26 Novembre 2019

“Guardandosi, l’uomo si scopre disumano, un’anima mostruosa”: dialogo con Franco Rella

Il pensatore mette l’indice nella ferita, la slabbra, fino al virus che diventa gioia. Dà accesso all’inaccessibile, scaraventa gli occhi in ciò che va ignorato, non va detto, celato dal fondotinta del consenso e del corretto. Il pensatore va al fondamento, al cadavere primo che ha dato origine alla civiltà, alla parola che pone un ago sull’ombelico, sta nel gorgo della stimmate. Da Scritture estreme (Feltrinelli, 2005) a Immagini e testimonianze dell’esilio (Jaca Book, 2018), per citare due libri da una bibliografia poderosa, Franco Rella fa così: s’intride nell’oscuro, esplora l’inenarrabile e l’escluso. Così, nell’ultimo libro, Territori dell’umano (Jaca Book, 2019), il filosofo fa scempio di ogni retorica e ci scaglia in petto il Minotauro: la mostruosità dell’uomo, l’ineluttabile disumanità, l’avvio al tremendo (“Molte ha la vita forze/ tremende; eppure più dell’uomo nulla,/ vedi, è tremendo”, è l’apice di Antigone secondo la traduzione di Hölderlin). “L’io faccia a faccia con se stesso si scopre ‘un’anima mostruosa’. Trova in sé l’inumano e il disumano. Cosa ci ha raccontato Shakespeare di Macbeth, del suo incontro con le streghe, e dell’incubo di sangue che lo perseguita? Cos’altro ha detto Melville raccontando la lotta di Achab con la balena bianca, e Bartleby immobile con la faccia contro un muro? Cos’è la metamorfosi dell’umano nel mostruoso nel bal des têtes che Proust ci presenta come un atroce cerimoniere, quasi a conclusione della Ricerca del tempo perduto? Cosa racconta Odradek con quella voce che sembra il fruscio di foglie cadute?”. Con devozione amanuense, Rella scava nelle grandi opere letterarie – qui c’è Cuore di tenebra di Conrad e Pornografia di Gombrowicz, Simone Weil e Kafka, Ballard, Baudelaire, Canetti –, in ciò che sfugge perfino alla volontà dello scrittore, sfogando enigmi. Non conta il florilegio delle citazioni (ma l’“ultima annotazione” di Rilke dal “suo ultimo quaderno”, alla mercé di sconfitta e dolore è sconfinata: “Vieni tu, tu ultimo ravvisato,/ Tu, insanabile dolore, intramato/ ora nel corpo. Un tempo nello spirito,/ ecco, in te, sonio io ora calcinato…/ Salii, nudo, puro, né progetti,/ né futuro, sull’intrico/ del rogo del dolore”): i verbi servono per affondare nell’uomo, per sondarne le ossessioni, con una quieta veemenza che ha sentore di necessità. (d.b.)

L’io faccia a faccia con se stesso “si scopre ‘un’anima mostruosa’. Trova in sé l’inumano e il disumano”. Dunque, è questo l’uomo? Della sua vita labirintica scopre di essere Minotauro. Dimmi.

Nel libro ho citato un pensiero di Valéry che ho più volte richiamato. L’uomo, dice Valéry, incontra l’indefinibile: l’indefinibile della morte e l’indefinibile dell’io. Credo che andare a fondo dell’io sia un’impresa problematica e coraggiosa. Qualche anno fa ho scritto un testo, Alla ricerca dell’io perduto. Perduto o forse mai davvero ritrovato. Ci vuole animo per percorrere i labirinti che ci portano nella profondità dell’io, che ci fanno avvertire il gusto aspro del buio e delle tenebre, per poi salire sulla vertigine dei sogni più audaci. In un altro testo – anche questo citato nel mio libro – Valéry proponendo un suo Faust fa affermare a Mefistofele: “Felice l’uomo che va dal Bene al Male, dal Male al Bene, ponendosi tra la luce e le tenebre; e adora e rinnega; percorre tutti i valori che la carne e lo spirito, gli istinti, la ragione, i dubbi e i casi, introducono nel suo assurdo destino, può vincere o perdere… ma IO!… essere il diavolo è ben misera cosa”. Ma già sant’Agostino aveva detto che l’io è una incontenibile molteplicità. L’uomo che si china scrutare dentro il proprio io si scopre angelo e bestia, scopre la densità dell’umano che tiene in sé anche il disumano e l’inumano. È il grande insegnamento di Kafka.

Nel tuo libro ti riferisci spesso a Melville e a Kafka. Cosa tiene insieme la Balena Bianca e lo scarafaggio, Achab e Odradek?

Melville e Kafka sono più che due immensi scrittori. Sono degli ossessi, ossessionati della propria ricerca che è per loro un destino. Ciò che li tiene insieme è essere arrivati all’estremo. La nave che affonda in Moby Dick portando con sé tutto, compreso un pezzo di cielo, meno Ismaele che sopravvive a cavallo di una bara per raccontare il faccia a faccia di Achab con la sua ossessione, con il mostro bianco. Il faccia a faccia di Gregor Samsa, di Franz Kafka, con l’immane insetto della Metamorfosi è anch’esso un confronto con l’animalità che è indissolubilmente legata all’umanità, perché l’insetto continua nell’orrore della sua mostruosa animalità ad avere pensieri umani. È questo che sconvolge e che fa di questo racconto un’esperienza unica che si imprime nelle nostre coscienze. Infine Odradek che è il personaggio di Kafka che va oltre tutto. Non è uomo, anche se parla, non è animale. È uno strano oggetto che vaga sui corridoi, sulle scale, nelle soffitte, senza fissa dimora, da tutto esiliato. È un essere disumanato, come tanti esseri che sfilano davanti a noi resi muti dalla sofferenza. Forse, come ha detto George Steiner, Kafka è in modo inquietante profetico.

Fin da subito imponi un tema: da testimoni di un fatto, di cui dunque portiamo testimonianza (il ‘testimone’ si passa anche nella staffetta…), siamo passati a essere spettatori di uno spettacolo subito. Come mai?

L’alternativa – spettatore/testimone – si è sempre posta. Essere spettatori di ciò che accade senza esserne coinvolti, oppure testimoniare. Nel primo caso c’è, a mio giudizio, complicità con le forze che si abbattono sui deboli, penso per esempio alla tragedia dei migranti, con cui siamo confrontati ogni giorno. O, invece, essere testimoni, per quanto debole possa apparire la forza della nostra testimonianza. Con il mio libro ho cercato di farmi testimone dei terribili tentativi di sottrarre umanità agli esseri umani.  Sto parlando del destino dei migranti, ma anche dell’orrore dei regimi tirannici e dittatoriali, con cui non solo conviviamo ma con cui concludiamo affari. Un mercato osceno in cui a prezzi stracciati si smercia umanità. Parlo anche della colonizzazione delle coscienze tesa, appunto, a far tacere il testimone, a trasformarlo in spettatore.

Metto insieme due citazioni. Canetti che parla di Kafka: “Bisogna sdraiarsi per terra tra gli animali per essere salvati”. E l’ultimo verso della poesia estrema di Rilke: “E io in fiamme. Da Nessuno riconosciuto”. Forse l’uomo, per compiere la propria umanità, deve essere a sé irriconoscibile, forse deve mutarsi in altro da sé. Lavorare per sconfiggersi. Comunque, deve mutare stato, deve abbassarsi, deve sparire, deve bruciare. Ritieni sia così?

Credo che Rilke voglia dire che il dolore è in grado di assorbire tutto, di ingoiare tutto, anche a nostra identità: “Da Nessuno riconosciuto”. Canetti attribuisce a Kafka una lotta contro il potere a cui ci si sottrae anche mettendosi a terra, dunque al di sotto della furia del potere. Si è così salvati? In realtà i topi della Ferrovia di Kalda temono e al contempo sono aggressivi, non danno tregua, premono dalle fessure che stanno rasoterra, tra parete e il terreno. Cosa teme poi l’essere protagonista del racconto La tana? Cosa può incontrare nei cunicoli che egli ha scavato sotto terra per proteggersi, se non feroci piccoli animali? Ecco, forse si potrebbe dire che attraversando l’impenetrabile cortina del dolore, e avvicinandosi ai terrori animali, si scopre un’ignota dimensione dell’umano. Ma non ho certezze a proposito.

Tra i testi che citi. Il Kurtz di Conrad che vede solo l’orrore, Gombrowicz, invece, che ha lo sguardo lascivo, che si lascia al grottesco, al comico dell’uomo. Come conciliare le visioni? L’uomo è orrendo, è grottesco, è inumano… cosa?

Marlow è il grande testimone della follia e dell’orrore di Kurtz. È questo che egli porta con sé dal cuore di tenebra fin dentro la city of dead che è nel cuore dell’Europa. Gombrowicz è grottesco, lascivo, come dici, ma al tempo stesso fa emergere in molti suoi testi, attraverso le maglie del grottesco, la percezione di un dolore assoluto, che diventa la trama non solo dell’uomo ma dell’universo intero, del “Cosmo”, come egli intitola uno dei suoi libri più emblematici. La follia di Kurtz, l’orrore della foresta, il grottesco, l’inumano, accanto all’ebbrezza e magari alla gioia: tutto questo e molto altro è l’uomo, è l’umano. Siamo noi.

Concludi dando lettura di alcune icone dell’arte, come mai? Che testimonianze vedi in quelle raffigurazioni e quale opera ti ha sconvolto?

Credo che alcune delle raffigurazioni che ho riportato nel penultimo capitolo siano iconiche nel dare forma e figura all’umano nel rapporto con il dolore, con la morte, con il potere, dunque con le istanze a cui ci troviamo costantemente confrontati. Sono solo alcune icone. Leggendo credo si capisca quanto io ne sia stato colpito, quando continui ad esserne colpito e inquietato. Queste sono solo alcune. Potrei ricordarne molte altre. Ne ricordo solo una: lo sguardo del ragazzo in primo piano de Le dejeneur dans l’atelier di Manet che ho visto per la prima volta direttamente quest’estate a Monaco. Uno sguardo perduto verso un altrove che avvertiamo subito come un luogo misterioso che ci riguarda, che ci riguarda da vicino.

L’epilogo lo dedichi al bambino, all’infanzia. In una forma aforistica. “Nessuno sa la vita e la morte come la sanno in profondità i bambini… Nessuno sa la solitudine come i bambini”. Cosa testimoniano allora i bambini?

Quando ho scritto quelle pagine ho capito che il libro era finito. Che non avrei potuto scrivere una parola in più. Quelle pagine sono una sorta di raccomandazione a guardare, a cercare di guardare nella misteriosa umanità infantile, che si è declinata nelle grandi fiabe che oggi abbiamo dimenticato e che non siamo più in grado di leggere.

*In copertina: intorno all'”Annunciazione di Recanati” di Lorenzo Lotto, del 1534 circa, Franco Rella scrive pagine ispirate nell’ultimo libro, “Territori dell’umano” (Jaka Book, 2019)

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