Fin dal viso, alterato da una sensibilità da spettro, se ne poteva dedurre il destino. Nato il 16 dicembre del 1859 a Preston, in una famiglia di medici convertitasi alla chiesa cattolico romana, Francis Thompson, a scuola, camminava radente i muri, si ritirava in biblioteca appena poteva, vestiva funereo, di nero, con giacche dal bavero alzato e capelli scombinati. Gli davano dello strambo, da subito dimostrò doti superiori nel comporre versi. Non era raro che lo prendessero in giro. Naturalmente, il padre preferì per lui una carriera in ambito medico: Francis fallì i propositi, studiò per otto anni all’università di Manchester senza prendere la laurea; Oxford non lo accolse tra i suoi, era troppo strano. “Gli piacevano le opere di Eschilo, si trovava in sintonia con i libri di William Blake; la madre gli aveva regalato le Confessioni di un oppiomane di Thomas De Quincey, che divenne la sua tragica guida esistenziale” (Everard Meynell).
Ripudiato dal proprio tempo, dal 1885 Thompson scelse di stare a Londra, di vivere da poeta. Non aveva un soldo, aveva imparato, a medicina, le straordinarie facoltà dell’oppio, a cui fu iniziato per sedare continui mal di testa e attacchi nervosi. Ne divenne quasi subito dipendente. A Londra lavorò presso un calzolaio a cui faceva compassione quell’affusolato, lirico oppiomane; poi si provò come libraio, finì a vendere fiammiferi, in mezzo alla strada, abbozzando qualche verso su carte occasionali. Per tre anni, dormì dove capitava: cullò l’idea di uccidersi. Secondo la leggenda, gli apparve in sogno Thomas Chatterton, l’Antinoo della poesia romantica inglese, suicida a 17 anni, intimandogli di non fare la sua fine. Di certo, una prostituta lo tirò via dalla strada, ospitandolo.
Questo precursore dei punk più esangui, sfogliava la Bibbia traendo spunti per poesie apocalittiche, dove Iddio appare come un molosso, un carnefice. Una poesia pubblicata nel 1888 su una rivista di second’ordine, attirò l’attenzione di Alice Meynell, suffragetta, poeta, fervente cattolica, e del marito, Wilfrid, editore di genio. Per Francis Thompson fu una grazia: i Meynell adottarono il lirico senzatetto, fecero di lui un idolo, una specie di Messia verboso che aveva sperimentato gli autentici inferi dell’uomo, il Blake cattolico. Sotto i loro auspici, Thompson pubblicò il primo libro, Poems, nel 1893: tra i suoi più clamorosi supporter, spiccavano Coventry Patmore e George Meredith.
Thompson, dalla sua, puro ispirato, continuò la vita apolide: per un po’ visse nel monastero francescano di Pantasaph, in Galles; scrisse una vita di Ignazio di Loyola e un lungo saggio sulla poesia di Shelley. “Nonostante la tempra ascetica e la predisposizione alla mistica, Thompson si svagava guardando le partite di cricket, di cui divenne esperto”, scrive di lui Everard Meynell, figlio di Alice e di Wilfrid, autore, nel 1913, di una Life of Francis Thompson. La morte, per tubercolosi, nel novembre del 1907, in effetti, garantì al poeta l’ascesa nell’ambito del mito. I ricordi si fecero agiografici, i giudizi viziati dall’entusiasmo che si prova al cospetto di un santo. Secondo Gilbert Keith Chesterton, “Francis Thompson è stato il più grande poeta in lingua inglese dei tempi di Browning”; lo definì, con rapinosa arguzia, “un timido vulcano”. Tolkien acquistò il volume delle sue opere nel 1913, rimanendone folgorato. In Italia l’opera di Thompson arriva quasi subito – nel 1925 i Treves stampano un’edizione delle Poesie – e quasi subito scompare: nel 2000 Maura Del Serra cura per Crt Il segugio del cielo e altre poesie. Piaceva a Giorgio Manganelli, che in un articolo del 1948, I poeti miracolati della nuova Inghilterra – ora pubblicato come appendice alle Poesie di Gerard Manley Hopkins, Einaudi, 2022 – lo dice “Maudit miracolato in extremis ad una rivelazione poetica e religiosa”, prossimo proprio a Hopkins, ma “il più avventuroso di questi poeti cattolici”. Sepolto a Kensal Green, per la sua lapide scelse un verso, “Cercami tra gli asili del Paradiso”. Conosceva la riservatezza, la trafittura del sottosuolo, lo stigma dell’amore.
***
Il Mastino del Paradiso
Fuggo da Lui, lungo le notti, scoscendo nei giorni;
Fuggo da Lui lungo le alberature degli anni;
Fuggo da Lui per i labirinti della mente
le lacrime sono una seminagione di nebbie
mi nascondo da Lui, acquazzone di risa in corsa.
Accelero, sopravanzo speranze e avventi,
sparato, precipito,
presso tenebre titaniche: la paura, fanghiglia
di quei Piedi che continuano a inseguirmi
camminano senza fretta
con ritmo imperturbabile
velocità calcolata, maestosa istanza,
battono – e la Voce schiocca, chioccia,
più rapida dei Piedi –
“Tutto ti tradisce perché mi tradisci”. […]
Nudo attendo la trafittura del Tuo amore!
A brandelli hai fatto la mia armatura
mi hai colpito al ginocchio
sono inabile, indifeso.
Credo di aver dormito: al risveglio
leccornia di sguardi, spoglio di sonno.
Nella rapinosa lussuria dei miei poteri giovani,
ho scaraventato le ore cardinali
ho cagliato la vita, maculata di colpe,
tra le polvere dei tumultuosi anni –
storpiata gioventù, morta nel mucchio.
Crepitio di giorni andati in fumo,
esplosi come il sole inghiottito dal fiume,
tutto è fallo, fallisce: il sogno
è la lebbra del sognatore; il liutaio storpia la viola;
perfino le fantasie dai fiori intrecciati,
corona che risuona al mio polso,
cedono; nodi troppo deboli
per sopportare tale afflizione.
Ah! Davvero il Tuo amore
è questo piano d’erba amaranto
che non sopporta fiori?
*
Le armonie del dolore
A sera, quando gli alberi sono irrigiditi e smunti,
e le pure forme del giorno che si dilegua come acqua,
sembrano appesantite dalla spettrale foglia del cielo:
ai miei crudi pensieri rispondono
i funebri stendardi di fiacche effigi;
lungo quell’ora in cui le antiche cose morte sembrano più morte
e la loro morte è istantanea e immortale,
quando la carne si torce, si agita in me
il bimbo di una calamità mai nata,
prima che il moto sia segnato in fronte.
Il morto dolore e quello non nato si mescolano
quello presente si fa pressante
ed entrambi sono Adesso più di ogni Adesso possibile.
L’anima squarcia il suo polmone come un sacco
e prende a contendere con il Cielo:
“Leva da me il calice dell’orrore in arrivo,
oppure svuotalo o comandami di non scolarlo!”.
Chiedo perché chiedere è vano,
dolore entro dolore nella supposta antifona,
l’anima trasmigra tra i sofferenti e così rivive:
in nuova pena s’incarna, incantata, la solita pena.
*
Per la morte di un astronomo
Innamorato stellare, verso le stelle sei andato:
ora sei ciò che per anni hai ammirato!
Varcate le sbarre del giardino d’oro
sei al cospetto del Giardiniere delle Stelle.
Lei, ciglia lunari
sette stelle fanno sette gioie,
sette luci per sette dolori;
lei, pari alla Galassia,
luce riassunta in purezza –
quando l’hai scoperta
astronomo? Quando dalla mano
è caduto il telescopio
ti sei accorto della più bella stella.
*
Tramonto
Su “Feuilles d’Automne” di Victor Hugo
Amo la sera, onesta e senza passione,
quando sulle rovine i raggi si attorcigliano
in foglie folgoranti;
la nebbia scalfisce scogli di fuoco, a strapiombo,
e mille scaglie solari scheggiano l’azzurro
degli arcipelaghi nuvolosi.
Le nuvole si muovono
accatastate dal gesto superbo dei venti
forme inconsuete si accordano
pallide fiamme si levano tra le loro onde
come se il gigante dell’aria soffiasse
lì per lì una spada elementare.
*
Casolare della schiavitù
I
Quando percepisco la celestiale mietitura di Amore
ritorno alla vicissitudine delle nuvole:
lo spirito immoto non le ama, preferisce
la stagione del sangue imperfetto;
quando capisco che il vate vaga
ammutolito sotto l’orda di stelle insignificanti,
e non ammette il bacio di Urania,
le audaci ali del canto sbriciolano la voliera dei sensi;
quando comprendo che lo spirito spiega le vele
troppo tardi sopra oceani rigorosi e ripidi
e il capitano è costretto ad annullare la traversata
perché flotte annegano nei regni profondi;
mi disprezzo per aver creato emblemi tanto strani:
l’arguzia di un genio per i giochi di un ragazzo.
II
L’arca dello spirito è sigillata con mera argilla
era già vecchia quando Menfi partorì un ricordo;
la mano pontificia quale chiusura
deve ancora scardinare? Non l’oceano
che ha scemato Egitto e la sua guerra,
né i tumuli sprofondati nel deserto.
I piedi di Amore sono di fango, affaticati
dal viaggio e il canto ha capelli luminosi, ali di polvere.
Amore deve indossare la rinuncia: mangia
di fretta e si aggira con le gambe bendate:
chi potrà fermarti lungo la via dolorosa?
Ah, canzone, quali abbracci santificano la tua ferita!
Giacobbe ha penato sette anni
per ardere nel bacio di Rachele.
Francis Thompson