambiguità del Male.
Juan Rulfo, Pedro Paramo, perché in una manciata di pagine ci fa capire il motivo per cui dobbiamo metterci in cerca del Padre, nel tentativo di riconoscere quell’antica ferita che ci ha inferto e ci portiamo dentro, e sperare – forse – di risanarla.
Giacomo Leopardi, I Canti, perché è uno Schopenhauer in versi che suona come Chopin, nell’italiano più bello, struggente e carico di risonanze che sia mai stato concepito.
Anton Čechov, Teatro, perché una volta entrati nel suo mondo, coi suoi personaggi irresoluti, persi nei loro amori non corrisposti, dediti a lunghi e splendidi monologhi, nelle loro tenute di campagna estive, non se ne esce mai più.
Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, perché dimostra meglio di ogni altro saggio e una volta per sempre (come già sapeva Oscar Wilde) che la critica è sempre una forma di autobiografia.