Tra i caratteri che connotano la nostra epoca ve n’è uno che più di altri balza agli occhi: il desiderio spasmodico di distinguersi, di apparire originali, anche a costo di spingersi talmente in là da negare l’evidenza e capovolgere la verità. Ma non è sgomitando e strillando assurdità che si diventa punti di riferimento per gli altri, dei maître à penser. Influencer forse sì, ma è tutt’altra cosa. Ecco dunque che Filippo La Porta, critico letterario e saggista tra i più autorevoli e raffinati, nel suo ultimo lavoro intitolato Disorganici. Maestri involontari del Novecento (Edizioni di storia e letteratura) propone una personale galleria di maestri del pensiero che hanno significato qualcosa per lui e per la nostra epoca; una quarantina di figure di intellettuali accomunati dal fatto di essere stati “controcorrente senza averlo voluto, senza aver cercato ossessivamente di esserlo” e privi della “smania di distinguersi che caratterizza il nostro tempo”. Si diventa “maestri” perché si vuole capire e non prevalere; perché si va in cerca della verità, qualunque essa sia, piuttosto che del sensazionalismo, della corona di alloro. E tuttavia: a cosa serve un maestro oggi? Ne abbiamo ancora bisogno? Non ne abbiamo già conosciuti fin troppi che hanno combinato disastri? Attenzione, dunque: i maestri vanno ascoltati, ma tenendo vivo lo spirito critico, conservando la propria indipendenza di giudizio. Spesso è ascoltando la loro voce che ci è possibile trovare risposte, comprendere “il nostro presente, per smascherarne gli inganni e conservare una «decenza morale»”, soprattutto “a uso delle nuove generazioni”. Maestri disorganici dunque, osserva La Porta, nell’accezione di Carlo Bo; ossia: «maestri senza autorità costituita, maestri non consacrati».
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C’è naturalmente una bussola a guidare l’autore nelle sue scelte e un filo rosso ad attraversare tutto il libro ponendolo in relazione di continuità con il resto della sua produzione. Da tempo difatti La Porta è impegnato nel tentativo di delineare una tavola di valori per il nuovo millennio, indispensabili per orientarsi in campo morale nell’epoca più caotica che l’uomo abbia sperimentato. Perciò, libro dopo libro, egli tesse la sua tela, lavorando a questa paziente costruzione, che è anche una personale ricerca etica. Il volume Il bene e gli altri. Dante e un’etica per il nuovo millennio (Bompiani, 2018) è da considerarsi senz’altro uno dei tasselli. In esso La Porta, attraverso una rilettura di Dante ispirata da una potente riflessione di Simone Weil, giunge alla conclusione che il bene è ciò che dà realtà agli altri, che riconosce umanità al prossimo accordandogli una dignità pari alla nostra; mentre nella dimensione del male rientra tutto ciò che toglie realtà agli altri: in sostanza, agendo bene è possibile far esistere il mondo; mentre operando male (ingannando il prossimo, umiliandolo) in un certo senso si fa sparire il mondo. Il male perciò nascerebbe da una cattiva immaginazione, da una visione distorta della realtà, mentre il bene passerebbe attraverso il dar valore agli altri, non ultima la capacità di ascoltarli: una regola di condotta da seguire non perché calata dall’alto ma per il bene del mondo e dunque anche per il nostro; perché solo ascoltando gli altri, osserva La Porta, è possibile farli esistere, e dunque far esistere noi stessi.
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Ma chi possiamo definire maestro, oggi, si domanda l’autore, in un’epoca in cui tutto scorre a velocità vertiginosa, che non riconosce il valore dell’esperienza e considera la storia un capitolo chiuso? In un’età nella quale i figli per molti aspetti ne sanno più dei padri e in cui si ritiene non serva conoscere la realtà ma solo saperla usare? Ecco la risposta: maestro è chi ci indica un limite oltre il quale una cosa da buona diventa cattiva, una parola da vera diventa falsa; chi sa risvegliare in noi qualche passione autentica. Ma come fare per riconoscere tra milioni di voci quelle che meritano di essere ascoltate più di altre? Siamo ancora capaci, si domanda La Porta, di riconoscere un maestro “noi abitanti del Terzo Millennio, imbevuti di egualitarismo, abituati a irridere qualsiasi autorità, riluttanti a subire la superiorità di chiunque altro, incapaci di qualsiasi umiltà? Per riconoscere qualcuno come maestro bisogna infatti ‘ammirarlo’, e oggi non ammiriamo più nessuno: tutt’al più lo invidiamo. Perché mai devo ammirare un altro quando posso farcela benissimo da me? Il nobile principio kantiano, che invitava a pensare senza la guida di altri, si è realizzato in maniera perversa: «Non ho bisogno di nessuno!»”. Senza contare che, come ricorda George Steiner, “in qualsiasi insegnamento è fondamentale il rapporto diretto, personale, vis-à-vis”, dal momento che “l’esempio conta più della dottrina” e che l’insegnante deve mostrare più che istruire. In fondo: “la verità deve essere sempre incarnata, vissuta piuttosto che enunciata”. Di questo La Porta si è reso conto da tempo: già nel saggio Indaffarati (Bompiani, 2016) egli ci ricorda che ciò che i giovani pretendono oggi è l’esempio più delle parole; o meglio: che alle parole corrispondano i fatti, le azioni. E dunque su quali basi è stata operata la scelta dei pensatori che compaiono nel libro? Perché questi e non altri? Inoltre: che cosa accomuna tutti questi maestri? A ben guardare si tratta in ogni caso di pensatori che, pur nelle differenze, paiono accomunati dal rispetto per alcuni valori fondanti, quali il primato della democrazia, pur con le sue criticità, la tutela delle libertà individuali coniugate a una profonda aspirazione all’eguaglianza, il riconoscimento della pari dignità di tutti gli esseri umani, il rifiuto della violenza se non come ultima ratio (un recente ricerca americana pare abbia dimostrato che nel Novecento la lotta non-violenta abbia dato migliori frutti di quella violenta). Ma più di tutto ad accomunarli a me pare sia la sete di verità, di conoscenza: perché è solo da lì che possono discendere regole di condotta dotate di fondamento. Verità che devono in ogni caso passare attraverso l’uomo e per l’uomo. Maestri dunque, si potrebbe dire, accomunati da una visione “neoumanistica”, la cui voce è immediatamente distinguibile per la esemplarità dello stile. Maestri che non si sono arresi, come osserva l’autore parlando di Giacomo Noventa (1898-1960), di fronte alla ineluttabilità del male e delle debolezze umane, perché, nonostante la consapevolezza che “nessuna politica potrà darci il paradiso in terra” e “che non c’è una perfezione originaria dell’esistenza umana da ricostituire”, rinunciare a lottare per il bene equivarrebbe a spogliarci della nostra umanità. E pazienza se l’esempio di Guido Capitini (1899-1968), voce appassionata che si batte in favore della lotta non-violenta e per il quale “si tratta non solo di non fare mai del male a nessuna creatura, ma di preservare la propria persona dall’odio, dalla menzogna, dai pensieri cattivi”, di “convincere piuttosto che vincere” (“Gandhi ha vinto senza torcere un capello ai soldati inglesi”), pazienza, dicevo, se il suo esempio non è esente da crepe, al punto che in certi momenti egli sembra in procinto di farsi prendere la mano dall’hybris e “da una tentazione di titanismo”, giudicando la Creazione “imperfetta e incompleta, tanto che bisognerebbe correggerla”, quasi fosse “sfiorato dal desiderio luciferino di sostituirsi al Creatore e appunto fare di meglio”.
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Differente dal liberalsocialismo di Capitini e Calogero (1904-1986) appare invece il “socialismo liberale” di Carlo Rosselli (1899-1937), per il quale “la prima libertà che occorre instaurare è quella all’interno del movimento, rompendo le incrostazioni dogmatiche e i grotteschi monopoli”. Forse a qualcuno fischieranno le orecchie, sentendo pronunciare queste parole, ma resteranno inascoltate. Un’alzata di spalle, ne sono certo, si sono guadagnate e continueranno a guadagnarsi le parole di Bobbio, che ci ricorda come occorra “essere liberali quanto al metodo e socialisti quanto al fine”, perché a ben guardare “il socialismo adempie il liberalismo” in quanto è «liberalismo in azione, libertà per la povera gente», emancipazione dai bisogni essenziali. Il punto è che, se vogliamo capire, dobbiamo ritrovare la capacità di ascoltare. Anche quando chi parla ci appare lontano. E dunque perché non lasciarci irretire, almeno per prova, per un momento, dal «cristianesimo socialista» di Ignazio Silone (1900-1978), dal suo “umanesimo populista, dai tratti evangelici”, e dunque così vicino ai poveri e agli oppressi” quanto “lontano dalle istituzioni ecclesiastiche”. Silone, che amo con poche riserve, è una anomala figura di scrittore. Un vero outsider, capace di smascherare “il carattere totalitario del comunismo ma senza mai arrivare all’anticomunismo aggressivo e un po’ fanatico di un Koestler”. È noto come nutrisse “verso i letterati un’ostilità contadinesca, fisiologica: «Mi tengo fuori della cosiddetta via letteraria (…) vi è un frastuono, una specie di permanente carnevale, della vita letteraria, da cui ho massima cura di stare lontano. L’industria editoriale, la giostra dei premi, il cinema, hanno creato in questi ultimi anni anche in Italia una atmosfera morbosa che considero deleteria specie per i giovani scrittori»”. In una lettera del 1952 Nicola Chiaromonte (definito il più “disorganico” di tutti gli intellettuali presenti nel libro) gli scriverà: «Il tuo problema come scrittore è, sempre più, un problema di semplicità e di verità che ti isola completamente dal mondo dei ‘letterati’, beato te». A proposito di Chiaromonte La Porta ha parole illuminanti, definendolo uno che “guarda al presente tentando di rileggere l’intera cultura occidentale a partire dai Greci”, un pensatore capace di scoprire il valore nascosto di tutti gli atti dell’esistenza “che non hanno avuto effetti visibili: incontri improduttivi, conversazioni apparentemente inconcludenti, amori non corrisposti”, e per il quale “il problema ultimo consiste proprio nel capire cos’è la realtà, nel saperla riconoscere”. Già, perché “per lui la realtà è qualcosa che mette in relazione l’individuo non solo e non tanto con gli altri (con la comunità) ma «con l’insieme delle cose – Natura o Cosmo che lo si voglia chiamare»”.
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Tra gli autori passati in rassegna non poteva certo mancare Carlo Levi (1902-1975), per il quale “il movente della politica” consisterebbe nella realizzazione di “«una superiore coscienza etica»”. Attraverso le sue opere egli ci racconta “la disillusione del dopoguerra e la restaurazione ad opera dei partiti di massa”, mostrandoci in quali modi nel Novecento il marxismo abbia monopolizzato ogni critica alla borghesia e all’esistente.
A un certo punto, nel libro compare una folgorante riflessione marcusiana sull’arte che non posso non segnalare: “l’opera d’arte dà forma a un mondo, che è diverso da quello quotidiano però non è fantastico, e anzi «ha maggior verità del mondo quotidiano» – come l’aldilà dantesco – poiché in esso gli uomini pensano e sentono ciò che normalmente reprimono, disconoscono, occultano”. La riponiamo con cura nel cassettino della mente che custodisce i tesori più preziosi. E come non citare George Orwell (1903-1950), mio pallino fin dai banchi di scuola. È attraverso il suo “testardo, disarmato e quasi eroico bisogno di dire, semplicemente, la verità: su di sé, sugli altri, sul mondo” che apprendiamo una lezione di vita memorabile. Orwell, “straordinario scrittore politico, la cui prosa limpida ed essenziale rappresenta ancora oggi un modello stilistico”, è un perfetto esempio di parola incarnata: egli spende la sua vita nel tentativo continuo di “provare sulla propria pelle tutto ciò di cui parla: prima tra gli irredentisti birmani, poi con i barboni e le prostitute parigine, poi con i minatori del Nord dell’Inghilterra, poi con i repubblicani nella guerra civile spagnola”. E se da una parte “ci insegna che qualsiasi avversione al totalitarismo, qualsiasi rifiuto di regimi autoritari deve fondarsi sull’amore per qualcosa; nel suo caso l’amore per la gente comune”, dall’altra egli ci pone di fronte a verità scomode, senza temere l’impopolarità: “la guerra, nonostante i suoi orrori, soddisfa un bisogno umano, probabilmente insopprimibile, di epicità, di rischio, di avventura. Perciò nazismo e stalinismo dovettero prevalere sulle socialdemocrazie, impegnate solo a promettere sicurezza e comodità”; e ancora: “nessun bambino al mondo si divertirebbe a giocare con dei pacifisti di stagno”. E se a Sartre, qualche pagina più in là, rimproveriamo l’idea che tutto debba essere subordinato alla politica, anche la verità, tuttavia gli riconosciamo, tra gli altri, il merito di essersi battuto “contro ogni essenza, radice, mito della purezza, religione del sangue, radicamento in un luogo: no, l’esistenza precede l’essenza!”. Mentre del suo amico-nemico Camus, “inguaribile individualista” e solitario, tratteniamo molti altri preziosi insegnamenti, tra cui l’idea che “il rifiuto dell’esistente ha senso se nasce non tanto da una utopia futura quanto da una esperienza vissuta di felicità”. Non per nulla “è un autore che gli adolescenti di ogni tempo percepiscono come intimamente fraterno, per la sua disarmata purezza e per il suo oltranzismo morale, un po’ refrattario all’ironia. La sua prosa «lucente» (Fortini), lirica e meditativa, ci porta sempre alle radici dell’esistenza e agli interrogativi di fondo”. E come trascurare Hannah Arendt (1906-1975), per la quale “il male non coincide tanto con l’apatia politica, con il prevalere della sfera privata su quella pubblica quanto con l’assenza di pensiero” (Eichmann che esegue meccanicamente gli ordini provenienti dall’alto). “Se pensiamo all’attuale ideocrazia” osserva La Porta, “che incoraggia il non-pensiero e l’assenza di critica, potremmo scoprire che certe premesse del nazismo sono tutt’altro che superate”. Vale la pena ricordare che la Arendt “in una lettera a Scholem scriverà che lei non ama popoli o stati ma soltanto i suoi amici. Come se l’autenticità più profonda, quella dei nostri affetti intimi, si riservasse unicamente agli individui concreti, tangibili con cui, casualmente e per scelta, entriamo in relazione durante l’esistenza, e non riguardasse organismi collettivi”. Un’ovvietà solo apparente, considerata la frequenza con cui ce ne dimentichiamo.
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Un capitolo dedicato a Norberto Bobbio (1909-2004), dal dopoguerra in poi “coscienza critica della sinistra italiana, una specie di arbitro e di oracolo, quasi un papa laico, un profeta perlopiù inascoltato ma anche la figura più autorevole cui ricorrere nei momenti di crisi ideologica dei partiti di sinistra”, non poteva mancare. E nemmeno un ritratto di Simone Weil (1909-1943), che proprio in Italia “sembra incontrare la dimensione gioiosa, e più originaria, del suo pensiero (tanto da parlarne come del suo paese natale)”; qui il cristianesimo sembra schiuderle “la propria verità spirituale, contigua al corpo, all’incarnazione, ad una percezione della bellezza e dell’ordine del mondo”; benché nel volume Attesa di Dio (1942), le capiti di osservare “come la bellezza del mondo, assolutamente centrale nell’antichità – in India, in Cina, in Grecia, in Isaia – «è pressoché assente dalla tradizione cristiana», a parte le mirabili eccezioni di san Francesco e san Giovanni della Croce”. Secondo la Weil “ognuno deve fare la propria parte e agire secondo coscienza, però senza pensare di poter controllare le cose, senza illudersi che se dipendesse dai nostri desideri la realtà sarebbe tanto migliore”. E tuttavia arrendersi al male significa dargliela vinta e consentirgli di privarci di tutto, perfino della nostra esistenza.
A Pier Paolo Pasolini (1922-1975) La Porta ha dedicato negli anni letture e studi. Dunque non poteva non fare capolino. “Pasolini è l’intellettuale che più ha influenzato la mia formazione” ricorda, “eppure devo riconoscere la sua immensa distanza da me, perché incarna una figura tragico-eroica, a tratti autodistruttiva, assai lontana dalla mia esistenza, come dall’esistenza ‘normale’ dei più. Amava la vita, ma in un modo decadente, «puerile» (come diceva)”. Egli “sosteneva di voler vivere ogni istante in una tensione e in un rischio totali e in questo mi ricorda un’altra grande figura della cultura novecentesca, Michelstaedter, con la sua scelta netta tra la persuasione o la retorica, questi grandi e perentori aut-aut, mentre io credo che l’esistenza sia fatta di et-et, cioè di continui compromessi, la famiglia, il quotidiano (con la sua regolarità), perfino il genere del romanzo sono tutte formazioni di compromesso. Pasolini invece rifiutava il compromesso, non a caso gli piaceva tanto l’estremismo dei Vangeli, quel Cristo che invita chi lo ama a rinnegare se stesso o che condanna l’albero del fico perché non dà frutti, benché – lo ricordo – si è probabilmente in marzo e dunque non può darli (Gesù lo condanna ugualmente proprio perché non è andato oltre se stesso)”. Oggi Pasolini, “celebrato da tutti e diventato uno stucchevole santino, è una figura non imitabile, e – insisto – tragica, lacerata, terminale, in ciò estranea alla nostra tradizione cattolica, quella per cui nella Dolce vita felliniana, come sottolineava proprio Pasolini, il tragico diventa spettacolo e il negativo sprigiona sempre una vitalità”; e dunque in nessun modo può rappresentare un modello “nonostante abbia illuminato con una chiarezza esemplare contraddizioni che riguardano ancora oggi tutti noi e questo nonostante le sue non fossero idee originali”. Ma è soprattutto “la trasparenza esistenziale del suo pensiero, per cui dietro ogni sua frase, dietro ogni concetto da lui formulato, si riesce a dedurre lo stato d’animo che l’ha prodotto”; è questo legame “molto forte tra la biografia e il pensiero, tra il vissuto emotivo e la riflessione (evento raro nella cultura italiana) che fa di lui un grande comunicatore”, ancora capace di sedurre le giovani generazioni, “ipersensibili a questa trasparenza emotiva (come l’ha definita Piergiorgio Bellocchio) e della stile”.
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Un posto d’onore, nel libro, viene naturalmente riservato a Primo Levi (1919-1987), campione di verità, il “Montaigne del Novecento” (Ernesto Ferrero), che attraverso i suoi libri noti e celebrati in tutto il mondo ci rivela “tra l’altro che dietro la smania di potere c’è non tanto una pulsione di morte quanto una volontà di vivere spinta all’estremo e ai danni di tutti gli altri”.
Alcune parole voglio spenderle infine per Italo Calvino (1923-1985). Benché sia stato – come riconosce La Porta – solo a tratti “disorganico” al sistema, egli è pur sempre un “vero e indiscusso classico del nostro tempo e della modernità, letto e studiato a scuola (dalle elementari fino alle superiori) tanto da competere con il Collodi di Pinocchio”, e come tale “ci lascia una straordinaria lezione fatta di uno stile limpido e concreto, preciso e fortemente comunicativo, di una prodigiosa immaginazione applicata alla più minuta osservazione empirica”. In Lezioni americane, “parlando della ‘visibilità’ (ma sarebbe meglio dire ‘immaginazione’), si mostra sorprendentemente preoccupato e anzi angosciato dal «diluvio di immagini prefabbricate» da cui siamo inondati e indica una specie di pedagogia dell’attenzione per non smarrire del tutto la «facoltà umana fondamentale» di «pensare per immagini» oggi messa seriamente a rischio”. E tuttavia la sua testimonianza “politica” più significativa “è quella che si incontra alla fine delle Città invisibili, a proposito dell’«Inferno» in cui abitiamo: «Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare e dargli spazio».
Altri nomi illustri sono presenti: Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Anna Maria Ortese, Cesare Garboli, Leonardo Sciascia, Alberto Moravia, Franco Fortini, Augusto Del Noce. Ma fermiamoci qui; il mio consiglio è di leggere non necessariamente un capitolo di seguito all’altro (gli autori appaiono in ordine cronologico riferito alla nascita) ma secondo gli umori del momento. Libro ricchissimo di riflessioni, vero breviario laico da comodino, esso finisce per risultare un autoritratto di La Porta stesso, intellettuale tra i più intelligenti in circolazione e uomo, come ho già avuto modo di dire, la cui mitezza non va scambiata per debolezza, semmai riconosciuta come forza: la forza della ragionevolezza. Buona lettura.
Gianluca Barbera