18 Dicembre 2024

“Gli editor? Inutili. Volevo scrivere come piace a me. Così ho fatto”. Elogio di Erskine Caldwell

Erskine Caldwell cambiò – il calcolo è per difetto – ventotto case, in cui ospitare – mai tutte insieme – le quattro mogli. Con una di queste – la terza: June Johnson, studentessa all’Università dell’Arizona – il matrimonio durò una manciata di mesi. La ragazzina odiava viaggiare. Caldwell, invece, era un vagabondo nato. O meglio. Era una specie di asceta della scrittura. Per sei mesi si rinchiudeva in casa a scrivere, giorno & notte; per gli altri sei mesi girava il mondo.

L’ultima moglie, Virginia Fletcher, si adattò ai suoi estrosi ritmi, gli fece da segretaria. Si sposarono la notte di Capodanno del 1958 e l’unione si protrasse, felice, fino alla morte di lui, trent’anni dopo. Con la seconda moglie, la fotografa Margaret Bourke-White, Caldwell scrisse alcuni memorabili reportage sul Sud degli Stati Uniti e sull’Europa dell’Est. In Unione Sovietica era un mito. Grazie alle royalties ottenute dalle vendite dei suoi romanzi, poté pagarsi la suite più cara dell’albergo National, a Mosca, con salotto ovale, pianoforte a coda e tappeto in pelle d’orso. Era il 1941; appena quindici anni prima, Caldwell faceva la fame. Abitava nel Maine con la prima moglie, Helen Lannegan, e i due figli piccoli: scriveva, tagliava la legna, mangiavano ciò che aveva coltivato, patate e rape, per lo più.

Alla morte – l’11 aprile del 1987, ottantatreenne, ancora pimpante, con quel viso candido e spavaldo, da angelo boxeur – scrissero che era “lo scrittore più letto del pianeta”: tradotto in quaranta lingue, aveva venduto ottanta milioni di copie dei suoi libri. Non frequentava i salotti letterari, malsopportava, genericamente, gli scrittori, “meno scrittori conosci meno possibilità hai di farti intrappolare in quel pantano di letteralismo che per me odora di morte”, diceva. In un intervento pubblico, William Faulkner lo nominò tra le divinità del romanzo americano, insieme a Hemingway, Dos Passos e Thomas Wolfe. Lui alzò le spalle. “Sono uno scrittore ordinario, niente di più, non mi importano queste classifiche. Ciò che mi importa sono i libri che ho scritto. Parlano da soli”.

Agli esordi, un po’ tutti rifiutavano i testi di Caldwell. Lui raccoglieva le lettere di diniego in una scatola da scarpe; scriveva con un berretto da marinaio in testa, un maglione, il giubbotto, il cappotto e una sciarpa di lana sulle gambe: non poteva permettersi legna né riscaldamento. Quando Maxwell Perkins – il mitico editor di Hemingway, di Fitzgerald e di Thomas Wolfe – gli scrisse che gli era piaciuto un suo racconto, Caldwell gliene inviò centinaia, un racconto al giorno, per “Scribner’s Magazine”. Perkins li respinse tutti. Caldwell ne inviò uno a settimana. Perkins gliene comprò un paio “a tre e cinquanta”. “Tre dollari e mezzo mi paiono pochi”, ghignò Caldwell. Quando Perkins gli scrisse che intendeva dire trecentocinquanta dollari, la vita di Caldwell, d’improvvisò, virò verso il meglio.

I critici hanno detto che il genio di Erskine Caldwell sta nell’ideare storie semplici, animalesche, in cui l’ambiguità della natura umana viene, per così dire, argentata da un oscuro fascino. Hanno detto che Caldwell è una specie di entomologo: studia gli uomini come fossero insetti, ne descrive le microscopiche abitudini, guarda ciò che nessuno vuol vedere. Dona splendore al perverso.

Il suo primo romanzo, Il bastardo, uscì nel 1929, l’anno in cui Faulkner pubblicava L’urlo e il furore. Accusato di oscenità, fu proibito nello stato del Maine e in una lunga sfilza di altri stati americani. Il libro, di truce bellezza – un tempo lo sfoggiava Mondadori, ora ritorna, in nuova versione, per De Piante – racconta le peripezie di un uomo del sottosuolo, Gene Morgan. La scena – frugale, feroce – in cui Gene si accoppia con la madre, prostituta di infimi bordelli che lo ha abbandonato neonato, ha uno stigma da tragedia greca, segna la fine del sogno americano. D’altronde, a tratti, il romanzo ha ariosità che ricordano Walt Whitman, un’ansia da fuggiaschi che prevede Jack Kerouac. La scure del fato che spezza a mezzo le vicende dei singoli personaggi la rivedremo nei primi, sonnambuli libri di Cormac McCarthy.

Riassunto, per pigrizia, in due romanzi – Tobacco Road e God’s Little Acre – Erskine Caldwell ha rappresentato, per decenni, la fierezza del grande scrittore americano. Scontroso, tutto ciò che scaturiva dalla sua penna veniva letto con avida dedizione. Alla giovinezza, misera, costretta in mille mestieri, fa da incantato controcanto il successo, clamoroso, inatteso, e la traduzione dei romanzi in film dall’esoscheletro hollywoodiano. Caldwell, ossessivamente concentrato nella pugnace perfezione della frase, ignorò i fasti della fama, rilasciò qualche incattivita intervista – in calce, pubblichiamo i passaggi più potenti di quella rilasciata nel 1958 all’“Atlantic” –, visse sempre da par suo, con la perizia del miniatore e la premura del bandito, del paria. Fu un pioniere nell’arte di esistere; mentre i suoi pari, i Faulkner, gli Hemingway, crollavano stritolati dalla depressione o dall’abuso alcolico, Caldwell restò sempre il robusto giovanotto di Moreland, Georgia, figlio di un pastore itinerante, che amava ascoltare gli spacconi al bar e trarre da una menzogna l’iride della fiaba.

John Hersey, estremo esteta del “New Journalism”, Pulitzer nel 1945, sagace scrittore, compilò un Tribute to Erskine Caldwell di effervescente efficacia narrativa. Ecco l’attacco:

“Nacque povero, Erskine Caldwell, il 17 dicembre del 1903, in una minuscola canonica di tre stanze, posta all’incrocio tra vaste campagne di cotone, nella contea di Coweta, Georgia. Il padre, Ira Sylvester Caldwell, era ministro della chiesa presbiteriana riformata. La madre, Caroline Bell, insegnava inglese e latino nei college per le giovani ragazze della Carolina e della Virginia. Il nonno coltivava cotone. Il reverendo Caldwell veniva spesso trasferito da una parrocchia all’altra, dalla Georgia al Tennessee alla Virginia. La madre fu la prima insegnante di Erskine; durante l’infanzia, lo vestiva con abiti bizzarri fatti in casa. Il bambino aveva lunghi capelli ricci, che la madre adorava e si rifiutava di tagliare: un giorno, giunta in visita, la figlia maggiore, un’infermiera, imbottì di sedativi la madre e portò Erskine da un barbiere. A tredici anni, il ragazzino scrisse il primo ‘romanzo’: contava ventidue pagine e i genitori, una volta letto, rimasero sconvolti dalla sua ortografia. Fu così che decisero di mandarlo a scuola.

Quando era ragazzo, il padre portava Erskine con sé durante le visite pastorali. Il figlio non avrebbe mai dimenticato la lavanda dei piedi, un rituale di comunione con l’argilla, un’orgia intravista dietro un fienile, uno spettacolo di serpenti e l’esplosione glossolalica di un fedele che cominciò a blaterare nella sua lingua sconosciuta, così carica di malie”.

Un tempo, Erskine Caldwell era conteso dai grandi editori italiani, Mondadori e Bompiani su tutti, che di lui hanno pubblicato quasi tutto. Una delle tante ristampe di Fermento di luglio (Mondadori, 1971), reca in copertina un disegno di Ferenc Pintér: un uomo corre a rompicollo sulla lama di un coltello; il cielo è azzurro, le nubi paiono cagnetti, la scritta, rossa, in basso, è esemplare: “uno dei più tesi e drammatici romanzi americani di sempre”.

Negli anni Ottanta e Novanta il radicalismo di Caldwell, quell’impero di povertà, razzia e nero erotismo, privo di impegno sociale e di provocazioni modaiole, rovinava il paesaggio, fu accantonato, come larghi tratti della letteratura del Sud. Oggi, miracoli dei decenni in migrazione, l’effetto è conturbante. Quei libri hanno la purezza delle cose in rovina.  

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Non ho messaggi da dare al mondo, voglio soltanto scrivere. “Quando scrivo voglio rappresentare, voglio narrare – nient’altro. Ogni tanto, ho la sensazione che le persone credano che voglia riformare qualcosa o cambiare qualcos’altro. Tutto ciò che mi interessa, invece, è scrivere una storia interessante. Alcuni lettori mi scrivono chiedendo cosa significhi una scena particolare, che cosa intenda davvero dire. Beh. Nulla. Non significa nulla. Non ho messaggi da inviare al mondo. Ciascun lettore trovi il senso di ciò che scrivo in se stesso. Se il senso è crudele, deploralo. Se non ti piace, leggi altro”.

Fino in fondo all’orrore. “La censura – come l’autocensura – è un problema: non puoi mettere alle strette uno scrittore – e se è lui a ficcarsi in una strettoia, non è uno scrittore. Quanto a me, agisco come un dottore. Se uno ha la gamba in cancrena non mi lascio lenire da un violento scossone alle viscere e mi rifiuto di operarlo perché è orribile vedere un corpo mutilato. Se fossi un medico, ovviamente, farei del mio meglio per operare il malato. Lo stesso vale per la scrittura. Bisogna andare fino in fondo – fino in fondo al male e all’orrore. A uno scrittore non importa cosa è o non è osceno: vuole soltanto raccontare al meglio la sua storia… Non esiste l’oscenità in letteratura. Condizionati dalla società a pensare cosa si possa o non si possa dire, i lettori ritengono che ci siano cose che non si devono scrivere. Poveri idioti”.

Scrivo ogni giorno, mi rendo insopportabile. “Il mio metodo? Diversamente da molti miei colleghi, chiamiamoli così, non prendo appunti. Ho un’idea. Microscopica. Che posso esprimere, diciamo, in dieci parole. Comincio da lì. La scrivo. Vedo se funziona. Prendo un foglio e scrivo la mia frase. Forse ne seguirà un’altra, poi un’altra e un’altra ancora. Forse no. Tutto qui. Mentre scrivo, butto via molto più di quanto conservo. Una stessa idea la rivedo almeno una ventina di volte. Di solito, scrivo un romanzo in sei mesi. Scrivo ogni giorno, dalle nove di mattina alle cinque di sera. Scompaio. Mi rendo insopportabile ai più. Non mi taglio i capelli, non mi lucido le scarpe. Devo essere soddisfatto, in pace con me stesso – di ciò che penseranno gli altri non mi importa nulla. Se sono felice, non smetto più. Rispetto agli altri, non ho un lettore ideale, non me lo figuro – scrivo per me. E basta. Tutto qui”.

Gli editor? Inutili. “Gli editor? Finora si sono rivelati inutili. Utili, per carità, a correggere eventuali refusi. Non che non accolga con favore le critiche di un editore o di un editor: è che penso di saperne più di lui. Se mi dimostri che sono sulla strada sbagliata, sono disposto a cambiare qualcosa, a rendere più nitido il mio dire… ma non accade mai. Penso che sia stato il mio primo romanzo a convincermi che sono il miglior editor di me stesso. Quando ho scritto Tobacco Road ho lavorato, come al solito, dieci o dodici ore al giorno, ogni giorno, per otto o dieci mesi. Quando lo terminai ero soddisfatto. Ovviamente, all’epoca non sapevo nulla sullo stile né su come era giusto scrivere un romanzo. Lo sottoposi a Scribner. Maxwell Perkins, l’editor di allora, aveva letto alcuni miei racconti. Dopo aver letto romanzo mi scrisse, laconico: ‘Vogliamo pubblicarlo; non vogliamo cambiare una virgola’. Quel giudizio suppongo che mi abbia dato la sicurezza di cui dispongo. Ciò non vuol dire che scriva in modo perfetto – tutt’altro. Ma questo è un altro discorso”.

Tutti devono scrivere poesie – e cestinarle. “Come tutti, ho scritto poesia. Ora ho cinquantaquattro anni, all’epoca ero un giovane ribelle. Mi ci misi per un anno. Ho messo insieme alcuni versi, avevo poco più di vent’anni. Naturalmente, nessuno volle pubblicare quella roba. Allora, scrissi a Louis Untermeyer. Mi rispose con una lettera in cui diceva che la mia poesia non era migliore né peggiore di quella che scrivono migliaia di giovani americani. Mi disse di cambiare genere. Aveva ragione. Tutti devono scrivere poesie per poi cestinarle e passare al romanzo”.

Un matrimonio con le parole. “Nutro grande rispetto per la scrittura cinematografica, ma non mi sento in sintonia con quella roba. Il mio scopo è vedere la parola stampata, nient’altro – tutto ciò che è al di là del libro è in un certo senso superfluo per me. Mi piacciono le parole sul foglio bianco, mi piace la loro forma, il modo in cui si compongono in frasi. Mi piace sperimentare, ma con la parola su carta. Mi piace contrarre le frasi, con cui ho contratto una sorta di rapporto nuziale, mi piace farle belle”.

Divoratore di dizionari. “Non saprei dire come diventare uno scrittore, figuriamoci uno scrittore di successo. Intanto, bisogna desiderarlo, poi bisogna disciplinarsi. Pratica, lavoro. Come un medico o un avvocato. Pratica, tirocinio, studio. Ma non basta. È necessario l’addestramento. Leggere. Leggere di continuo, una volta che si è presa confidenza con le parole. Io divoro i dizionari, ad esempio – mi affascinano le parole che non conosco. Detto questo, non sopporto gli estetismi. Amo comprimere le parole. Scoprire come posso rendere ancora più sintetiche. Prendi la parola intrattenimento. È troppo lunga. Ne trovo un’altra. Festa. Non mi piace. Ecco. Cominciano i problemi. Bisogna trovare il terzo, l’esatto. E così via”.

Bruciare tutto, ricominciare da capo. “Mi ci sono voluti almeno sette anni per pubblicare qualcosa di decente. Maxwell Perkins accettò un paio di miei racconti per ‘Scribner’s Magazine’. A quel tempo, ne avevo scritti almeno un centinaio, insieme a una dozzina di romanzi. Non appena ho pubblicato quei racconti, ho bruciato tutto ciò che avevo fatto prima. Tutto quello che precedeva quei racconti era roba preliminare, mera pratica. Così, ho acceso un falò, mi sono azzerato, ho ricominciato da capo”.

Il coltivatore di patate. “Prima di diventare uno scrittore, per sette anni, ho coltivato patate, tagliavo la legna. Appena potevo, scrivevo. Volevo scrivere una storia come piaceva a me. così ho fatto”.

Ora credono che sia un maestro di vita… “La gente crede che uno scrittore sia edotto in materie come psichiatria, psicologia, sociologia, filosofia e tutto il resto. Di solito mi arrivano lettere in cui i lettori mi domandano aiuto su questioni che riguardano la loro vita. Ne arrivano ogni giorno. L’ultima dice: ‘Forse dovrei tornare da mia madre perché sono infelice di vivere a Peoria, Illinois; cosa ne pensa?’. Naturalmente, non rispondo”.

Cosa chiedo alla vita? Fogli di seconda mano. “Non posso assumermi la responsabilità di dire come si dovrebbe scrivere. Io ho il mio modo di scrivere, non lo consiglio agli altri. Lo faccio a modo mio. Non mi piace che gli altri mi dicano di fare a modo loro. Sono un uomo insopportabile, un testardo. Non posso farci niente. Ecco perché non voglio dire a nessuno come si scrive. Non so neppure io come sono arrivato a scrivere ciò che scrivo: è stata una combinazione di errori, di revisioni, di evasioni, di fatalità. Tutto ciò che posso dire è che mi piacciono i vecchi fogli, ingialliti. Ecco cosa chiedo alla vita: vecchi fogli di seconda mano e un nastro per la macchina da scrivere. E un certo numero di macchine da scrivere perché mi dispero quando si rompono. Non mi piacciono i fogli troppo bianchi. Ciascuno ha i propri pregiudizi”.

*I testi qui tradotti sono estratti da: “Erskine Caldwell at Work: A Conversation With Carvel Collins”, The Atlantic, July 1958

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