
Mondano e solitario, bello e bugiardo: sia lode ora a Frederic Prokosch
Dialoghi
Linda Terziroli
Un amaro spettro si aggira per la letteratura americana dell’Ottocento. Lo chiamavano proprio così, “Bitter” Bierce, l’amaro Bierce, l’uomo che nei suoi anni migliori fu il giornalista di nera e il polemista più sarcastico e luciferino di San Francisco. Distillato del suo crudele acume sono le corrosive definizioni di parole comuni uscite sul quotidiano The Wasp e poi raccolte nella sua opera più celebre fuori dall’America, quel Dizionario del diavolo unico tra i suoi lavori ad avere un destino editoriale chiaro e rintracciabile anche da noi (Bur lo ristampa da tempo). Per intenderci siamo di fronte al sarcasmo dall’umore più nero: “Nascita: il primo e il peggiore di tutti i disastri; Adolescenza: periodo della vita umana intermedio fra l’idiozia dell’infanzia e la stupidità della gioventù; Anno: periodo di 365 delusioni”.
Ma la scrittura di questo reduce della Guerra Civile, datosi al giornalismo d’assalto, va ben oltre il caustico repertorio di questo libello. Sono le storie brevi la parte della sua opera più posseduta dal demone della letteratura, dove prende per la prima volta forma per frammenti incandescenti quel racconto del lato oscuro della frontiera americana che avrà ricco seguito nel Novecento. Tuttavia la ricezione editoriale delle short stories di Bierce in Italia è stata disordinata e poco valorizzata, rischiando di smarrirsi in una enorme e diseguale produzione quelle che sono autentiche gemme di scrittura. Ben venga quindi la recente raccolta Spettri di frontiera edita da Adiaphora Edizioni e che mette insieme alcuni dei suoi racconti migliori.
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Sembrava quasi che lo spirito delirante e crepato d’abissi di Poe si fosse immediatamente reincarnato dall’altra parte dell’America. Solo che verso la frontiera e i deserti delle pianure, quelle visioni deformate e quegli orrori psicologici di nobile discendenza gotica appaiono declinati con più cinismo e come un ghigno impolverato. Ma la smorfia che attraversa i racconti di Bierce è meno di satiro e più di uomo ossessionato dalla morte, quella di chi ha combattuto in prima linea tutte le più sanguinose battaglie della Guerra Civile, non traendone nulla se non un perverso catalogo di situazioni-limite. Come quella che vede un innominato giovane ufficiale su un bianco cavallo correre da solo incontro al nemico, facendosi sparare addosso per rivelarne la presenza ai compagni (Un figlio degli dei) o quella di un capitano unionista che si suicida dopo essere stato costretto a fucilare una spia sudista che gli aveva precedentemente salvato la vita (Storia di una coscienza). Sono gli anni del “segno rosso del coraggio”, per dirla con Stephen Crane, una macelleria di anime e corpi in cui si mescolano onore e barbarie, ma anche, e in modo letterariamente più fecondo, realtà di sangue e allucinazione. È sul crinale tra queste due dimensioni che Bierce assesta i suoi colpi migliori, uno spazio che attraversa tutta la letteratura della frontiera americana, tra il realismo più aspro e il sovrannaturale degli spiriti evocati attorno al fuoco.
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Su una serie di storie che inseguono con più macabro il fantastico dozzinale delle storie di fantasmi all’inglese (per molto tempo tentò inutilmente di sfondare nel mercato d’oltreoceano) spiccano le storie di guerra e quelle dove l’orrore viene da una “deformazione prospettica”, una perturbazione metafisica tra vivi e morti che anticipa Lovecraft, non a caso suo grande estimatore. In Accadde al ponte di Owl Creek un civile filo-confederato è condannato all’impiccagione su un ponte di ferrovia e insieme al lettore vive in ogni dettaglio la sua fuga: la corda al primo strappo si spezza e il condannato sprofonda nel fiume, riesce a liberarsi dai legami e riemerge sotto i colpi di fucile nemici lasciandosi portare alla deriva dalla corrente. Guadagnata la riva, fa perdere le sue tracce nella foresta e ritrova la via di casa: sulla veranda la moglie lo aspetta a braccia aperte. Nel momento in cui sta per ricambiare l’abbraccio “sente un forte strappo sul retro del collo; una bianca luce accecante esplode intorno a lui con un suono come un colpo di cannone: poi tutto è tenebra e silenzio”. La storia si conclude così: “Peyton Farquhar era morto; il suo cadavere, con il collo spezzato, penzolava dolcemente da un lato all’altro fra i piloni del ponte di Owl Creek”.
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L’allucinata barbarie della guerra travolge il lettore di Chickamauga, racconto antologizzato ed elogiato da Calvino nei Racconti fantastici dell’Ottocento. Qui un bambino sperduto in un bosco è l’inconsapevole testimone di un incomprensibile e sanguinoso gioco: quando torna a casa la trova distrutta, la famiglia sterminata. La battaglia di Chickamauga è ormai finita: il bimbo non si è reso conto di niente perché, come il lettore scopre solo alla fine, è sordomuto. Addentrandoci nel soprannaturale abbiamo taglienti (data anche l’estrema brevità dei testi) e ironiche rivisitazioni in chiave western dei topoi del fantastico: un uomo che muore d’infarto alla vista di un serpente che si scoprirà imbalsamato (L’uomo e il serpente), un sepolto prematuro che trova la sua vera morte solo una volta dissepolto (Una notte d’estate), un caduto in battaglia che resuscita per morire nuovamente quando una pozzanghera gli restituisce la sua immagine di morto (Identità ritrovata). Il commercio tra vita e morte si fa di algida ed enigmatica geometria narrativa se lo scenario è quello di uno stallo alla messicana con se stesso nel magnifico Uno dei dispersi. Il soldato in questione durante una perlustrazione solitaria resta incastrato tra le macerie di una casa crollatagli addosso, scoprendo di avere il proprio fucile puntato al volto: ogni movimento potrebbe essere fatale ma la stasi significherebbe comunque morte. Con estremi lambiccamenti mentali, non meno che fisici, il soldato riesce a disinnescare il fucile, ma a questo punto lo stacco è sulla sua truppa che lo ritrova morto. Abbiamo letto gli ultimi deliri di uno strano condannato a morte, oppure era tutta una fantasia già post mortem?
“Questa rivoluzione in Messico mi interessa: voglio scendere giù a vedere se i messicani sparano bene”. È con una smargiassata finale rivolta agli amici che nel 1913, a più di 70 anni, Bierce lascia la California per andare a seguire da vicino la rivoluzione zapatista e poi forse passare in Sud America. Le ultime lettere da Laredo sono del novembre di quell’anno, poi le sue tracce scompaiono. Nessuno ha mai più ritrovato il corpo o le ossa. Ma l’amaro spettro di Ambrose Bierce cavalca ancora sulle pagine della frontiera, dallo sguardo grottesco di Flanney O’Connor ai notturni apocalittici di Cormac McCarthy.
Filippo Reina