Nel 1916, mentre nelle trincee del Carso infuria il quotidiano massacro, Ungaretti scrive Il Porto sepolto. Il poeta è un palombaro, uno speleologo celeste con le spalle cosparse di cenere oltramondana.
“Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi versi
e li disperde
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto”
Ecco: la poesia occupa una dolce e feroce agonia, appena prima dell’irrevocabile silenzio.
Come dire: la poesia è una torcia che attraversa il mondo e lo fa divampare, è il tuono che sconquassa le valli alpine, l’attesa di uno scioglimento, di un inizio antico quanto lo sguardo del lupo artico.
Sulla figura del poeta, creatura più di ogni altra indecifrabile, e sulla natura dello scrivere versi, s’interrogano in un dialogo serrato Lina Bolzoni e José Tolentino de Mendonça. L’evento è da celebrare con sobria e salutare esultanza. Poesia e stupore – antiche e nuove esperienze, per i tipi di Treccani, è più di un sommesso ragionare sul legame tra la versificazione e la magia, l’incanto e la meraviglia; è un’occasione preziosa per riflettere sulla necessaria e quanto mai inattuale spina dorsale che, dagli antichi babilonesi e forse anche prima, attraversa la storia del mondo come il lungo stoppino di una candela che arde per tutta la sua lunghezza fino alla fiamma divina.
L’esile e ricchissimo volume si divide in due sezioni: la prima, a cura della Bolzoni, indaga il potere della poesia, declinato nelle espressioni della magia e dello stupore. Vale a nobilitare queste pagine una citazione di Rilke, contenuta nelle indimenticabili Lettere a un giovane poeta:
“ricercate la ragione che vi chiama a scrivere; esaminate se essa estenda le sue radici nel più profondo luogo del vostro cuore, confessatevi se sareste costretto a morire, quando vi si negasse di scrivere”.
Occorre prendere le mosse da quanto di vitale, profondo e inesorabile sembra evocare questa apostatica fiducia nella poesia.
L’etimologia è ben chiara: dal greco poiesis e cioè “fare”. La poesia delle origini trasforma, agisce, scuote, maledice e santifica: in una parola “crea” il mondo, nello stesso momento in cui viene enunciata, o per meglio dire, annunciata. Il poeta è infatti un ponte, un semplice messaggero, che opera
“perché ispirato, posseduto da una forza al di fuori di lui, da un furore, da un entusiasmo che lo mette in contatto con un altro mondo”.
Chi scrive versi cartografa il mondo, le acque e i cieli per la prima volta. La poesia, la grande poesia, è la più fulminante e terribile forma di premonizione, oracolare responso del silenzio. Bisogna mettersi in ascolto di chi si trova dall’altra parte del fiume.
Come raffigurazione di Giano Bifronte, accompagnata dall’estasi e dal tormento, la poesia si installa sulla soglia, ai confini tra mondi diversi: tra umano e divino, vita e morte, natura e cosmo. Di qui, secondo Bolzoni, ne deriva anche “la sua forza, il suo incanto e la sua fragilità”.
In un excursus storico-letterario, sfilano, tra tanti altri, personaggi come Tommaso Campanella e Giambattista Marino. L’autore della celebre La città del sole mette l’accento sul poema come strumento magico, attraverso il quale il poeta, esattamente come un mago, diventa un “cacciatore di anime” pronto a gettare i suoi vincoli oltre la vista, l’udito, la mente e l’immaginazione. Il più importante esponente del barocco letterario italiano sancisce che della poesia “il fin è la meraviglia” e, attraverso un poderoso dispositivo di figure retoriche, rivela al lettore “nove luci e nove cose”.
L’ultimo breve capitolo è dedicato a Tolentino de Mendonça e a Wislawa Szymborska. Torniamo quindi nelle nebbie della contemporaneità o della postmodernità, epoca in cui la poesia pare insidiata e stritolata dalle pastoie di una società affamata di consumare merce usa e getta. E tra presagi di conflitti, orribili sogni, “occhi disseccati, fumiganti e indifesi”, occorre più che mai
“ripensare l’antico legame fra poesia e stupore, non dimenticare la magia della poesia e quanto ancora tutto questo sia necessario e vitale, anche se spesso difficile da recuperare e da interpretare, nel nostro mondo”.
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Gli otto capitoli della prima sezione della Bolzoni risultano forse talvolta un po’ troppo didascalici, ma hanno il pregio di introdurci, come attraverso corridoi e anticamere adornati di piacevoli arazzi e dipinti, al grande incontro che si terrà nella sala più importante del palazzo.
Dico palazzo, ma dovrei dire bosco. E infatti Tre percorsi nel bosco si intitola la seconda parte a cura di de Mendonça. E cosa vuol dire scrivere versi, se non distendersi supini sulla terra, addestrare lo sguardo al volo dello sparviere e indovinare lo stormire notturno della civetta?
Solido teologo e cardinale portoghese, José Tolentino de Mendonça è una delle figure di spicco della cultura cattolica. Soprattutto, è un poeta da leggere e rileggere. Ben altra trama, ben altra intensità e densità nutrono le sue riflessioni sulla poesia nella seconda e ultima parte del libro.
Sgomberiamo il campo da inutili sciocchezze: la poesia non dialoga e non prevede interlocutori. Il linguaggio poetico
“è qualcosa che avviene, un transito, un esodo, nel senso che scrive e riscrive, descrive e ridisegna, dimostra e mostra l’inesauribile mistero, l’incurabile inquietudine, la preoccupazione, la fame e sete di senso che arde fino alla fine di ogni corpo e di ogni avventura umana”.
La poesia accade e si dà nei cortocircuiti della comunicazione, nel suo conclamato fallimento, nell’annaspare del senso e della parola, nel deragliamento della grammatica, fino al graduale ammutolire dinanzi alla muta pietra del mistero.
Allo stesso modo, l’atto dello scrivere esige il sacrificio del proprio corpo, lo sfinimento dei sensi, affinché la materialità della scrittura dialoghi incessantemente con la materialità del corpo (“inchiostro e carta contro carne, sangue e pelle”). Si scrive perché si è condannati a farlo, o non si scriva affatto. L’espiare la condanna garantisce la redenzione e la santità. Così, scrivere versi diventa “l’aspirazione a interpellare l’indicibile”, attitudine propria della mistica e dei mistici, ai quali, riconosce De Mendonça, dobbiamo ritornare per illuminare l’enigma della letteratura.
La trasparenza, il rifiuto dell’ornamento e del superfluo:
“tanto la mistica come la poesia si basano sulla nuda evidenza di ciò che siamo, senza evanescenze, senza evasioni”.
La poesia è un incontro mancato, un appuntamento che l’ospite d’onore puntualmente diserta e riconfigura:
“la mistica e la poesia non possiedono l’oggetto che le fondano, esse sono sempre alter, sempre altre. Credono di trovare Dio avanzando verso l’incontro con lui, ma lui non c’è.”
Il secondo capitolo indaga il rapporto triangolare che fiorisce tra il lettore, il libro e l’esercizio della lettura. Qui, José Tolentino convoca quella che, in un’espressione che mi è particolarmente cara, Josif Brodskij definiva ne Il profilo di Clio la “mia famiglia mentale”: una costellazione di poeti e scrittori di ogni tempo e latitudine ai quali si guarda con affetto e sincera ammirazione.
Viene ricordata Etty Hillesum, di cui si ricorda l’ingresso in campo di concentramento con la Bibbia e una copia delle poesie di Rilke. Appare Thomas Mann che, durante la traversata in nave verso gli Stati Uniti, confessa di aver bisogno di “un libro nel mondo” per “un viaggio nel mondo”, creando così un parallelo speculare tra l’Oceano Atlantico e l’oceano narrativo inventato da Cervantes.
Esistono, in effetti, accadimenti biografici che rompono gli argini e si riversano nella trama di un libro e viceversa, quasi a sancire una sacra alleanza tra biologia, inchiostro e immaginazione.
Ci sono Stig Dagerman, lucente cometa del firmamento letterario, autore di Autunno Tedesco, dolente ritratto di una lacerata Germania postbellica; Jozef Czapski, che in un gulag siberiano tiene una serie di conferenze su Proust. Infine, c’è la commovente amicizia intellettuale e umana tra Eric Auerbach e Walter Benjamin, testimonianza bruciante di una letteratura che vale come diga e argine alla sofferenza nel cupo abisso della storia.
Il terzo e ultimo “percorso nel bosco” si snoda attraverso la Bibbia, l’opera che forse più di tutte “ci conduce a un’altra pratica dell’infinito: la lettura”. La Bibbia, il libro dei libri, è stata prima gestazione orale, recitazione ininterrotta, e soltanto successivamente libro. Quel giorno, dice il Talmud che gli angeli piansero.
Poderosa macchina creatrice di significanti al di là da ogni svelamento, la Bibbia è sorgente di stupore e incantamento, a patto che se ne colga l’irriducibilità semantica. Valga una volta per tutte quello che ha scritto la scrittrice portoghese Maria Gabriela Llansol:
“comprendere un testo è come comprendere un cane… È accettare di non parlarsi, di non capirsi, eccetto che tramite la compagnia”.
Susan Sontag, in un saggio che andrebbe letto e meditato, ha scritto: “al posto di una ermeneutica, noi abbiamo bisogno di un’erotica dell’arte”. Ecco, Tolentino invita a farci guidare dal piacere sensuale della lettura, tenendo bene a mente l’etimologia del verbo latino affectare, “andare dietro a”, come il movimento dell’anima che va in cerca dell’oggetto del suo desiderio.
“È davvero necessario lasciarsi catturare dal testo biblico, facendo dell’incontro con la parola un’esperienza d’amore”.
Mi piace concludere con un fulminante passaggio che ho ricopiato in bella copia dagli Appunti di Elias Canetti. Lo trovo indimenticabile e definitivo. Siamo nel 1945.
“Gli dèi, nutriti di adorazione, affamati nell’anonimato, ricordati nei poeti, e solo allora eterni.”
Lorenzo Giacinto
*In copertina: Edmond-François Aman-Jean, Orfeo e la sua musa, 1907