22 Settembre 2022

Storia di Charlotte Mew, cacciatrice di ombre

C’è qualcosa di incantatorio nella figura di Charlotte Mew, questa specie di piccola fiammiferaia della poesia, sulla soglia di tutto – perciò, nei suoi versi, la presenza di cancelli, porte, stanze da abitare e abiurare, il sonno, il sogno mentitore. Nata a Bloomsbury, non era sufficientemente abbiente per far parte del circolo dei coniugi Woolf – lei, Virginia, con fare benedicente, disse, di una che fu la sua abbacinante profezia, “è davvero interessante e così diversa da ciò che si legge in giro: anomala, ecco” –; nata nel 1869, era troppo vecchia per iscriversi tra i modernist, troppo strana per stare accucciata tra i “georgiani”, John Masefield, Rupert Brooke, Robert Graves, per intenderci – eppure, di lei disse Siegfried Sassoon, “è il solo poeta che quando lo leggo mi fa saltare in piedi, mi fa sentire un groppo in gola”.

Naturalmente, fu Ezra Pound a scoprirla, nella sua vasta razzia di talenti: nel 1914 pubblicò su “The Egoist” una sua poesia, The Fête. L’altra – che aveva scelto lei –, Madeleine in Church, fu dichiarata disadatta – sacrilega, forse – dai redattori. Attacca così:

Qui, al buio, dove un santo di gesso
è più vicino alla nostra angoscia di Dio
e la piccola candela brilla, non così debole
come i lontani lumi dell’eternità,
vorrei inginocchiarmi, e non laggiù, all’aperto,
dove Cristo è appeso, e prega,
fin troppo simile a questo catrame di carne,
non del tutto divino;
perché un tempo, forse, quel misero santo
prima di incassarlo nella nicchia, prima della corona,
ha passeggiato per la città…

Va detto del carattere di Charlotte, però. Non badava alla fama, era terrorizzata dal pubblico, spaventata dal contatto, come se fosse depositaria di un veleno, stratega nel sortilegio. Edith Sitwell cercò di stanarla, di farne un album delle sue figurine liriche: Charlotte si ritirò, scrittrice restia, retrattile, troppo fragile. “Una donna grigia e tragica”, la disse la Sitwell, e non perse altro tempo. Sembrava laboriosamente cesellare il suo buio. Ne erano spaventati un po’ tutti: secondo Thomas Hardy era “la più grande poetessa del nostro tempo”, Walter de la Mere, per censirla, disse che “sa solo l’umanità”. Cosa significa?

Figlia di un architetto, Frederick Mew – tra l’altro, aveva disegnato il municipio di Hampstead –, morto che lei era ragazza, dopo aver dissipato il patrimonio, Charlotte visse una precipitosa povertà. Aveva sei fratelli: tre morirono nella prima infanzia, due crollarono nell’insania mentale, vissero in diversi ospedali psichiatrici. In casa restarono lei, la madre, Anna Maria Marden, e la sorella, Anne. Era affascinata dagli inferi, dalle zone oscure, Charlotte. Nel 1894, su “The Yellow Book”, pubblicò un racconto di inquieta bellezza, Passed. Vi si racconta, in prosa cangiante e lirica – sordida fusione tra W.B. Yeats e Edgar Allan Poe – di una donna che “in una serata di metà dicembre”, quando “lo splendore del gelo feroce, quel fetido freddo, convinsero alla danza il mio spirito”, si dirige verso i bassifondi. Incontra una prostituta, affamata, famelica, che le mostra, nella sua breve stanza, il corpo morto della sorella. Il momento patetico, la congiunzione al cospetto della morte, è rotto dallo sketch seguente: la donna, poco dopo, incontra la prostituta, allegramente pittata, che la ignora, al braccio di un cliente; la morte è merceria avara, merce avariata, rispetto alla vita.

Il racconto – nello stesso numero del repertorio stava al fianco di un testo di Henry James – sbalordì i lettori di sua maestà. Allo stesso modo, The Farmer’s Bride, la prima raccolta di Charlotte, stampata nel 1916 per “Poetry Bookshop” – e riedita nel 1921 con l’aggiunta di nuovi testi – fu libro per culti privati, remoti, rari. Charlotte Mew, pur devota a Emily Brontë, diluiva la sapienza di George Herbert negli sguardi di una di strada, una passante.

In sostanza, Charlotte e Anne si promisero di non sposarsi. Segnate dallo stigma sociale – i Mew erano una dichiarata genia di pazzi –, erano certe di poter installare una discendenza di folli. Nelle poche fotografie, Charlotte ha un viso spiritato, triangolare, iroso e impaurito insieme; predilige le fogge maschili. Penelope Fitzgerald, efficace scrittrice britannica (in Italia è in catalogo Sellerio), le dedicò una biografia, Charlotte Mew and Her Friends (1984), centrata sulle sue pulsioni sessuali: pare fosse lesbica. In This Rare Spirit. A Life of Charlotte Mew (2021), Julia Copus, studiosa e poeta – di qui, la levigatezza narrativa del lavoro biografico – rimette in sesto il quadro, concentrandosi sull’opera della Mew, diversamente inaccettabile. Secondo Andrew Motion, già “Poet Laureate”, si tratta “della prima, compiuta biografia di una scrittrice a lungo sottovalutata, considerata, ai suoi tempi ‘per lo più, la più grande poetessa vivente’”. Per intenderci: le ultime cento pagine del lavoro, corposo (468 pagine), sono dedicate a bibliografia, note, indici, reperti fotografici.

Nel 1923, grazie all’intercessione di alcuni amici – tra cui John Masefield e Thomas Hardy – la Mew riuscì a ottenere una pensione di Stato. Scriveva poco, scrisse ancor meno: come gli uccellini che vagano tra le briciole. Si sbriciolò, piuttosto, Charlotte. La sorella morì di cancro, la depressione si accanì a corromperla. Chiese di essere ospitata in un istituto di cura. Si uccise, ingollando del disinfettante, il 24 marzo del 1928. Era comune, all’epoca, uccidersi con il Lysol. Al dottore che cercava di risvegliarla disse, “Mi lasci andare, la prego”. Il “Kensington Post”, il giorno dopo, ribatté la notizia con un titolo banale: “Stanca di vivere. Una scrittrice suicida”. Sbagliarono l’età – 53 anni al posto di 58 – e il nome, Charlotte Mary New. Non era una novità per chi sedava le attenzioni, confondeva le tracce, trangugiava ombre.

***

Casa, al sole

Bianca oltre il cancello, luccica e dorme,
scandita dal sole: fiori sfibrati in giardino,
petali caduti da panche mai spazzate,
come bambini senza amore né cure
sognano nella gora delle ore.
Due ortensie azzurre sulla porta lebbrosa,
maculata di bruciature
fanno da scolta – e non c’è nessuno in città
che vegli sul passato, notte e giorno,
ed è quello che nessuno osa dire.
Ma io, lo straniero, avrei dovuto restare,
correre su sentieri infestati di erbe crude, catabasi
nel pomeriggio – clausura di dubbi –
ma credo di avere udito il grano di un grido:
dalla finestra superiore sbocciò un uccello –
me ne sono andato per la mia via.

*

Ho varcato i cancelli

Il suo cuore, per me, era spazio di palazzi, pinneggiavano pinnacoli, splendenti torri;
lo vidi come si vedono i volti nel sonno – non ricordo quanto ho dormito;
ricordo alberi, le bianche mura, vertiginose, e il sole appollaiato sulle torri;
le mura reggono ancora, perfino i cancelli; li ho varcati, li ho toccati,
mi sono insinuata nei meandri. Polvere sulle strade, sangue; il buio che dilaga;
il suo cuore è un luogo senza luce, abbandonato dai venti imperiali, dalle celesti piogge,
impuro e laido, come il cuore della città santa, la vecchia, abbacinante Gerusalemme
su cui Cristo ha pianto.

*

Accanto al letto

Qualcuno ha chiuso gli occhi lucidi, composto e reclinato
le mani erranti che coprono il petto, ferino:
così, limpido e silente, tu menti, come un bambino
che non vuole essere giudicato;
ma, credimi, nessuno crede che questo sia sonno.

Non basta chiudere la finestra per vanificare
l’azzurro, per soffocare il respiro della fiamma:
se poso la mia guancia sulla tua guancia, le tue labbra
grigie come un’alba, tremerebbero di vergogna,
e irrompe con il suo arcano, vecchio sorriso questa frode di morte.

Per tutta la notte non ti sei degnato di parlarci
è ora che ti svegli; i tuoi sogni non sono mai stati tanto profondi:
per dire, io ne ho visto i fili, flebili, fosforescenti e contorti,
d’improvviso spezzarsi:
questa è solo l’imperdonabile menzogna del sonno!

*

I cacciatori di ombre

Penso che somigliassero
a galli nel campo. Correvano
per catturare forre d’ombra
sulla strada assolata. “Ne ho una!”
gridò la sorella, “e io due!”, gli
rispose. “Eccone un’altra!”.
Sgattaiolano a piedi nudi,
lasciando tracce e trame di buio
sulla strada assolata.

*

Stanze

Ricordo stanze che hanno fatto la loro parte
nel bucare l’obolo del cuore.
La stanza di Parigi, quella di Ginevra
la piccola, allampanata stanza che sapeva di alghe,
e quel suono incessante di alta marea –
stanze dove, nel bene o nel male, le cose morivano.
Ma c’è la stanza dove siamo noi due i morti,
anche se ogni mattina pare che ci svegliamo
e torniamo a dormire, come faremmo altrove,
in letti più cauti e impolverati,
là fuori, al sole – sotto la pioggia.

*

Fin de Fête

Tesoro, in un simile giorno
non badare al risultato,
vedi, tutto va scontato,
diamo la buona notte alla soglia.

Buona notte e bei sogni a te –
ricordi i ladri di libri illustrati
che abbandonarono due bambini nel bosco? Dormivano
e di notte gli uccelli li hanno coperti di foglie.

Dunque avremmo dovuto dormire anche noi – ma, ora…
che cervello da mendicante!
C’è solo l’ombra di un ramo che ondeggia
al chiaro di luna, sopra il tuo letto.

Gruppo MAGOG