
“Io non sono M.M.”: Marilyn Monroe, poeta
Poesia
Elisa Gonzalez
«Questo è un gran bel romanzo scritto da un vero scrittore con un tocco neochandleriano di freschissima malinconia» (Antonio D’Orrico, Sette-Corriere della Sera, 2013).
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Ebbene sì, non lo nascondiamo. Dopo esserci imbattuti in quell’enorme pagliacciata che è l’ultimo romanzo di Walter Veltroni – Assassinio a Villa Borghese, il “giallo” pretestuoso e farlocco pubblicato da Marsilio, inzeppato di tutto e tenuto insieme col niente – ci siamo chiesti cosa può aver portato l’ex-sindaco di Roma a una scelta tanto stupida, quale stimolo può averlo mosso, considerando che nella sua produzione romanzesca non ha usato quasi mai farina del suo sacco, preferendo appoggiarsi a idee e stilemi altrui: perfino il suo inefficace slogan elettorale “Si può fare” venne copiato da “Yes we can” di Barack Obama. Insomma, abbiamo cercato di capire quale fosse l’anello di congiunzione fra la sua già scadente produzione romanzesca e il deragliamento finale.
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Abbiamo dunque guardato al mondo del scinema, come si dice a Roma, in particolare a quello trash, e non è stato difficile trovare il bandolo. Mentre il Sole 24 Ore usò il sistema ‘follow the money’ per scoprire l’identità della misteriosa Elena Ferrante, noi abbiamo usato il più semplice ‘follow the jockey’: seguire le bravate dell’indomito bj del Corriere della Sera Antonio D’Orrico – ormai divenuto un compagno di viaggio – che nel 2013 osannò Il gigante sfregiato, romanzo d’esordio del cineasta romano Enrico Vanzina, edito da Newton Compton.
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Già la copertina del libro offre le coordinate in tre fasce gialle, per facilitare i recensori: “Dalla borghesia romana ai bassifondi della capitale”; “Un po’ Chandler un po’ Simenon”; “Il giallo incontra la commedia all’italiana”. Ecco servito il metodo abile, sfacciato, distruttivo, dove bastano queste poche indicazioni per poter ottenere gli articoli quasi senza dover leggere il libro. L’editore lo sa bene, e per farsi strada ha imparato a innovare usando gli strumenti moderni del fascettismo selvaggio, che standardizzano l’offerta e appiattiscono la risposta di chi dovrebbe valutare. Peccato che, così facendo, ha anche avvelenato i pozzi, con le conseguenze che abbiamo sotto gli occhi. Poi, con un pezzo grosso come Enrico Vanzina è sufficiente che il book-jockey D’Orrico lanci su Sette il “gran bel romanzo scritto da un vero scrittore con un tocco neochandleriano di freschissima malinconia”, che tutto il resto passa in secondo piano, a cominciare dalla trama, una slegatura di trovate improbabili e abborracciate dove la coerenza è solo un’eventualità.
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Max Mariani, ex-avvocato della Roma che conta, già dotato di Porsche e casa nei quartieri alti, poi caduto in disgrazia come detective privato, si occupa dell’ex-rugbista sfregiato Sandrone che cerca di sfuggire a una donna senza scrupoli decisa a farlo fuori; ma è proprio quella bionda a offrire al protagonista un lauto compenso per ritrovare il gigante. Qui basta l’incipit per darne subito le indicazioni programmatiche: “La prima volta che incontrai Sandrone era un pomeriggio come tanti, uno di quelli in cui sarebbe potuto accadere di tutto. O invece niente”.
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Ecco la chiave che deve aver deliziato Antonio D’Orrico: come si ricorderà, quando nel 2010 pubblicò il suo unico romanzo, il risvolto di copertina lo definì autore de “la più discussa, discutibile, indiscussa e indiscutibile rubrica letteraria italiana”: una giravolta fra gli opposti quasi demenziale, che spianava la strada alla fungibilità di ogni cosa, dove fra questo e quello, fra il sopra e il sotto non c’è più differenza. Un trucco che funziona sempre, e che il romanzo di Vanzina ripropone quasi identico nel finale: “Ci fissiamo per una frazione di secondo. Un secondo nel quale c’era tutto quello che c’era stato tra noi. Molto. Ma anche nulla”.
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Non ridiamo, perché la cosa è seria. Lasciando da parte l’incompatibilità fra “ci fissiamo” e “una frazione di secondo”, concetti praticamente opposti, qui è la formula “ma anche” il sofisma principe: quello che non ha risparmiato nemmeno la politica di Walter Veltroni, offrendo lo spunto alle memorabili imitazioni televisive che lo perculavano. Non sappiamo se l’editor di questo libro sapesse quello che faceva; probabilmente le regole d’ingaggio erano di riprodurre frasi che suonassero bene, che creassero un’atmosfera sufficientemente ricalcata sui cliché, indipendentemente dalla combinazione delle parole. Al punto da ottenere veri e propri nonsense: “Malgrado i capelli incolti e lunghi, aveva comunque un viso pulito, somaticamente leale” (p. 10); “Ho amici che si contano sulle dita di una mano mozza” (p. 14); “Era un vecchio poliziotto disilluso, ma ancora in grado di distinguere i bersagli del suo cinismo stanziale” (p. 33); “Lo vidi arrivare in via Gioberti con aria dinoccolata” (p. 39); “Giuliani mi fissò con l’essenza etimologica della sorpresa stampata in faccia” (p. 135).
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Gli interrogativi s’inseguono. Cos’è la lealtà somatica? E il cinismo stanziale? L’aria può essere dinoccolata? La sorpresa può avere un’essenza etimologica? Tutte domande che andrebbero rivolte anche al bj D’Orrico, a cominciare dal suo tocco neochandleriano di freschissima malinconia: che odore ha la malinconia quando è freschissima? E quando prende il tocco neochandleriano come diventa? Queste sono le questioni più ardue, a cui si aggiungono le similitudini imbarazzanti che Enrico Vanzina sparge senza risparmio e senza pietà, un po’ come le citazioni che Veltroni semina a casaccio nei suoi libri:
“Sandrone, al contrario, sembrava avermela raccontata giusta. Dritta come la piega di un pantalone uscito da una tintoria”
“Lo fissai con un sorriso freddo come un ghiacciolo”
“La bionda mi lanciò uno sguardo gelido come avrebbe dovuto essere quella vodka”
“Entrò Giuliani, tarchiato come un boccale di birra”
“La lista di quelli che ha spedito al pronto soccorso è fitta come due pagine di versetti del Corano”
“Era visibilmente moscio, come una pianta da interni abbandonata in salone durante le vacanze”
“Li feci ingabbiare come scimpanzé allo zoo”
“Gli lanciai uno sguardo affilato come una lama”
“Combaciavano come le valve di una stessa cozza”
“La città pareva caduta già in catalessi, vuota come una bottiglia di Veuve Cliquot sul banco di un night all’ora di chiusura”
“Ronfava tranquillo, un rombo simile al motore di un vecchio battello fluviale dell’Amazzonia”
“Trovare il 439 non fu facile come mandare giù una pillola per il mal di testa”
“Era spaventata come una bambina al Luna Park, nella casa delle streghe”
“Quel nome mi rimbombò nelle tempie come un tuono”
“Nel furgone calò un gelo da inverno finlandese”
“Lugubre come un quadro espressionista tedesco”
“Uscii dalla Questura di via Genova leggero come un petalo di mandorlo”
“Vivevo dannatamente solo, in una casa lercia e solitaria come un calzino spaiato”
“Mi preparai un caffè nero come la pece”
“E mi concentrai di nuovo sul caso nudo e crudo. Era come una forma di groviera: piena di buchi”
“Mi stampò un bacio sulle labbra. Leggero come un fraseggio di Mozart”
“Lei mi lanciò uno sguardo affilato come una rasoiata”
“Fatma Sorrise. Un sorriso malinconico come un giorno di nebbia”
“Sfoderò un altro sorriso triste come un fado”.
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A questo punto, quasi rintronati dal bombardamento, ci siamo ri-domandati se l’editor abbia davvero avuto un ruolo nella sistemazione del testo, perché certi errori grossolani fanno pensare di no: “Dopo la lunga estate torrida che aveva avvolto per mesi la città, l’arrivo di quelle folate di vento freddo ti facevano già rimpiangere l’umidità afosa di agosto”; “Nuvoloni carichi di brutti presagi scorrevano come ombre cinesi sotto al coperchio del cielo”. Eppure, una chiamata in correità si legge a pagina 245: “Ringrazio Olimpia Ellero, la quale, con la sua intelligenza e la sua tenace competenza, mi ha suggerito semplificazioni narrative ed efficaci soluzioni di sintassi”.
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Efficaci soluzioni di sintassi: preferiamo non commentare. Questo romanzo, naturalmente, ha aperto una serie: l’editore Newton Compton sa battere il ferro, sa sparare le copertine, sa occupare le librerie con la sua roba. E quando il garbage viene prodotto da nomi importanti, può succedere che su Sette Antonio D’Orrico perda puerilmente la testa. Infatti, se il primo romanzo del filone “noir” di Enrico Vanzina era neochandleriano, con quello pubblicato un paio d’anni fa da Mondadori, La sera a Roma, il book-jockey va ben oltre: “Un intrigo complicato ma raccontato in maniera invidiabilmente scorrevole. La prosa di Vanzina si colora di toni quasi proustiani quando narra le tortuose faccende della nobiltà nera romana, in cui spicca un prodigioso marchese rock napoletano che rimpiange l’eleganza di un mondo perduto. I nobili di Vanzina sono un esercito di fantasmi invischiato nella melassa dei pettegolezzi mondani. E qui Proust lascia il posto a un altro grande scrittore francese: «Mi tornarono in mente il visconte di Valmont e il perfido ritratto della nobiltà francese che aveva fatto Laclos nelle Relazioni pericolose». È la seconda puntata che dedico a La sera a Roma. Lo faccio perché è un libro d’eccezione e trovo meraviglioso che questo libro fuori dall’ordinario sia stato scritto da uno degli inventori dei cinepanettoni”.
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Vediamo dunque come inizia questo libro d’eccezione: “Avevo trascorso l’intera giornata con in testa una vecchia frasetta spiritosa di Leo Longanesi: «Vissero infelici perché costava meno»… A circa settant’anni dalla sua prima pubblicazione, quella spigolatura raffinata ora risuonava maledettamente vera. Anch’io vivevo con sempre meno. La crisi economica stava azzannando il Paese e tutti erano più o meno infelici. Non solo per questioni di soldi. Si erano aggiunte questioni morali, il decadimento dei valori fondanti della convivenza civile, la mancanza di prospettive. Insomma, uno scenario lugubre, da basso impero”.
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Quella spigolatura raffinata, il decadimento dei valori fondanti, e – soprattutto – la citazione d’alto rango che apre tutto: siamo deliziati. E non basta. “Arrivai a piazza di Spagna, turbato da queste malinconiche riflessioni. Restai qualche attimo a fissare le vetrine di Babington’s, una tea room che coniuga il raffinato gusto inglese per quella bevanda a un arredamento elegante ma alla mano, più vicino al gusto romano. Il nome britannico del locale ricorda ai suoi sofisticati clienti che Roma fu amata non solo dal romantico Stendhal e dal tumultuoso genio di Goethe, ma anche da quel gruppo di poeti inglesi – Byron, Shelley, Keats – che di Roma apprezzavano soprattutto i colori”.
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Babington’s, Stendhal, Goethe, Byron, Shelley, Keats: siamo sul punto di svenire. Potremmo concludere senza aggiungere altro, salva la presa d’atto del chiaro tentativo di liquefare ogni canone letterario per crearne uno che assorba tutto, che affermi un campo indistinto dove ogni cosa può valere ogni altra, in cui si perdono i significati, in cui il senso della lingua passa in secondo piano e la critica viene silenziata. Si individua un parco lettori e lo si ammaestra con l’arma del d’orrichismo, con i cliché ripetuti e ricopiati, con le citazioni inconsulte e meccaniche, in un’assoluta riproducibilità tecnica senza criterio. Che il Cielo ci aiuti.
Paolo Ferrucci
*In copertina: Enrico Vanzina (la fotografia è tratta da qui)