30 Luglio 2022

“Non giocarono alla diversità: erano diversi”. Carmelo Bene, Majakovskij & Co.

Abbiamo avvicinato Carmelo Bene (Lecce 1937) in occasione della sua serata su quattro poeti russi del Novecento, nel cinquantenario della morte di uno dei quattro, il famoso Volodja Majakovskij. Oltre a Majakovskij (Bagdadi 1893 – Mosca 1930), c’è, fra i quattro, Sergej A. Esenin (Kostantinovo 1895 – Leningrado 1925); c’è Aleksandr A. Blok (Pietroburgo 1880 – Pietrogrado 1921); e c’è Boris L. Pasternak (Mosca 1890 – Peredelkino 1960). “Li abbiamo letti da turisti, con la guida in mano, nell’oblio e nella sconoscenza”, esordisce Carmelo Bene. “Non mi dite che qualcuno abbia attentamente amato il grande Blok, eppure I dodici hanno una traduzione italiana splendente di Poggioli. Esenin è passato come ‘il cantore dei campi’, l’arcade stordito dai fracassi dell’industria, e chi s’è visto s’è visto; Pasternak è stato sfiorato solo perché ci fu lo scandalo Feltrinelli, il Nobel non riscosso, ecc. ecc., poeta ignoto…; Majakovskij circola di più, ma per equivoco, secondo me. Che ne pensate voi?”.

Inarrivabile nell’intervistarsi da sé, castigamatti di “gazzettieri”, stavolta Carmelo Bene si aggira titubante e indolenzito fra le parole, e pretende che discutiamo insieme, ci associa – me e un giovane compagno, che siamo qui col registratore – al suo requiem rabbioso ma con strazio. Viene fuori un canone un po’ sgangherato, che tenteremo di sunteggiare, senza pretendere di riordinarlo. “Perché quattro?”, domando. “Perché loro si muovevano in squadra – loro e altri, allora. Ci siamo documentati bene, ma non volevamo fare un prodotto specialistico, la monografia, la filologia, la celebrazione umanistica. Io poi penso che questi grandi vivano nell’inconscio delle masse, anche se le masse nostre non li hanno tanto frequentati, molto più che nel cervello dei nostri bravi intellettuali. Questi nostri bravissimi, che ora hanno il momento del dissenso, ora il momento del non-dissenso, si sentono emarginati e si commiserano…”.

“Anche i quattro”, insinua il giovane compagno, “si emarginarono”. “Bravo: si emarginarono loro, non si lasciarono emarginare dagli eventi; e non cercarono di piazzare socialmente la loro libertà impossibile, la loro inattualità: di farcisi una poltrona, magari una poltrona di salotto. Non giocarono alla diversità: erano diversi. Chi apprezza più oggi il lusso dell’autoemarginazione?”. “Insomma, tu pensi che questi quattro”, suggerisco, “fossero, più o meno, degli aristocratici”. “Certo. Sennò, come facevano a essere rivoluzionari? Ma, attenti: io Majakovskij lo rispetto sempre come ‘blusa gialla’: un Majakovskij bolscevico, non lo vedo. Cioè, mi spiego: non vedo un Majakovskij che subisce il bolscevismo. Né lui, né gli altri tre. ‘Poveracci – dicono i mediatori di tutti i dissensi – si sono illusi, ci sono cascati!…’. È una imbecillità. Majakovskij era in contrasto, in guerriglia con la storia contemporanea, ma c’era dentro fisiologicamente – fu agit-prop, fu pubblicitario della rivoluzione… Che stavo dicendo? Ecco: lui non era un testimone estromesso dalla storia – si estromise poi lui con un proiettile”.

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Il suicidio non fa testo

“Ma perché si è sparato? E perché si è impiccato Esenin?”, incalza il giovane compagno: “Tu escludi l’elemento della disillusione?”. “Sì, certo, hai ragione, in Majakovskij c’è anche questo: l’orologio della rivoluzione che si ferma, gli gela il cuore. Ma il punto non è qui – il suicidio poi, in questo senso, non fa testo: è cosa di un attimo: una donna che non torna: questo il suicidio dell’uomo – invece il suicidio del poeta è altra cosa, e fa testo”. “In che senso?”, chiede qualcuno.

“Vorrei chiarire che in questi uomini eccezionali la disillusione viene da molto prima. Sapevano da prima che la rivoluzione, in un modo o nell’altro, si sarebbe impietrita (‘l’odierna merda pietrificata’, scriverà alla fine Majakovskij), perché ogni società ‘rivoluzionata’ cessa a un certo punto, per forza, di essere ‘rivoluzionante’. Eppure loro si muovono con la rivoluzione, perché l’incendio che divampa li illumina; e siccome sono sempre in ansia della propria perfezione, accettano subito l’impegno totale: abitare la battaglia. Ognuno a suo modo. Blok, per esempio, che aveva aspettato la rivoluzione come una conflagrazione universale, cioè l’evento culminante di una vicenda ciclica, si accuccia vicino ai falò, sapendo che sarebbe morto accucciato; Pasternak si relega quasi subito, accuratamente, in un ‘terribile frattempo’, in un isolamento suicida, coltivando sublimi e imperscrutabili minuzie; Esenin, contadino con le scarpe di vernice, sa benissimo che il mondo contadino, facendosi saccente, non ha che da prender coscienza della propria disfatta, e dandy ubriaco, se ne va cantando la rivoluzione che ammazza il suo mondo e lui. Sono, se ci pensate, degli stoici, questi tre. Majakovskij, credo, molto meno: lui con la rivoluzione aveva fatto ‘m’ama, non m’ama’ per decenni (dal 1905) ‘torcendosi le mani e sparpagliando le dita spezzate’ – non seppe mai se lei l’amasse, ma sapeva comunque che gli stava cascando di mano – e fece in tempo a riguardare la mole della sua opera, a vedere che troppi versi zoppicavano, perché troppo si era dilapidato, l’unico dei quattro a scontentarsi di sé, a morire di scontentezza”.

Propongo il tema del futuro majakovskiano, il famoso Anno zerato di zeri, il poeta che grida al sereno biologo dei secoli avvenire: “Risuscitami!”. “Passato e futuro appartengono alla dimensione tragica della esistenza di Majakovskij, cioè al suo presente. Quel ‘risuscitami!’ non è un grido rivolto ad un avvenire che lo esclude, è un grido alla piazza. Majakovskij si abbandona all’innocenza del divenire, che è sempre però un divenire cosmico, un divenire che ritorna su di sé, animato da un inconfessabile ma confessatissimo ‘rimpianto del futuro’. Lui e tutti loro, la rivoluzione la vissero e la morirono al presente. Majakovskij, scusatemi, non è il poeta del futuro: è il poeta del presente, di tutti i presenti e del presente di tutti”.

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Un popolo di aristocratici

A proposito di questo “tutti”, che sembra alludere al carattere corale della poesia di Majakovskij, faccio alcune considerazioni generiche sull’Io ipertrofico del poeta, sul forsennato soggettivismo che gli fu rinfacciato non solo dai burocrati. “Ma questi sono tutti poeti dell’Io, della dilatazione dell’io – ‘e sento / che l’io / per me è poco: / qualcuno da me si sprigiona ostinato’ (Majakovskij, La nuvola in calzoni, n.d.r.) – e cantano tutti in nome del popolo, si emarginano in nome del popolo, perché sono ‘eletti’. Sì, ‘eletti’. Aristocratici, dicevi bene tu. E vorrei s’intendesse come il loro essere aristocratici esclude proprio, cancella, ridicolizza il privilegio: il popolo, nell’oculato delirio di Majakovskij, è massa inconsapevole di aristocratici, è popolo ‘eletto’ proprio in quanto è popolo: ‘Calzolai e lattaie: / tutti geni!’. E questo, come vedi, previsto per subito, per un futuro che non mette neppure in questione la divisione del lavoro… Guarda gli scampoli di poeti che abbiamo oggi – demagoghi emarginati – che non possono vivere senza dare del noi alle ‘grandi masse’ – e che nessuno ha eletto a niente. Shakespeare direbbe: ‘Sono giovani, chi li mantiene?’”.

Ritorniamo all’oggi. Nel dire del giovane compagno emergono i soggetti emergenti, l’inevitabile ’68. Si parla della poesia e dei suoi destinatari. “La poesia è mondana – non ci vengano a raccontare i mistici dell’ultima ora che così non è: è così. E quei poeti si rivolgevano al popolo col proprio linguaggio, senza preoccuparsi per nulla dell’incomprensibilità. Sapevano che si può comunicare con le incomprensibili masse solo attraverso l’incomprensibile, che si può essere in regola col proprio tempo solo se si sconta fino in fondo la ribellione del proprio essere inattuali, se si è disposti davvero a pagar di persona il tentativo disperato di fondare una dialettica della differenza. Dice Edipo del cieco Tiresia: ‘Parlare non può più, può solo cantare parole incomprensibili’. Oggi vedo uno sforzo di gente che non sa assolutamente dipingere, scrivere, mettersi in scena, e surroga l’ermellino con la canottiera argomentando che alle masse bisogna parlare così, cioè male, cioè in canottiera, sennò le masse non capiscono. Cretini! Si potrebbe dire, si dice: oggi non ci possono essere grandi perché la situazione è piccola, non c’è, smania di assenza: i quattro furono giganti perché la situazione era gigantesca. Non è vero. Furono, semmai, più svantaggiati i quattro, compromessi com’erano con una storia che li sopraffaceva e, insieme, ‘rappresentava’ la loro irrappresentabilità, una controparte che li imbalsamava. Oggi, che la minaccia di catastrofe ha spazzato via gli assillanti orpelli dell’ottimismo, dovrebbe essere più semplice essere”.

Forse i quattro, insinuo, furono grandi proprio in ordine alla circostanza che essere grandi fosse durissimo. Con più metodo, il giovane compagno apprezza, nelle proposizioni di Carmelo Bene, il ripristino di quel paragrafo marxiano che afferma non essere la situazione storico-sociale a determinare l’arte secondo un rapporto causa-effetto; lamenta che certo lukacsismo, ridotto per di più a schemetto, abbia per lungo tempo imperato nella sinistra. “Perché la sinistra non deve essere estetica?”, ci chiede impetuosamente Carmelo Bene. “Perché si è mortificata per tanto tempo nell’ascetismo etico in nome di un dopo che ad ogni proroga si allontana? Ora che l’orizzonte si è abbuiato, la sinistra impara a vivere le contraddizioni che ‘sprigiona ostinata’. Ma temo una cosa, e ve la dico, cari compagni; temo l’acquiescenza al pluralismo, cioè una tolleranza diffusa per tutti questi fantocci dell’emarginazione, che potrebbe tramutarsi (e qui taccio dei pochissimi ‘aristocratici’ ancora su piazza) nell’estremo attentato a quei quattro ‘dandies della rivoluzione’ che eleganti marciavano nell’inconscio del popolo amato. Invece io ripeto: quei quattro, se vivessero oggi, sarebbero ancora più grandi. Infatti, vivono e lo sono. Siete d’accordo?”. E qui la discussione sciolse il galoppo. Ma la bobina del registratore ebbe l’accortezza di finire.

Vittorio Sermonti

da “l’Unità”, 1 maggio 1980

*Si pubblica per gentile concessione parte dei materiali raccolti in “Carmelo Bene in Majakovskij”, De Piante, 2022

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