10 Ottobre 2023

Il Grande Fratello ci fa l’occhiolino. George Orwell poeta

Autore dallo stile prosastico e lineare, informativo, didascalico, accessibile, e impregnato inoltre, e ineluttabilmente – viste le tematiche politiche, ideologiche e le osservazioni sociali, viste le intenzioni satiriche, polemiche e le testimonianze dirette –, di gerghi specialistici e tecnici, tra cui quello burocratico, nelle opere narrative e saggistiche George Orwell ha sì lasciato qualche traccia della sua vena poetica, di fabbro di versi, ma lo ha fatto in maniera tanto episodica e con esiti tanto discontinui da non suscitare particolari entusiasmi da parte della critica, né la necessaria attenzione da parte degli editori, ragion per cui il suo ampio pubblico mondiale non lo conosce in questa veste, per nulla reclamizzata a fronte di un brand tra i più celebri, nel panorama letterario novecentesco, come ulteriormente testimoniato dalla recente serie di nuove traduzioni in lingua italiana dei suoi libri più noti, in particolare 1984, appena scaduta la settantina d’anni di durata dei diritti d’autore, pista già battuta in lungo e in largo, e significativamente preferita a delle avventure più insolite, alla proposta di qualcosa d’inatteso, che potesse suscitare maggiori curiosità e sorprese.

Certo, non provocherà la stessa “sorpresa” che provocherebbe la “scoperta” di un Honoré de Balzac sonettista, di un Ezra Pound narratore, o di un Jack Kerouac che mai si fosse cimentato col Kammerspiel, eppure, nel rendere disponibile per la prima volta in maniera completa una produzione rimasta costantemente sottotraccia, una produzione che copre peraltro tutta una vita, non si offre soltanto una serie di testi perlopiù misconosciuti e in larga parte inediti di uno dei più importanti autori del XX secolo, ma anche l’occasione per ricondurre alla sua semantica originaria e più basica un aggettivo che è diventato, con tutti gli evidenti aspetti positivi e negativi che ne conseguono, una sorta di cliché di linguaggio: “orwelliano”. È infatti l’occasione per fare un po’ di genealogia relativa alla scrittura del britannico d’origine scozzese, nativo della città indiana di Motihari, ricordando a chi impiega tale vocabolo – derivato dallo pseudonimo che questi si scelse allorché si affermò nella scena letteraria e molto probabilmente ancor più utilizzato di “dantesco”, di “machiavellico”, di “dostoevskiano”, di “kafkiano” – quattro fatti utili a mettere almeno per un momento da parte il cliché per navigare anche i corsi d’acqua paralleli e talvolta confluenti a quello più percorso, e giungere alle sorgenti poetiche del futuro autore di 1984, un à rebours che meraviglia: il fatto che non esista solo e soltanto una distopia orwelliana; il fatto che esista anche e innanzitutto una poesia orwelliana; il fatto che non esista solo e soltanto una poesia orwelliana; il fatto che esista anche e innanzitutto una poesia blairiana; perché dietro allo scrittore di fama George Orwell ci fu un bambino e poi un uomo di nome Eric Blair – che prima di divenire tale fu poliziotto in Birmana, quindi maestro elementare, sguattero e negoziante.

È lo stesso Blair/Orwell a ricordare, nel breve testo autobiografico Perché scrivo, come tra i suoi primi tentativi di scrittura ci furono le poesie, a partire da un componimento dettato alla madre attorno ai quattro o cinque anni, sul modello di William Blake, uno degli autori che più lo ha ispirato, seguito da letture classiche e assolutamente inevitabili come quelle di Chaucer, di Shakespeare, di Milton, il quale gli regalerà una suggestione con un distico presente nel suo capolavoro (Paradiso perduto), dei romantici lacustri, Samuel Coleridge, William Wordsworth, e di una teoria di nomi che rivela un gusto piuttosto old-fashioned e controcorrente rispetto al modernismo di Walt Whitman, di W.H. Auden, vale a dire i “georgiani” Rupert Brooke, Robert Service, A.E. Housman, oltre a W.B. Yeats, cui dedicò un interessante studio, come pure a Rudyard Kipling e a T.S. Eliot, poeta di cui apprezzava la prima versione (La terra desolata), più di quella spirituale (Quattro quartetti), nonché direttore editoriale della casa editrice Faber and Faber che, alla domanda di pubblicazione della favola La fattoria degli animali, firmò una lettera di diniego. A proposito del Kipling che considerava uno sciovinista decisamente insensibile, ma non un fascista, rivela: “Per quanto mi riguarda ho adorato Kipling quando avevo tredici anni, l’ho aborrito quando ne avevo diciassette, l’ho apprezzato quando ne avevo venti, l’ho detestato a venticinque e ora [1936] di nuovo lo ammiro abbastanza”, sottolineando come una volta letto fosse in ogni caso impossibile dimenticarlo, e comunque degno d’esser studiato, a dispetto di una statura morale e di una qualità di scrittura a suo avviso non elevatissime.

Letto, Pound è menzionato soltanto di sfuggita in alcuni passi del testo consacrato a Yeats, del quale scrive: “Yeats, il poeta, si accorge a prima vista che il fascismo significa ingiustizia, e lo acclama proprio per questa ragione. Ma allo stesso tempo non si accorge che la nuova civilizzazione autoritaria, se arriverà, non sarà aristocratica”, mentre afferma in altre pagine, a commento di tre poemi di Eliot, e sono allora ormai iniziati gli anni Quaranta, che il fascismo non è necessariamente mortifero per la poesia, ma lo è nondimeno per la prosa.

L’approccio alla poesia, sia in veste di critico che in quello di autore, non è dunque per Blair/ Orwell disconnesso dalle questioni ideologiche e politiche, e il problema delle relazioni tra libertà e censura resta centrale anche riguardo la produzione di versi, ma il detto distinguo evidenzia un approccio e un rapporto almeno in parte differenti rispetto a quelli con la prosa. E, soppesando a livello quantitativo i temi della sua opera poetica, si può affermare che il secondo epiteto della definizione di socialista asociale, affibbiatagli dal suo maggiore divulgatore italiano, curatore del volume di romanzi e saggi edito nella collana “Meridiani” di Mondadori, traspaia ancor più quand’è poeta, rispetto a quanto non lo faccia quand’è prosatore.

Per dirla più esattamente, la questione va tuttavia al di là della censura e delle forme di esplicito assoggettamento del pensiero e delle possibilità di libera espressione messe in opera da un totalitarismo che il cliché linguistico definirà “orwelliano”. Il problema non riguarda unicamente le strategie di sorveglianza, il controllo del discorso pubblico e l’impoverimento della lingua, la scrittura della storia e il dominio di una burocrazia che finisce col soffocare la vita, l’imporsi di un sistema di caste. Il problema riguarda i rapporti che, come sotto i regimi fascisti e comunisti, gli scrittori e gli intellettuali in genere intrattengono con i partiti, col potere, nonché il loro possibile ruolo nelle strumentalizzazioni della letteratura da parte di chi lo detiene. Si tratta non solamente di una questione di libertà rispetto a un dato potere, o della libera scelta, da parte di uno scrittore, di volerlo sostenere con la propria poetica, ma anche del fatto – di certo eticamente financo peggiore – che un partito o un governo affermino di avere fondamento in un poeta, appropriandosene in maniera indebita o tacendo ciò che non è funzionale alla loro ideologia, per farne propaganda – come fa regolarmente lo sciovinismo – e per imporre in modo ingannevole delle idee tramite una pezza d’appoggio culturale, come capita, per fare un esempio odierno, con una destra italiana che designa, per oblio volontario o per ignoranza, Dante, sempre attuale, quale fondatore del pensiero conservatore nazionale, questi sciovinisti dimenticando come il sommo vate invocasse l’imperatore lussemburghese Arrigo VII affinché desse una “raddrizzata” all’Italia.

Se si fa qui menzione di appropriazioni di questo genere, è perché capita che Blair/Orwell stesso ne sia vittima, che venga trasformato in una sorta di santino laico, buono per essere esibito quale cliché di campione della libertà e del socialismo democratico da parte di chi se ne dovrebbe ben guardare, come di recente ha fatto una candidata della sinistra “liberal” alla presidenza degli Stati Uniti d’America. La donna impiegò infatti alcune frasi dello scrittore a mo’ di slogan in occasione dei comizi per la campagna elettorale, spingendosi fino al punto di mettere su carta una, se non diabolica, quantomeno stravagante interpretazione secondo la quale il capolavoro orwelliano sarebbe una messa in guardia da chi trasmette un senso di diffidenza nei confronti dei leader politici, degli “esperti” e della stampa.

L’innato senso di libertà che permeava l’uomo che ha firmato Fiorirà l’aspidistra, Una boccata d’aria, Omaggio alla Catalogna non avrebbe di sicuro potuto concepire né sopportare nulla di tutto questo, e la sua produzione in versi testimonia ulteriormente del suo spirito autonomo e sganciato da qualsivoglia potere, sempre pronto a smascherarne le insidie, sempre critico, sempre sfuggente alle più banali classificazioni, e dunque sempre – spontaneamente e pervicacemente – impossibile oggetto di appropriazioni, sempre altro e altrove. Quale altro fuoco oltre a quello di un engagement per la libertà culturale e politica, se non la poesia (con la possibilità che l’impegno vi s’insinui e vi trovi spazio)? Quale altrove più individuale e lontano da un mondo moderno che lascia inappagati, se non la poesia (con la possibilità che anch’esso vi s’insinui e vi trovi spazio)? Di fatto, negli anni giovanili, nelle lettere agli amici, nelle pagine dei diari, Blair/Orwell dà testimonianza di come il primo orizzonte cui si volsero le sue parole fosse quello musagete dei versi, in metrica e in rime. I più interessanti dettagli sullo sviluppo della sensibilità letteraria e sugli approcci alla creazione del futuro romanziere s’intrecciano quindi spontaneamente, nella sua infanzia, con la poesia, con composizioni nello stile del periodo di Giorgio V e di argomento naturale, a suo stesso dire brutte, con due testi patriottici pubblicati su un giornale locale, tra cui, nel 1914 – eccezione a quanto appena scritto, evidentemente dovuta alla giovanissima età –, una chiamata alle armi sulla falsariga “jingoista”kiplinghiana, con dei versi d’occasione (“poesie più o meno comiche che producevo a velocità che oggi mi appare stupefacente”), tra i quali una pièce in rime alla Aristofane, vergata in appena una settimana, e con una rivelazione per la vita, attorno ai sedici anni, periodo a cui risale, ai tempi del college a Eton (sul cui giornale furono pubblicati sette poemetti non tutti attribuibili con totale certezza), l’incontro con Milton, con “la gioia della parola”, la parola in quanto tale, che gli provocò un brivido, ricorda, fatto curioso vista la maniera di scrittura “piana” che svilupperà poi.

Eppure, sempre in Perché scrivo, tra le quatto grandi motivazioni che inducono uno scrittore a scrivere, Blair/Orwell non annovera solo l’impulso storico, l’intento politico, o sociale, ma anche l’egoismo individuale e, forse appunto inatteso da un prosatore del genere, l’entusiasmo estetico, che d’altronde scorge persino nella scrittura di libelli e manuali, e che diventa ovviamente fondamentale nelle forme di composizione vecchio stile che contraddistinguono molta parte dei suoi versi, pratica rispetto alla quale l’ambizione di “esser poeta” si stempererà soltanto ben oltre i vent’anni, a testimonianza del fatto che, sebbene non fosse per lui un desiderio da realizzare a tutti i costi, nella fase della sua formazione la versification lo interessasse quanto e più della prosa di finzione, saggistica e autobiografica.

La prima metà delle sue composizioni in versi, e in particolare quelle del periodo nel quale è bene ricordare di passata l’incontro in quel di Eton col maestro Aldous Huxley, futuro autore del romanzo Il mondo nuovo, che v’insegnava, e quelle dei giorni in Birmania, costituisce non solo un importante documento per il ritratto del cucciolo d’artista, ma anche l’esito più notevole di quella fase. La seconda s’inserisce invece in un quadro decisamente diverso, quello di uno scrittore la cui produzione è ormai matura e contraddistinta da una minore eterogeneità di temi. La tendenza sarà, a parte qualche rara eccezione, quella di focalizzarsi quasi esclusivamente sulla politica, con testi che integrano in modo diretto o indiretto le opere in prosa. Se purtroppo distrusse una “ode a una dark lady”, dedicata a una studentessa incontrata nel 1930, ha invece fortunatamente conservato una mezza dozzina di componimenti scritti a metà della decade precedente, tra i quali un paio, risalenti a esperienze intime in Birmania, scevri d’ogni aspetto politico, o satirico, d’ogni derivazione, d’ogni solennità, d’ogni velleità di parodista, i quali rappresentano i momenti migliori di tutta la sua produzione poetica, assieme a un “reportage” in versi dedicato alla povertà, che rimanda alle cronache che scrisse prima dei romanzi e alle prose d’esordio di Senza un soldo a Parigi e Londra, del 1933, e assieme alla serie pubblicata sulla rivista “The Adelphi”, fondata da John Middleton Murry, amico di D.H. Lawrence, mentre a spiccare nel decennio successivo saranno le stanze che testimoniano un piccolo episodio della guerra di Catalogna, quelle “byroniane” di una polemica con Alex Comfort, e quelle che ricordano i bombardamenti hitleriani, pubblicate sul “Tribune”, nel 1944, poco dopo esserne stato nominato direttore delle pagine letterarie, cui seguono tre brevi testi per La fattoria degli animali, e due ulteriori mai conclusi.

Il panorama che si profila, in questa collezione realizzata sulla scorta delle raccolte pubblicate in Inghilterra, di alcuni ulteriori componimenti rinvenibili in rete e di quelli che l’autore ha inserito nelle opere narrative e non, abbraccia echi del romanticismo e quadretti ironici, divertissements e confessioni intime, componimenti impegnati, invettive e slogan, e anche un epitaffio che può richiamare alla memoria l’Antologia di Spoon River, oltre a qualche esempio del genere “nonsense” che lo scrittore tanto amava e cui ha dedicato un sintetico ma importante saggio, proposto anch’esso per la prima volta in lingua italiana in chiusura del presente volume. A volte il Big Brother orwelliano socchiude il suo occhio. A volte fa l’occhiolino. A volte guarda altrove. Lo sguardo del lettore può dunque intravedere il serioso autore di Wigan Pier su delle strade inattese. E può meglio comprendere chi fosse l’uomo dietro il romanziere nel coglierne qualche lato nascosto. C’è l’apprendista poco più che bambino che si erge a bardo della nazione. C’è l’adolescente che scrive testi teatrali per una rappresentazione privata. C’è il giovane innamorato di una fanciulla e della bella campagna inglese. C’è lo studente cronachista di giochi di squadra e caricaturista che si diletta a svecchiare con un giovane marinaio il vecchio marinaio di Coleridge, e quindi il colono alle prese con delle puttane. C’è l’intellettuale corrosivo e politicamente scorretto per i canoni odierni. C’è il testimone delle guerre occidentali. C’è il socialista fustigatore della sinistra. C’è il cantore delle differenti stagioni e delle umane miserie, e c’è infine il forgiatore di frasi che flirtano con l’assurdo e di quelle della propaganda messa in bocca agli animali della sua fattoria. Senza dimenticare, tra gli espliciti slanci pagani della giovinezza e l’inesausto impegno civile della maturità, un quasi trentatreenne che confessa che avrebbe potuto essere un parroco felice.

Marco Settimini

*

“Il soldato italiano mi strinse la mano”

Il soldato italiano mi strinse la mano
Nel corpo di guardia, dalla tavola a fianco;
La forte mano e la sottile mano
Le cui palme sono capaci soltanto

D’incontrarsi nel rombare delle armi,
Ma, oddio! Quale pace che conobbi allora
Nel fissare la sua faccia malconcia
Che più di quella di donna era pura!

Perché le parole marce da vomitare
Nelle sue orecchie gli risuonavano sacre,
Nato sapendo ciò che ho imparato
Sui libri con studio lento ma alacre.

Le infide armi avevan scritto il racconto
Che lui ed io avevamo entrambi comprato,
Ma il mio lingotto d’oro era d’oro –
Oh! Chi mai l’avrebbe detto o pensato?

Buona fortuna a te, oh soldato italiano!
Ma lei non è mai col coraggioso soldato;
Cosa il mondo ti potrebbe ridare?
Sempre meno di ciò che hai dato.

Tra l’ombra e lo spettro,
Tra il rosso e il bianco,
Tra il proiettile e la menzogna,
Tu dove nasconderesti il tuo capo?

Perché dov’è Manuel Gonzalez,
E dov’è Ramos Fenellosa,
E dov’è Pedro Aguilar?
Solo i vermi sanno dove riposan.

I nomi e le gesta son già dimenticati
Ancor prima che si secchin le vostre ossa,
E la menzogna che vi ha ammazzati
Giace sotto una menzogna più grossa;

Ma di tutto ciò che ho visto sui vostri volti
Nessun potere potrà mai diseredarvi:
Il vostro spirito di cristallo
Nessuna bomba potrà frantumarvi.

Autunno 1942. Pubblicata in Looking Back on the Spanish War, New Road, Londra, 1943.

*

“C’erano ancora quelle vedute?”

C’erano ancora quelle vedute di case del diciannovesimo secolo,
Marcescenti, con i lati puntellati di ceppi di legno,
Le finestre rattoppate con cartone e i tetti con lamiere,
I folli muri dei giardini cadenti in ogni direzione?
E i siti bombardati dove la polvere di calce mulinava nell’aria
E l’epilobio si diffondeva sui cumuli di macerie;
E i posti dove le bombe avevano spazzato un lotto più ampio
E lì eran spuntate sordide colonie di casupole di legno
Simili a dei pollai?
Non c’era niente da fare. Non riusciva a ricordare.
Non restava niente della sua infanzia………

1949

George Orwell

*Per gentile concessione si pubblica l’introduzione di Marco Settimini e alcuni testi dal libro di George Orwell, “Non m’importa se Dio muore. Le poesie seguite da La poesia nonsense”, edito da De Piante

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