Come fiocchi di neve. Come un acquazzone. Le poesie di Emily Dickinson. Sotto ogni pietrificato verso un mistero. La salamandra di una metafora. Appena tocchi quei versi, tocchi qualcosa di così profondo… che i versi svaniscono. La Dickinson è poeta che ha dedicato la vita al rischio. Orientata interamente agli abissi della scrittura, reclusa, cruda, senza altro ‘pubblico’ che i millenni. Così. Quando la leggi il cielo sembra disintegrarsi in neve. In aureola di pioggia. Ma appena tenti di ‘capirla’, Emily svanisce – è stata, è andata. La sua poesia si è impressa, ormai, come acqua, in una zona australe tra le costole. Tra i grandi poeti di ogni tempo, la Dickinson è molto tradotta in Italia (e molto bene: da Barbara Lanati a Marisa Bulgheroni, da Massimo Bacigalupo a Silvio Raffo, fino agli esperimenti, magici, di Amelia Rosselli e di Cristina Campo, di Nadia Campana e di Eugenio Montale, di Luzi, di Giudici). Ma quando la ‘traduci’ in un altro contesto, rischia di svanire. Come la neve. Pigliamo il film A Quiet Passion (2016). Didascalico. Patetico. Inutile. Voglio dire. La Dickinson è inafferrabile. Ci voleva, allora, tutta la dedizione di quelli di Teatro Patalò, compagnia nata nel 2006, che crea artigianalmente spettacoli raffinati come un cristallo di neve, per dire Emily. Già ‘disinvolti’ nel vagabondare dentro l’opera della Dickinson (si veda lo spettacolo Silenzi), ora la compagnia si è gettata decisamente nella poetessa americana dando vita a Emily. Il Giardino nella Mente. In particolare, la messa in scena è tratta dagli ‘Envelope Poems’, frammenti di versi scritti su buste di lettere mai spedite (pubblicati in Italia da Archinto come Buste di poesia). A interpretare una delicata Emily Dickinson, Isadora Angelini, attrice di scintillante bravura, di sgargiante lucidità. Lo spettacolo sulla Dickinson sarà, tra l’altro, al Teatro Ridotto di Bologna, venerdì 9 marzo. Ragion per cui, abbiamo fermato la Angelini contro il totem di Emily.
Intanto, perché Emily? La Dickinson, detta, ridetta, abusata, è una materia che infiamma chi non la tratta a dovere…
“Il lavoro teatrale è per sua natura frammentario, metonimico. Non c’è alcuna pretesa di esaustività. La Dickinson è un Gigante, un Poet of Poets. La sua Opera sconfinata, misteriosa. Infatti, non avrei mai pensato nemmeno di leggere ad alta voce la sua poesia. Poi alcuni carissimi amici mi regalarono un volume bellissimo, curato da un’artista visiva e da una delle maggiori studiose viventi di Dickinson. Nel volume ci sono le fotografie delle buste di carta riutilizzate sulle quali lei ha scritto alcuni suoi testi, i cosiddetti Envelope Poems. Questi frammenti mi hanno dato una chiave di ingresso nel suo mondo. Ho cominciato a studiarli a memoria e nello stesso tempo a registrarli, non sapendo bene cosa ci avrei fatto. Ma credo fortemente nell’esercizio di memoria per noi attori (e forse non solo per gli attori) e lo pratico spesso. A partire da uno di questi frammenti io e Luca Serrani abbiamo fatto uno studio coreografico che ha poi portato alla creazione di un altro spettacolo, Silenzi. Nello stesso periodo, un amico che cura un festival dentro alcune case di un borgo disabitato (Artistincasa) ci ha invitato a partecipare con un nostro lavoro. Quando abbiamo visitato lo spazio destinato allo spettacolo, abbiamo subito pensato di creare uno studio su quei materiali. Ho letto, scritto e tradotto per giorni e giorni. Da un intero quaderno di appunti ho composto il testo: frammenti dalle sue lettere e dalle sue poesie. Il testo del lavoro è una lunga lettera. In studio di registrazione ho registrato alcune sue poesie e la voce di mia figlia di quattro anni che racconta l’Apocalisse, con Luca ho fatto una ricerca di suoni e abbiamo creato una partitura sonora sulla quale lavorare. Abbiamo ricoperto lo spazio scenico di carta bianca, c’erano due bellissime finestre e abbiamo messo pochi oggetti: una sedia, una lampada. Luca ha creato un disegno luci che dialoga con il buio. Poi abbiamo pensato di mettere qualcosa tra la scena e il pubblico: una grande rete bianca che crea un diaframma tra il corpo dell’attrice e quello degli spettatori. Il primo studio di venti minuti è nato così. La risposta del pubblico e la richiesta di nuove repliche ci ha permesso di continuare a lavorarci. Infine, l’abbiamo ‘completato’ con il progetto di residenze artistiche interregionali per cui siamo stati scelti dal Teatro Due Mondi di Faenza, MiBACT e E-R Cultura. Da subito il lavoro è stato richiesto e abbiamo potuto replicarlo molte volte, questo è un privilegio che consente di cercare nuovi strati nel lavoro teatrale che si è creato, che si può ‘fare’ solo con il pubblico”.
Poi. Che cosa di Emily? Di quali materiali vi siete imbevuti?
“Il sottotitolo dello spettacolo viene da un suo verso the Garden in the Brain che io ho tradotto con Il giardino nella mente. Come attrice la preposizione ‘nella’ mi aiutava a collocare il suo corpo. Il corpo nella mente. È anche una visione di cose che nascono. Piante che crescono nel cervello! II punto di partenza per la drammaturgia è stato il volume di cui ti ho parlato sopra: The Gorgeous Nothings di Martha Werner e Jen Bervin, e il meraviglioso saggio che lo accompagna che paragona le ali di carta a quelle degli uccelli. Per quel che riguarda le traduzioni e le pubblicazioni in italiano un punto di riferimento è stato il lavoro di Barbara Lanati, e il saggio introduttivo di Margherita Bulgheroni all’edizione dei ‘Meridiani’ Mondadori. Sulla Dickinson sono state scritte innumerevoli cose, ma a un certo punto non ho letto più niente e mi sono concentrata solo sulle sue parole. C’è stato sopratutto il rapporto diretto con la sua scrittura. Rapporto che naturalmente non può essere che personale e che lascia fuori innumerevoli altre possibilità di lettura. Chi ha letto le lettere di Dickinson conosce la profondità del rapporto con le persone che amava. Ma il suo rapporto con la Poesia è su un piano sovra-umano. Un piano talmente alto che ogni definizione del suo lavoro risulta riduttivo. Parla direttamente agli animali, agli alberi, ai vivi e ai morti. Parla direttamente all’anima di ciascuno di noi. All’assenza, all’amore”.
Come far rivivere Emily. Voglio dire. Non penso che il vostro lavoro sia una semplice ‘lettura’. Come si interpreta il ‘mito’? Su cosa focalizzate la vostra attenzione? Sulla ‘reclusione’?
“La nostra attenzione. Sulla poesia, che (come scriveva Tarkovskij) è un punto di vista sul mondo. Sulla profondissima umanità che emerge dalle lettere di Dickinson, poi sul suo dialogo con la Morte. Infine sull’aver tolto il proprio corpo dal mondo. Il mio lavoro come attrice è stato sopratutto un lavoro sulla Trasparenza, sul cercare di togliersi di mezzo, o meglio di diventare mezzo perché qualcos’altro appaia. Che poi è quello che per noi è la recitazione, sempre. È un lavoro difficilissimo, e non sempre riesce, non è scontato, è un tentativo di attraversare quella condizione ‘a piedi scalzi’ di cui scrive Dickinson. Occorre creare una ‘partitura’ alla quale affidarsi e riscoprirla ogni volta in presenza del pubblico. Ora che il lavoro l’abbiamo replicato diverse volte, mi rendo conto che è uno spettacolo sulla Solitudine, come condizione esistenziale e anche sulla solitudine dell’artista e di riflesso dell’attore sulla scena. È stato un lavoro molto personale, che ho creato a quarantacinque anni, Luca mi ha aiutato a realizzarlo, soprattutto con una grande fiducia e con la sua incredibile capacità di ascoltare. Nello spettacolo c’è anche lui, che funge da ‘prologo’ traghettando il pubblico nel Giardino che abbiamo cercato di creare. C’è anche una ricerca sul suono, sul Canto, un tentativo di movimento verso l’arte dell’attore come ne scriveva Artaud. (La voce che sale è già, per sua natura, una sorta di trasferimento spontaneo/ in un altrove che nessuno è più capace di vedere né guardare./ In verità la voce può smuovere un mondo./ Un mondo vero./ L’aria è piena di cose terribili che noi abbiamo disimparato a vedere,/ a creare, a soffiare, come i soffiatori di vetro./ Così, in capo a un certo tempo, giunto a un certo timbro l’attore sente il proprio corpo dietro di sé/ e sente che può portarlo con sé./ Ma dove?/ Là, altrove, in quell’aldilà, quel famoso aldilà/ dei morti/ che non è aldilà ma qui./ E per riuscirci non ha che da soffiare/ come il teatro sapeva fare/ poiché l’aldilà non è nella morte, dall’altra parte del mondo)”.
Cosa ci dice, ora, la vicenda assoluta di Emily?
“Della biografia di Dickinson non mi importa della parte aneddotica, delle vicende (spesso quasi pettegolezzi) legati alla sua persona, mi colpisce che ad un certo punto è rimasta chiusa in casa (anche per problemi di salute) e che si è dedicata alla sua opera poetica senza un vero e proprio destinatario. Credo sia un insegnamento quasi incomprensibile per noi oggi, un’occasione immensa sulla quale meditare. Dedicarsi alla scrittura senza essere pubblicati. Tutte quelle poesie scritte e rilegate a mano e ritrovate dopo la morte in un cassetto mi commuovono profondamente, mi sembrano parlare della nostra umanità: ‘Quei 52 frammenti scritti su buste già usate sembrano messaggi gettati ai venti del futuro, indirizzati a nessuno e a tutti contemporaneamente. Dickinson scrisse nel preciso momento storico in cui la possibilità di recapitare un messaggio privato attraverso il sistema postale era finalmente diventato realtà. L’apertura di un’epoca di velocità e di immediatezza che ha cambiato per sempre i nostri mezzi di comunicazione. Eppure, i messaggi nel mondo moderno sono asimmetrici e pieni di lacune. Li riceviamo e li decifriamo sempre e solo in parte. I frammenti di Emily Dickinson, ci ricordano la contingenza, la transitorietà, la vulnerabilità e la fugacità della nostra vita. E allo stesso tempo, il carico enorme di speranza contenuto in tutti i nostri messaggi’ (da Itineraries of Escape di Martha Bervin). Il lavoro è stato scelto anche per iniziative legate all’otto marzo o alla lotta contro la violenza di genere. C’è sicuramente un aspetto ‘politico’ della vicenda di una donna nell’arte e credo sia molto importante la figura di Dickinson in un contesto di riflessione sull’origine culturale della violenza contro le donne. Emily Dickinson, ha una statura lirica pari ai grandissimi mondiali, ma la sua figura è stata relegata alla maggior parte degli stereotipi culturali legati al femminile: virginali, ‘romantici’ in senso diminutivo, oppure trasgressivi mettendo in primo piano i risvolti da chiacchiericcio che gli stessi critici letterari non si permettono di fare nei confronti di scrittori uomini. Mi fa molto piacere quando ci chiamano per queste iniziative, pur non avendo creato un lavoro che parla di ‘condizione femminile’ o di violenza sulle donne. Io stessa sono una donna che lavora in ambito artistico e non posso fare a meno di registrare la discriminazione a cui le donne sembrano condannate. Di fatto, nella vicenda di Dickinson, gli editori maschi a cui lei scriveva non sono stati in grado di capire la grandezza della sua poesia, che era sicuramente fuori dai canoni. Le poche cose pubblicate sono state editate, cambiate, semplificate, ‘addolcite’. Non stupisce che abbia poi deciso di non pubblicare”.
Che tipo di rapporto avete con la letteratura nel vostro fare teatro? E poi: leggete i contemporanei? Cosa leggete?
“Un rapporto strettissimo: punti di riferimento, punti di partenza, modelli, a volte esercizi di memoria, di pratica fisica della parola. Senza dubbio un rapporto privilegiato con la poesia, ma per ogni lavoro che abbiamo scritto ci sono stati dei punti di riferimento: per Silenzi la stessa Dickinson e Raymond Carver, per l’ultimo lavoro Rumore Umano (e per altri due precedenti) Agota Kristof. A volte sono stati reportage, anche graphic novels, dipende. Però poi la scrittura di scena diventa altro, la drammaturgia non è letteratura, è altro. Infatti, i punti di riferimento veri rimangono i drammaturghi, quelli che si sono davvero occupati della scena. Sulla lettura davvero tante cose, ma di contemporaneo, ahimè, poco. Rispondo per me e ti dico le ultime letture: Luca ha trovato un’edizione dei Diari di Tarkovskij (Martirologio) inutile dirti la bellezza di questa lettura, poi tanta poesia: recentemente Anna Achmatova, le poesie di Kiarostami, e Nelly Sachs. In questo periodo sto leggendo un saggio di Antonio Attisani L’Invenzione del Teatro, che consiglio. Luca legge altre cose: libri di fisica e filosofia e ama Philip K. Dick che in questo momento è sul suo comodino insieme ad Alfred Jarry e a Georg Büchner. Letture che abbiamo condiviso ultimamente I buoni di Luca Rastello e On writing di Stephen King. E con i nostri bambini tanti libri per loro, ogni sera: cose che proponiamo noi o che scelgono loro. I contemporanei che leggiamo di più forse sono autori per l’infanzia, insieme ai classici. Romanzi pochi, ma è anche una questione di tempo, da quando abbiamo avuto figli leggo più facilmente racconti brevi. E dalla loro nascita abbiamo creato diversi lavori teatrali per l’infanzia. La nostra casa è infatti piena di libri, di piante, di giocattoli: qualcosa tra un giardino e una sala prove!”.